Gitanjali - Rabindranath Tagore

sabato 24 dicembre 2016





Leggo Gitanjali, l’opera che fece conoscere il grande poeta indiano Rabindranath Tagore  all’Occidente e mi accorgo  di quanto il tempo trascorso incida sulla percezione dei versi di un poeta. Sono passati,  infatti,  più di cento anni da quando l’opera fu scritta e se da un lato si sentono tutti sul piano  dei contenuti, dall’altro data l’atemporalità della parola poetica potrebbero essere stati scritti oggi e in qualsiasi tempo, da un mistico. Nel 1913 anno della pubblicazione l’entusiasmo della élite culturale fu enorme e valse a questo poeta il Premio Nobel.

Rilette oggi le sue poesie religiose inizialmente respingono per quel tanto di distante e datato che esprimono, soprattutto  per un animo tendenzialmente ateo come il mio. Il tema principale, infatti,  è la ricerca di Dio, ma non è un Dio metafisico, intellettuale,  un concetto ma una presenza fisica  cui si anela. Si anela al suo incontro, al suo contatto, non è un Dio astratto ma un “viandante” che può passare accanto alla propria capanna, un “assetato” che chiede dell’acqua, uno sfavillante re con il suo cocchio maestoso, un mendicante. Quanto di allegorico ci sia in queste figure non è dato sapere, Tagore pare credere con tutte le sue forze alla possibilità di un’epifania del sacro in forma umana. Il suo Signore  è a un passo da lui e insieme è lontano fra le stelle. C’è dell’innocenza in questa visione,  quasi della puerilità,  ma si tratta di un altro continente e di un’altra epoca, tutto va contestualizzato. Certo per un animo disincantato e smaliziato alcune di queste poesie possono parere favole ingenue.

Leggo Gitanjali nell’edizione Newton Compton, tradotta da Girolamo Mancuso e curata da Alessandro Bausani, edita nel maggio 2007. Non parlerò anche dell’altra raccolta contenuta nel libro,  Il Giardiniere per non appesantire questo articolo. Mi limito a dire che Il Giardiniere è  opera più varia, ricca e affascinante, ruota intorno al tema dell’amore, sviluppato con grazia e passione.

Tornando a Gitanjali, in quest’opera Dio è l’assoluto protagonista. È un Dio benevolo che, scrive Tagore, rivolgendosi a lui, ha fatto prigioniero il suo cuore, “nelle infinite reti/ della tua musica”, promettendo al poeta  e indicandogli la via verso “una calma straripante e silenziosa”. Ma è un Dio che si trova anche negli atti più umili della vita, arare la terra, spaccare pietre, “nel lavoro  e nel sudore della fronte. “

Si tratta di una poesia che,  più che recitata e letta, è cantata, spesso con accompagnamento musicale; la traduzione che occidentalizza le melodie in concettualizzazioni è più che mai un tradimento.

C’è della monotonia in questi versi che vanno sempre nella stessa direzione e insistono sulle stesse note, persa la ricchezza espressiva dell’originale, duole ammettere che Tagore pare oggi un poeta fuori dal tempo,  forse addirittura antiquato -  almeno in questa raccolta (perché già ne Il Giardiniere, come detto,  questa impressione è fugata) - per noi occidentali avvinti alle spirali del materialismo, ma probabilmente anche per gli indiani che sulla strada di questo materialismo si sono da tempo incamminati.

Cosa rimane di questo libro allora, oggi? Rimane l’incrollabile fede di Tagore di incontrare come tutti i mistici il suo amato Dio,  colui che ha impresso” il segno dell’eternità/ su molti istanti fugaci della mia vita”, rimangono alcune immagini terse come questa  Il mare di silenzio del mattino/ s’infranse in un mormorio/ di canti d’uccelli. “ , rimane la consapevolezza estatica che questa gioia mistica “non conosce parole”, che i mondi sono infiniti e sconfinati. C’è qualcosa di assolutamente delizioso nella sua visione della natura colma di una sacralità oggi per noi pressoché  sconosciuta.

Infine,  mi piace ricordare Tagore con i versi che amai in adolescenza,  che non appartengono  a questa opera, la cui piacevolezza è comunque come quella dell’acqua di sorgente, semplice e fresca,  e che forse solo il nostro occhio inquinato da troppe immagini chiassose e discordanti può corrompere.

Quelli a cui mi riferivo poc’anzi sono versi semplici eppure straordinari,  fra i primi che ho imparato a memoria:

“Il loto fiorisce in acque profonde.
Chi può coglierlo?
Sotto i nostri piedi l’erba umile
 è sempre al nostro servizio.”

2 commenti:

Silvia Pareschi ha detto...

La spiritualità indiana, così affascinante ma così difficile da comprendere per noi occidentali.
Un grande augurio di serene feste!

Ettore Fobo ha detto...


Grazie Silvia. Buone feste anche a te.