sabato 22 settembre 2012
“Nell’ora, ormai, della cenere/ a pochi
passi il corso brulicava/ di commerci frenetici e ingannevoli/ e di delitti
consumati in sogno (…) ”
Giovanni Raboni
Nella collana di poesia del
Corriere della Sera esce l’antologia Nell’ora
della cenere, curata da Patrizia
Valduga, occasione per rileggere e
meditare il lascito poetico di Giovanni
Raboni, uno dei poeti e critici più influenti della seconda metà del Novecento
italiano. Patrizia Valduga - che fu sua compagna per gli ultimi vent’anni di vita,
oltre a essere una delle poetesse più importanti della scena attuale - nell’introduzione
riflette soprattutto sulla necessità di rivedere certe interpretazioni della
poesia di Raboni.
Si è sempre parlato, infatti, di
lingua piana, di linguaggio colloquiale, di understatement,
Valduga si sforza di riconoscere alla sua poesia altre dinamiche fin qui
sottovalutate. C’è del vero in ciò che
scrive la poetessa, il linguaggio di Raboni non è sempre riconducibile all’understatement, alla minimizzazione,
talvolta sembra erompere come un grido. Sostanzialmente però la mia impressione
è che Raboni fosse soprattutto un poeta attento a contenersi, a riflettere
nelle sue poesie una visione del mondo minimale e priva di retorica, alla
ricerca di una lingua essenziale, un poeta il cui impegno fu soprattutto
civile, non di rado politico; negli ultimi anni condannò il berlusconismo,
considerato sintomo di una drammatica involuzione, di un imbarbarimento dei
costumi. Allora sì che l’indignazione,
il grido di orrore e di ripulsa, diventano prevalenti.
C’ è presente in questi versi un’inquietudine e un disagio molto
contemporanei che Raboni supera con
eleganza formale(belli soprattutto i suoi sonetti) e un tono misurato, che però
a volte viene sorprendentemente contraddetto, sminuzzando i dati della realtà e
restituendoli attraverso dei flash, attraverso dei frammenti di saggezza
addolorata ma mai- mi sembra- disperata,
anche se la vita non è nient’altro, come
si legge nell’ultimo libro pubblicato in vita, Barlumi di storia(2002), un “ vecchio,
bizzarro canovaccio/senza capo né coda”.
L’antologia comincia con poesie
che risalgono agli anni Cinquanta, contenuti nella raccolta Gesta romanorum (1967), di cui sono
riportate una manciata di poesie, incentrate su una visione moderna della
vicenda narrata nei Vangeli.
“ Crocifiggilo/ perché questo è il mandato/ e la stanca vecchiaia
s’avvicina”
In queste poesie Cristo è
un’ombra, con la sua innocenza vilipesa, con il suo destino tragico, affiorano
dunque figure minori come quella del centurione, viene dedicata una poesia all’apostolo
Pietro ma sostanzialmente l’antologia ospita troppo poche poesie per farsi
un’idea compiuta della raccolta che appare molto stratificata, postmoderna
nella scelta di mescolare contemporaneità e antichità.
Nelle successive raccolte il
discorso progressivamente si affina e progressivamente Milano, la città in cui Raboni
è nato e vissuto, diventa protagonista, con le sue vie, le sue piazze, la sua
gente, ma sembra essere una Milano sotterranea, lontana dai luoghi comuni,
densa di storia. Perché, come chiarirà in una delle sue ultime raccolte, è
soprattutto ”la comunione di vivi e morti”
che interessa il poeta milanese, la continuità fra passato e presente.
Milano qui è rappresentata come
un luogo in cui il passato è ancora vivo, in particolare il poeta riflette
sulla peste che decimò la popolazione, peste che diventa emblematica e di cui
la città porta ancora le ferite per cui nei versi finali della poesia Una città come questa Raboni si chiede “non è qui/ che buttavano i loro cartocci /
gli untori?”
Sembra che così il poeta lotti per
preservare l’identità della città, consapevole però che essa stia svanendo,
come nella splendida poesia dedicata a Piazza Fontana, definita” il rimpianto o il rimorso d’una piazza”
o addirittura ridotta a essere non più
un luogo ma “nient’altro che il suo nome”.
E’ un’esperienza che chiunque
conosca Milano ha vissuto: la sensazione che progressivamente essa sia
diventata una città fantasma, in cui come fantasmi ci si aggira fra rovine del
passato e brutture del presente. Da qui l’impossibilità di amarla e al tempo
stesso l’impossibilità di separarsene, perché il luogo in cui si vive ci entra
fatalmente nel sangue e nel respiro.
La città è una presenza costante,
quasi un luogo della mente anche in questi versi d’amore, colmi però di altri
sentimenti, la paura, la nausea.
“Si raggrinzisce/ la città,
perde sugo e odore la sua buccia se solo/ pensassi di lasciarti. Non ci sarà/
posto per camminare. Picchierò la testa contro i lampioni./ La crescita di
foglie nei viali una cosa/ che raspa in gola e mi fa vomitare.”
Raboni pare un poeta di paesaggi interiori, non di
paesaggi reali, quando questi ultimi appaiono,(l’invisibile, sconfinata/mutezza
del mare) vengono subito assorbiti,
risucchiati e annientati da una consapevolezza tragica, diventano ”surrogato d’eternità “ in un “
tempo dei falsari e dei carnefici”.
Non tutte le poesie di questa
raccolta sono felici, in alcune l’intensità si perde, soprattutto certi
epigrammi sono un po’ stucchevoli, se non addirittura inutili, e hanno un senso
solo biografico (Solo questo domando:
esserti sempre / per quanto tu mi sei cara, leggero. /, oppure Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce)
e francamente non si capisce la scelta di inserirli. Qualche poesia dà inoltre l’idea
che dietro ci sia una mancanza d’ispirazione compensata dal mestiere. Raboni,
infatti, sembra qualche volte supplire
con la tecnica a un deficit d’immaginazione.
Comunque i suoi sonetti sono molto belli stilisticamente, anche se a volte
paiono tortuosi, eccessivamente pensati, esoterici, forse addirittura
artificiosamente ermetici.
E’ il destino di tutti i poeti, ingegnarsi per
sottrarre alla lingua le sue abitudini sclerotizzate, e lasciare solo poche
poesie importanti in un mare di cose medie, a volte mediocri, o comunque al di sotto dello
sfavillante mondo che la poesia fa intravedere.
Sostanzialmente però la voce di
Raboni s’irrobustisce negli anni, il che è un paradosso perché la mia
impressione è che il suo dettato si affievolisca quasi in un soffio. Così la
sua ultima raccolta Barlumi di Storia
contiene alcune delle sue poesie più belle e la sua visione della vita si rivela tragica.
Egli scruta in uno “specchio oscuro”,
umanamente spaventato come tutti dalla morte e dalla malattia, consapevole
della fragilità dell’essere umano, le cui domande rimangono senza risposta e
inascoltate.
Un grande ruolo ha la morte in queste
poesie, una morte temuta, una morte aspettata, che getta una luce sinistra sui
nostri atti.
La visione tragica di Giovanni
Raboni acquista così i suoi toni classici, risponde alla nostra richiesta di
poesia regalandocene una scarna, scabra,
a tratti persino velenosa, tortuosa, esoterica. E qui sembra aver ragione
Valduga, il tono medio e mite è solo una copertura: dietro ci sono grida,
sussurri, spaventi. Nelle cose meno
riuscite si sente il poeta strangolato
dall’intellettuale, Raboni perde in energia, perché non abbastanza selvaggio,
irreggimentato com’era nelle file dell’Intelligencija borghese.
Si esce dall’antologia comunque con il desiderio di leggere altro, di
approfondire la conoscenza di un poeta che ha segnato in maniera così decisiva,
come critico, come traduttore, come poeta, il secolo appena trascorso. In particolare io personalmente desidero leggere interamente la raccolta iniziale, Gesta romanorum, e l’ultima Barlumi
di Storia. Di entrambe ho avvertito
la potenza.
Ecco per concludere la poesia su
Piazza Fontana di cui si è scritto, straordinaria nella sua opacità, che suona così essenzialmente esatta per chi conosca
la piazza in questione, poesia tratta proprio da Barlumi
di storia:
“Ogni tanto succede
d’ attraversare Piazza Fontana.
Come parecchie piazze di Milano
anche Piazza Fontana
con le sue quattro piante stente
e il suo perimetro sfuggente
come se ormai nessuna geometria
fosse non dico praticabile
ma neanche concepibile
più che una piazza vera e
propria
è il rimpianto o il rimorso
d’una piazza
o forse addirittura (e non per
tutti
ma solo per chi da tempo coltiva
più pensieri di morte che di
vita)
nient’altro che il suo nome. “
4 commenti:
molto bello e interessante questo blog, complimenti!
un abbraccio
Grazie Ellie. Un caro saluto.
cidenti che bei post. carmelo non si discute. quanto a raboni invece, mi convince poco. nel suo elefante garzanti, praticamente l'opera omnia, mi erano veramente piaciuti pochi testi. in particolare ho trovato belli alcuni versi erotici. ti trovo in grande forma, a presto
Grazie Eustaki, sono contento che mi trovi in gran forma. In realtà gli ultimi post pubblicati risalgono a 1- 2 mesi fa, ora sono in un periodo che io chiamo di ripensamento, non sprizzo creatività da tutti i pori. Ho sempre pensato che Raboni fosse un poeta sopravvalutato, leggendo quest’antologia non ho cambiato del tutto idea ma l’ho apprezzato maggiormente rispetto al passato. E’ in linea con la poesia italiana media del Novecento, dove una coltre di convenzionale tristezza e di grigia impotenza è quasi sempre presente, ma qua e là m’interessa, soprattutto la prima e l’ultima raccolta, come ho detto. Sul fatto che siano pochi i testi degni di nota è cosa che trovo abbastanza comune a parte qualche eccezione( so che tu ami Zanzotto, che è una di queste). Un caro saluto.
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