Una cosa divertente che non farò mai più – David Foster Wallace

sabato 13 luglio 2013








In questo testo di David Foster Wallace, dall’efficace titolo de Una cosa divertente che non farò mai più, tradotto per minimum fax da Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo, la crociera diventa una metafora della nostra intera società, allegoria di un’epoca in cui il divertimento a ogni costo è diventato ormai una nevrosi.

Si tratta di un reportage che fu commissionato a Wallace dalla rivista americana Harper’s, ed è la storia, insieme comica e corrosiva, di un viaggio su un transatlantico extralusso e diventa man mano che si procede nella lettura il mezzo attraverso cui lo scrittore descrive una sorta di ritratto dell’americano benestante, con le sue manie, le sue idiosincrasie, le sue ossessioni. Ritratto in definitiva di un personaggio vorace e grottesco in cui è facile per tutti noi identificarsi: il consumatore.  

Giocoforza, Una cosa divertente che non farò mai più è anche un’indagine, arguta e consapevolmente critica, sulle dinamiche della pubblicità - memorabile in tal senso l’analisi stilistica che Wallace riserva alla brochure pubblicitaria della compagnia di crociera, la Celebrity  – è un’indagine tra il serio e il faceto sulle ragioni profonde del marketing, il cui intento è vendere un sogno, e vendere anche la sua interpretazione, sogno che non è altro che la proiezione fantasmatica delle aspettative di un gregge di consumatori manipolabili. Questo gregge ha, o è costretto ad avere, un'unica terrificante fantasia, nelle parole di Wallace, “Non fare assolutamente niente”, regredendo in un climax di deresponsabilizzazione allo stadio del feto nelle acque materne.

E quale miglior modo di regredire che farsi “viziare” da un manipolo di camerieri, pronti a soddisfare, o addirittura a prevenire, ogni esigenza del cliente? Questo, però, ha un duplice aspetto: se da un lato sembra placare l’insaziabile desiderio di non far nulla e di divertimento senza limiti, dall’altro è l’angosciante nemesi del nostro tempo paranoico. Alcune delle pagine più interessanti del reportage sono, infatti, dedicate alla paranoia di Wallace, desideroso di conoscere nel dettaglio i movimenti del personale addetto alla pulizia della sua stanza, di conoscere la nave nel profondo, nave  che come il castello kafkiano gli è, però, fondamentalmente preclusa da un misterioso comandante dal nome greco, Dermatis, ironicamente storpiato da Wallace in Dermatitis,  il quale  subodora nello scrittore le sembianze del giornalista ficcanaso, e in quanto tale  gli vieta l’accesso alla zona comandi, alla cambusa, e ad altre parti della nave.

Wallace descrive il suo viaggio con ironia, ma è presente nelle sue parole una critica anche feroce del turismo di lusso, visto come apice ed emblema del capitalismo. Lo scrittore americano, però, è consapevole di fare anche lui parte di questo meccanismo alienante, nelle sue parole è quindi pressoché assente ogni snobismo, ogni posa da intellettuale engagé. Così il suo reportage diventa un interessante, divertito e divertente, pezzo di letteratura pura, un’acuta analisi del mondo contemporaneo, visto attraverso le sue ossessioni: il divertimento ad ogni costo, come dicevamo prima, la professionalità e l’efficienza, esaltate fino a rasentare lo schiavismo, la rimozione dell’angoscia di morte, traverso l’ossessione per l’ordine e la pulizia, per esempio, e altro ancora.

In sintesi, con efficacia, con tono leggero e disincantato, Wallace analizza i miti del nostro tempo da una prospettiva diversa, confidando al lettore il proprio disadattamento, il proprio disagio d’individuo in una società massificata, la propria irrinunciabile libertà.  Wallace diverte il lettore con la sua descrizione di tipi umani; dagli inflessibili ufficiali greci ai passeggeri con le proprie manie, dal personale, costretto per ragioni professionali a esibire una posticcia cordialità di maniera, ai propri compagni di viaggio, spesso ridicolmente patiti di crociere, o infantilmente egoisti, o superficiali chiacchieroni.

 In sottofondo come un’ eco di risacca, come il rollio della nave sulle onde, si agita una sottile angoscia. E’ l’angoscia contemporanea dell’alienazione industriale che ci colpisce ora in quanto lavoratori, ora in quanto consumatori. E’ un’angoscia da cui sembra impossibile liberarsi anche in vacanza. “On n'échappe pas de la machine”, “Non si può sfuggire alla macchina”, scriveva Deleuze. E la macchina è in azione sempre, Leviatano insonne di cui Wallace ha dato l’ennesima, necessaria, descrizione, nella figura della nave Zenith, da lui ribattezzata Nadir, scrivendo questo saggio sui generis in cui l’ironia e il tono apparentemente scanzonato mi sembrano essere maschere della profonda angoscia contemporanea.





2 commenti:

Elena ha detto...

Si, così leggero, e penetrante.
Ho letto questo saggio in estate, forse spinta da un impulso a trovare qualcuno che rappresentasse fedelmente le mie angosce vacanziere. Ho voluto andare sul sicuro per così dire.
Sembra così naturale trovarsi con la risata morta in germe prima ancora di emergere alla coscienza, non appena appare chiaro che tutto il castello di una crociera (ma anche di qualunque altro tipo di vacanza media) è precisamente il segno del limite a cui può giungere l'umana consapevole alienazione delle proprie reali necessità. Non sapere come sottrarsi a questo tipo di convenzioni anche avendone consapevolezza, è tipico, ed è tipicamente angosciante leggerne e pensarci su. Per questo si evita per lo più di farlo. E' piuttosto divertente osservare le reazioni umane quando qualcuno tenta di gettare una luce critica su certe consuetudini sociali. Quasi sempre si hanno reazioni scomposte, irritate, di pura negazione. Quando non si riesce a sorridere di sè stessi normalmente si è molto vicini al centro di un problema.
Il concetto per cui siamo convinti di saziare ogni nostro bisogno "viziandoci", mentre invece spalanchiamo in noi stessi una voragine di aspettative ancora maggiori, è alla base dell'attuale concetto globale di esistenza. Il vuoto che ci abita non può che, prima o poi, fagocitarci tutti.
C'è da dire che Wallace doveva scrivere un saggio, quindi il suo occhio non poteva che essere esterno al meccanismo. Ma dopo aver letto numerosi racconti e altro di Wallace, è anche certo che in una situazione diversa l'esito di questo saggio sarebbe stato di pari complessità, sia letteraria che umana.

Ciao Ettore,

Elena

Ettore Fobo ha detto...


Dici bene, Elena, con le consuetudini sociali è preferibile non essere troppo critici, si toccano i nervi scoperti delle persone. Pensano: “Che diamine! Lavoro tutto l’anno. In vacanza mi devo divertire. “ E invece si annoiano. Tutto ciò accade quando si mitizza troppo il tempo libero, che libero non è mai perché in sottofondo nei nostri pensieri, nei nostri movimenti, è sempre in azione la catena di montaggio, quella che Deleuze chiama, appunto, la “ macchina”. Infatti, anche leggendo qua e là commenti a questo saggio, quasi mai ho visto emergere gli aspetti problematici della questione “vacanze” . Quasi tutti hanno colto nel saggio di Wallace l’aspetto meramente divertente. Ma c’ è di più, come ho cercato di evidenziare. Il nostro tempo è drogato di “divertimento”, un “divertimento” perlopiù coatto, senza gioia, falso, malato. E’ un obbligo, esattamente come il lavoro, di cui è il riflesso. Questo Wallace lo sapeva, e l’ha raccontato, con ironia e leggerezza certo, ma a quest’ironia sono impigliate alcune delle più angoscianti contraddizioni della nostra epoca.
Un caro saluto.