Con aspide-nastro all’intorno, una polposa luna albicocca l’occhio, incantato dal vanire infinito delle nuvole caduche, guarda chimerica regina, e sono chiodi roventi le stelle sul cosmico cranio di un Cristo
Frale qui l’anima galleggia, come un sospiro di neonato, lattiginosa luna custodisce la misura del suo primo grido.
In orfico silenzio fra fronde (galassia intrauterina ) vita ultraterrena pulsa. Ed è liquido l’umor della gatta: evaporazione felina che guizza, fra le erbe attizzate dall’ombra.
Scarabocchiato un infinito sta in venatura di foglia, è una goccia di latte la luna ora sul pastrano dell’assurdo.
Quando ho cominciato a scrivere per il blog, avevo in testa unicamente questa idea: provare la scrittura critica, affrontare il territorio minato della recensione letteraria, giudicare, organizzare il pensiero, quando in precedenza, devo dire seguendo le orme di Nietzsche o Deleuze, sulla scia di Carmelo Bene o Artaud, mi ero occupato più della sua disorganizzazione. Decisicosì di assumere uno pseudonimo, dividermi idealmente in due. Mi piaceva l’idea di essere letto, o di poterlo essere con più facilità, giacché in vent’anni di scrittura di poesie, avevo sempre sottoposto con cautela i miei versi agli altri. Qualche articolo di critica lo avevo pubblicato quae là, controvoglia e per inerzia. Non sono mai stato sfiorato dall’idea, che tutt’oggi reputo folle, di ricavare dalla letteratura qualcosa di più di una pacca sulle spalle, o un riconoscimento che sfiora sempre l’oltraggio. “Io mi vergogno, sì, mi vergogno di essere poeta!” scriveva Gozzano e tale è la condizione dei poeti oggi e sempre. Chi si vanta di esserlo è un impostore o comunque mi è sospetto perché il desiderio dei poeti è quello di essere trascurati, dimenticati, nascosti, come ha detto Carmelo Bene fino allo sfinimento,come ha mostrato Giorgio Agamben. Dopo la cesta di panni dell’infanzia quale miglior luogo in cui nascondersi di una poesia?
Certo, nella gran futilità dell’esistere talvolta affiora il desiderio di gridare al mondo con orgoglio la propria condizione di clandestino nella voragine del linguaggio, ma perché turbare il nulla, graffiare l’altrui indifferenza? Così si chiedeva e si chiudeva la mia anima, e anche se ora penso che intercettare qualche naufrago, interessato ai tuoi messaggi in bottiglia, possa essere una bella cosa, non dimentico questa profonda tendenza all’oblio.
Ettore Fobo è una maschera unicamente perché io sono una maschera, anzi spero più di mille, perché voglio restare il più possibile nell’ombra,e questo è il senso dell’arte secondo Wilde, “nascondere l’artista e rivelare l’arte”, sebbene a parte Wilde, Huysmans e qualcun altro da cui l’accetto, la parola arte mi faccia rabbrividire,giacché non possiamo continuare aignorare il dadaismo, e il suo allegro calcio nel sedere a tutte le categorie concettuali. A proposito dello pseudonimo, ho già scritto che è il dono di un amico, cui devo molto anche per altri motivi,è in realtà ancheil nome che io ho dato al personaggio di alcuni miei racconti, sin dall’età di sedici anni, facendolo mio.
Travestirmi da critico è anche un altro modo per nascondersi in una cesta, con la voglia matta di essere scoperti per provare quel brivido. Contraddizione vitale, sfumatura esistenziale. Quando Yeats parla di sé antitetico, e scrive che arrivare alla maschera è lo scopo del poeta dice una grande verità, quando Pessoa si disintegra in diversi eteronimi racconta della stessa urgenza.
Vincendo questa ritrosia a diffondermi, di cui ho detto, nel 2006 avevo pubblicato La Maya dei notturni, che raccoglieva le poesie scritte nel biennio precedente, ma che ora considero in realtà quasi un poema, quel quasi è dovuto al fatto che non era nelle mie intenzioni scrivere un poema, è stato un esito involontario. Tecnicamente però è un prosimetro, perché ci sono numerosi brani in prosa. Allora mi sono firmato colmio vero nome Eugenio Cavacciuti, ora ne pubblico un altro e ho deciso di assumere lo pseudonimo Ettore Fobo che ho sul web. Il libro si intitola Sotto una luna in polvere e raccoglie più di cento poesie, che ho scritto nell’arco di circa vent’anni, fra i quindici e i trentatré per l’esattezza. E’ pubblicato da Kipple Officina Libraria, nella collana Capsule. Ha190 paginee costa 8 euro. Pubblicherò qualche estratto, nei prossimi giorni. Non è distribuito nelle librerie. Potete trovarlo qui.
A proposito della mia poesia posso dire soltanto che sono partito leggendo Baudelaire e Rimbaud, Blake, Garcia Lorca,Poe, la Dickinson e tra gli italiani Campana, Montale e Quasimodo;subito dopo sono approdato a Laforgue, Eliot, Auden, Pound, Cendrars. I nomi sono tanti, impossibile citarli tutti, anche se mi piacerebbe, ma, diavolo, a rischio di risultare stucchevole nonposso non citare Saint John Perse, Borges, Majakovskij, Trakl, Huidobro, Corbiére … E oggi reputo Gottfried Benn la summa della modernità.Grazie dell’ascolto.
Oggi la rima è praticamente caduta in disuso, retaggio dei secoli passati, ma può essere recuperata sul piano dell’ironia, come fa Arbasino in questo Rap 2, datato 2002, che segue il precedente Rap del 2001. La sfida è resuscitare la poesia civile, anch’essa ormai abbandonata, rientrare nel vortice della Storia, fare le boccacce all’attualità e ai suoi linguaggi, in questo Arbasino è un punto di riferimento per tutti. Così la grande farsa della contemporaneità trova in questi versi la sua nemesi, ora ironica, ora sarcastica, sempre pungente e affilata. Se, come scriveva Wittgenstein, quella che chiamiamorealtà èessenzialmente un “gioco linguistico”, per decifrarla dobbiamo affidarci a colui che all’infame lavoraccio del verso preferisce la levità dello sberleffo, in questo senso Rap 2 è un’operazione riuscita di smontaggio dei miti collettivi, con le loro paralisi linguistiche.
Quella di Arbasino è una scrittura che non teme di utilizzarecerti cliché della musica pop,non ha paura di mescolare alto e basso, cultura popolare e classicità, regalandoci ritmi, riflessioni sul linguaggio, rievocazioni degli anni cinquanta o sessanta, indagini accurate sulle dinamiche della modernità. Arbasino è sempre mordace, sempre tagliente, mai scontato, riesce ad aggirare le secche del linguaggio comune, pur mimandolo parodisticamente, con leggerezza calcolata ci seduce con un linguaggio colorato e talvolta colorito, aggredendo le ipocrisie linguistiche con cui le”borghesie e le burocrazie” ci inondano per “evitare il concreto”. Come Pasolini, di cui Arbasino era amico, come testimonia la poesia intitolataPrivacy Fair, lo scrittore lombardo ha in orrore la litote, “non vedente, non udente, non parlante”sono gli stratagemmi con cui gli “avvocaticchi”, i piccoli borghesi, mostrano le piaghe del loro conformismo. Lontano da ogni dimensione di lirismo, quella di Arbasino è una poesia di giochi, marachelle, birbonate, in cui si manda a quel paese ogni solennità, ogni retorica da mausoleo. La letteratura è un gioco, non bisogna prendersi troppo sul serio, ma neanche scendere a patti con i luoghi comuni, luttuosi o ridanciani che siano.
Uno dei bersagli polemici è l’Illuminismo, come già in SuperEliogabalo, dove veniva definito”la minore età dell’uomo qualunque della strada”, qui nella poesia intitolata “E ora, poveri pensatori?”Arbasino lascia intendere che il culto della Ragione è ben misera cosa, e che forse dietro le mattanze del Novecento si allunga l’ombra di questa fede nel progresso e nell’intelletto. Certo a volte l’enumerazione caotica può risultare stucchevole, manieristica, e certi epigrammi sono un po’ troppo frivoli, ma tutto sommato la scrittura poetica di Arbasino è convincente nel presentarci il mondo come uno scenario di cartapesta incendiato da tensioni e da una “ferocia illimitata”.
La grande vacuità del linguaggio giornalistico, politico, mediatico, è stigmatizzata in nome della feconda follia del pensiero poetante, che fluisce ininterrotto, scalzando gli idoli linguistici a cui il mondo si sottomette per fatale inerzia e letale conformismo, che in un verso vengono definiti “trovarobato retorico”. In Odi profanum è certa narrativa a essere dileggiata:”La narrativa di signora mia / prospera sui disturbi del papà/ sui crucci e le pene della mammà / e della nonna, e sulle manie/di quella povera zia./ “. In altri versiad essere irriso è inveceil luogo comune del politicamente corretto che si rovescia facilmente in banali trasgressioni consentite.
Ancora una volta è la Critica della Culturaad essere perseguita, il regno di Arbasino è l’irriverenza, che vuole sfuggire anche alle “retoriche della trasgressione”. E’ chiaro che viviamo in un ‘epoca digrave involuzione, dove i conformismi massificati assurgono a verità metastoriche, tautologiche, e diventano il sacro per eccellenza, per cui Arbasino, sbeffeggiando i linguaggi della contemporaneità, opera nel senso di una profanazione, restituendoci, con la sua divertente e divertita parodia, il gusto della sconsacrazione.
Ci sono grandi della letteratura che sono stati cattivi maestri nella vita, ma alla fine ciò che rimane sono i libri, il resto, ideologia, vita privata, ossessioni, idee sociali, può essere tranquillamente considerato spazzatura. È il caso di Céline che in questo romanzo dissemina in una prosa irruente, definitiva, a tratti patologicamente intensa, barlumi schizoidi e idiosincrasie di scrittore, mescolando al nero dell’esistenza una risata sardonica. Al funerale della letteratura, perché questa è l’ossessione di Céline, “ Fatto sta che non si vende più niente “, probabilmente lo scrittore francese vorrebbe sghignazzare ma gli viene fuori questo ghigno amaro e terribile, sconcertante. Certo il libro è divertente, porta all’estremo certe intuizioni di una comicità fuori da ogni regola e agisce sui nervi come una scossa, liberando al tempo stesso tutta l’energia di una risata acre.
Scrive Deleuze che la grande letteratura è attraversata sempre da flussi psicotici, in questo libro Céline ci mostra cosa intendesse con “l’emozione del linguaggio scritto” che riproduce il parlato con tutte le sue incoerenze, i suoi tic e appunto la sua debordante psicosi, poiché ” l’emozione si lascia captare solo nel’parlato ’”.
Il tema è la letteratura moderna, con i suoi editori tromboni dileggiati, i suoi scrittorucoli commerciali che vendono poiché incontrano la mediocrità del pubblico, già dai tempi di Céline per lo più dirottato dalla lettura da cose come “il Cinema, la televisione, gli elettrodomestici, lo scooter”. C’è una comicità che è tutta nello stile di scrittura platealmente isterico, arrabbiato, apparentemente incontrollabile come una colata lavica, in realtà gestito come una festa nera da un abile intrattenitore suo malgrado, come lo scrittore francese. Il professor Y è la povera vittima designata, dovrebbe intervistare Céline ma viene brutalmente incalzato da considerazioni, invettive, esplosioni linguistiche che la traduzione di Gianni Celati restituisce splendidamente. Tutto è attraversato da una furia scatologica di degradazione di tutta la realtà a flusso di merda e orina.
Colloqui con il professor Y è anche un pamphlet contro certa letteratura alla moda con i suoi rituali di conformismo, la sua staticità fintamente pensosa. Céline non risparmia nessuno e se vomita i suoi insulti, ci rivela la sua intossicazione, la sua avversione per quel bolso mondo di perbenismi che è anche il nostro. Gli scrittori alla moda sono il bersaglio degli strali inviperiti di uno che si sentiva “scrittore lirico”, il cui “stile emotivo” era una pietra gettata nello stagno della letteratura francese; ma se non c’è lirica che possa fare a meno di un io, Céline conclude così la sua esperienza con il lirismo: “Il mio io non è per niente audace! […] con infinita precauzione lo copro sempre interamente di merda”. Il romanzo pare anche un paradossale saggio in cui lo scrittore francese, o meglio ancora la sua maschera, ci parla della propria letteratura da una visuale eccitata della paranoia, ci parla dell’argot, per esempio, in origine gergo dei delinquenti, parola criptata, “lingua di odio che ti stende secco il lettore”, che Céline fa roteare nella sua scrittura fatta di lampi e silenzi, grida storte e baldoria creativa. Il suo è un forsennato e continuo attacco psicotico alle fondamenta della Cultura ufficiale, una furia iconoclasta abbatte e deride il mondo della tecnica, del cinema, della letteratura, della musica, riducendo tutto l’umano a convulsione epilettica, a caricatura grottesca. Céline morde la pagina, e noi con lei, con irato fastidio, ma in questo romanzo la sua è una scrittura clownesca, una specie di balletto della degradazione e il suo occhio è quello del fool, non quello dell’ re, dell’autorità.
E’ una prosa paradossale, parossistica, si configura come una gag continua, piena del veleno della paranoia e, sullo sfondo, una colossale derisione. Lo “stile emotivo” è un virus che esplode, paragonabile a certi scavi nel linguaggio fatti da Antonin Artaud; così l’irruzione dei segni del delirio nella realtà ha esiti farseschi; l’uomo, ridotto a pupazzo sconvolto, non ha alcuna verità da comunicare, se non quella degradante della minzione perpetua che affligge il povero professor Y.
L’uomo è questa maschera patetica o tragicamente comica e vano sarebbe fare dei”binari storti” céliniani una retta via di ragionamenti, il suo “metrò emotivo” passa con un carico di umanità risibile; e ci ricorda che, come sempre, la grande comicità ci fa ridere e al tempo stesso ci spaventa.
Ettore Fobo (Milano, 1976) persegue l’attività poetica da oltre trent’anni, ha pubblicato qualche libro di poesia, in Italia e all’estero, vinto diversi premi, collaborato con riviste e blog. Nel febbraio 2020, poco prima della pandemia, scrive il Manifesto di un Movimento: il Mitorealismo del Sottosuolo, di cui è espressione l’antologia collettiva “Fiori del Caos”, da lui curata, uscita per Kipple Officina Libraria nel febbraio 2023. Nel dicembre 2024 la sua raccolta "Sotto una luna in polvere" vince il Premio Internazionale Città di Sarzana. Attualmente sta portando in giro il reading "Le poesie hanno i lupi dentro" - atti e incantesimi di poesia mitorealista":