La poesia di César Vallejo

sabato 16 febbraio 2013






La fortuna critica di César Vallejo è da anni in costante ascesa. Egli rimane però sostanzialmente ignorato dal grande pubblico, almeno in Italia, un poeta di nicchia amato soprattutto da altri poeti, affascinati dalla sua fusione di  ultraismo, modernismo, creazionismo e linguaggio indio. Thomas Merton si è spinto molto in là nella considerazione del poeta peruviano definendolo “il più grande poeta universale,  dopo Dante”. Martin Seymour-Smith ha detto di lui " il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua". In Italia il poeta Lucio Mariani gli ha recentemente dedicato un vibrante e commosso ricordo: “Infinito Vallejo, sproposito umano, cuore capace del tuo corpo, dei mille amati e d’oltre, voce che hai detto quello che il tempo ancora tace, luce della candela malintesa, spada emotiva d’una guerra combattuta sudando inchiostro d’anima e di sale, miniera generale di chiavi inestricabili”. Questa grande considerazione critica non ha impedito, naturalmente, che fra un’edizione e l’altra delle sue poesie in Italia passassero qualcosa come trentacinque anni.

César Vallejo ha lasciato solo quattro raccolte di versi, ognuna delle quali si segnala per una diversità di tono e di tocco, per una sostanziale differenza stilistica, ogni opera si configura così come l’espressione di uno scavo nel linguaggio e di un superamento, rappresenta una lotta contro i cliché latino-americani del tempo e una rottura rispetto alla tradizione poetica tout court.  Solo quattro libri di  versi,  ma ognuno di essi unico, ognuno di essi con le proprie individuali peculiarità.

Dagli inizi ancora influenzati dal modernismo de “Gli Araldi Neri” (1919), agli esiti labirintici di “Trilce” (1922), fino al recupero di un linguaggio colloquiale e a una resa di poesia civile, operato in “Poemi umani” (1939) e “Spagna, allontana da me questo calice” (1939), Vallejo è un poeta che trasforma il linguaggio in un’ arena dove il poeta è un matador che prende per le corna il toro delle metafore e delle analogie,   è un poeta che trasforma la pagina in una danza all’ultimo respiro, fin dentro il cuore del fuoco.

Questo è evidente soprattutto in “Trilce”, capolavoro dell’avanguardia post bellica, libro che rappresenta uno spartiacque nell’opera di Vallejo e probabilmente di tutta la letteratura ispanoamericana del Novecento.
Scritto in gran parte  durante una detenzione in carcere( Il poeta fu ingiustamente accusato di aver causato un incendio, durante una sommossa) è una complessa architettura di significanti, esplosione linguistica e logica, atto di spezzare catene linguistiche, riflessione sulle strutture stesse del pensare e del dire, labirinto in cui il poeta,  guidato dal filo d’Arianna  del ricordo, arriva a dolersi dell’assurdità dell’esistenza, in cui tutto passa senza lasciare di sé che una flebile eco destinata anch’essa a essere presto dissolta.

E’ un tema che troviamo mirabilmente definito anche in una prosa poetica contenuta  nella successiva raccolta” Poemi umani” dall’ inequivocabile titolo: “La violenza delle ore” che inizia così:  “ Tutti sono morti.” E si conclude con una frase insieme definitiva e glaciale: “E’ morta la mia eternità e sto vegliandola.”
Dal canto suo “Trilce” è un’esperienza sensoriale, un’esperienza ai limiti stessi  del linguaggio, colto nella sua  dimensione di oracolo stranito, gettato con fredda noncuranza aldilà del senso logico.

“ma la sera – cosa possiamo farle - si attorce nella mia testa furiosamente
non volendo dosarsi in madre. “

Non manca un certo gusto parodistico, una propensione al sarcasmo:
“Donna che, senza pensare un briciolo più oltre,
apre il becco e comincia il predicozzo
con le sue parole tenere
come lancinanti lattughe appena colte.”

Accanto  alla consapevolezza che il pensiero inaridisce il sentimento, consapevolezza espressa in versi come questo : “E muore un sentimento antico/ degenerato in senno”,  troviamo rimpianti dell’infanzia: “che pazza voglia ci è presa/ di giocare ai tori, ai buoi aggiogati/ ma tutto per burla, per candore, come fu. “

“Trilce” è ben sintetizzato da Roberto Paoli, suo principale studioso italiano e traduttore dei versi qui ospitati, quando scrive che esso è il frutto di una “fatalità illogica, incalzante e sinistra” che già si evidenzia nel titolo, uno dei numerosi neologismi che costringono il traduttore a un tour de force immaginativo.

Indubbiamente siamo davanti a voragini semantiche fuse insieme, alla ricerca della diamantina perfezione di un “ tempo fuor del tempo”,  qui il linguaggio si fa punto di sutura fra il tempo stesso e l’oblio.
Molto presente in tutta l’opera di Vallejo,  e sommamente in “Trilce”, la dimensione del ricordo:

“ I grandi,
a che ora torneranno?
[…]
La mamma ha detto che non tarderà”

La madre è una figura emblematica, depositaria della tradizione e grande veicolo di amore: “puro tuorlo infantile innumerevole, madre.”  Sostanzialmente Vallejo attinge spesso alla dimensione famigliare, oltre alla madre, a cui sono dedicate diverse liriche, le sorelle Aguedita, Nativa (Vallejo fu l’ultimo di dodici fratelli) il padre, il fratello Miguel, precocemente scomparso, sono protagonisti dei suoi versi.

La famiglia è il serbatoio di emozioni positive che rappresentano un argine al dilagare dell’assurdità e dell’ingiustizia sociale, realtà quest’ultima che spingerà il poeta verso una sofferta adesione al marxismo, in cui si fonderanno il desiderio di giustizia sociale e la naturale empatia verso i poveri , che,  se è già presente ne “Gli Araldi Neri” e in “Trilce”, diventa assolutamente centrale in “Poemi umani “ .

In questa raccolta è presente un’esaltazione del lavoro, soprattutto dei lavori  più umili, come quello dei minatori definiti “ creatori della profondità” nella poesia intitolata “I minatori uscirono dalla miniera”. Sostanzialmente Vallejo vuole abbracciare l’umanità sfruttata, redimerla e combattere il sopruso; qui il dato politico acquista addirittura accenti messianici ed evangelici, pur rimanendo, nelle intenzioni, perfettamente laico.

Dopo gli esiti a tratti solipsistici di “Trilce” sembra che con “Poemi umani”, pubblicato comunque postumo e scritto durante  il soggiorno del poeta a Parigi, Vallejo voglia recuperare il rapporto con il lettore, restaurare un ponte comunicativo che il libro precedente aveva forse spezzato. Questo perché il fulcro del libro è proprio in quei rapporti definiti “interumani”, nella solidarietà, nell’empatia. Se “Gli Araldi Neri” era influenzato dal modernismo, e “Trilce” era attraversato  da echi di  creazionismo, “Poemi umani” è la raccolta in cui il linguaggio di Vallejo raggiunge una propria sofferta  e originale sintesi creativa fra ascendenze così diverse.

Emerge anche una dolorosa consapevolezza dell’inutilità dell’esperienza poetica, espressa in una poesia come ”Un uomo passa con un pane a spalla” dove versi come questo: “Un muratore cade da un tetto, muore e non desina più. /Innovare poi il tropo, la metafora?” sembrano raccontare della lontananza dell’atto poetico dalla rude e difficile realtà sociale, come se esso, davanti alle contraddizioni del sociale, fosse una colpa.

 In “Spagna, allontana da me questo calice” allora la poesia diventa civile, politica, narrando gli eroismi del movimento antifascista nelle vicende della guerra civile spagnola. Il tono è accorato, ansimante, gli accenti messianici si accendono, il linguaggio si fa evangelico, si notano tracce di ingenuità, nel complesso questa raccolta,  anch’essa pubblicata postuma e scritta durante il soggiorno parigino,  mi pare la più debole, la meno efficace.

Comunque sia, Vallejo ha lasciato un segno nella poesia del Novecento, fra sperimentazioni linguistiche, marxismo e nostalgia degli affetti famigliari, il poeta peruviano ha saldato il vernacolo indio al linguaggio dell’avanguardia europea, realizzando una poesia di grande umanità e apertura morale alla sofferenza dei cosiddetti deboli. La sua è una poesia insieme sentimentale e cerebrale, spontanea e meditata,  vicina alla tradizione e aperta alle innovazioni.

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Una poesia di Antonin Artaud

sabato 2 febbraio 2013




Amore

E l’amore? Occorre lavarsi                                                 
Da questa sporcizia ereditaria
Dove i nostri pidocchi astrali
Continuano a spaparanzarsi

L’organo, l’organo che percuote il vento
La risacca del mare furioso
Sono come la melodia profonda
Di questo sogno sconcertante

Di Lei, di noi, o di quest’anima
Che invitammo al banchetto
Voi diteci chi è l’ingannato
O l’ispiratore delle infamie

Colei che dorme nel mio letto
E spartisce l’aria della mia camera
Può giocarsi a dadi sul tavolo
Il cielo stesso della mia mente
  
Testo originale: "Et l'amour? Il faut nous laver/ De cette crasse héréditaire/Où notre vermine stellaire/ Continue à se prélasser/ L'orgue, l'orgue qui mond le vent/ La resacc de la mer furieuse/ Sont comme la mélodie creuse/ De ce rêve déconcertant /D'Elle, de nous, ou de cette âme/ Que nous assîmes au banquet/
Dites-nous quel est le trompé / O inspirateur des infâmes /Celle qui couche dans mon lit /Et partage l’air de ma chambre /Peut jouer aux dés sur la table / Le ciel même de mon esprit



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traduzione di Pasquale Di Palmo

da  I surrealisti francesi Poesia e delirio - a cura di Pasquale Di Palmo - Autori vari - Stampa alternativa/ Nuovi Equilibri - 2004.

Senza polvere senza peso - Mariangela Gualtieri

sabato 26 gennaio 2013







Più sommesso rispetto al precedente Fuoco centrale, Senza polvere senza peso, pubblicato da Einaudi nel 2006, è comunque un libro di poesie di rara bellezza, in cui il linguaggio appare alleggerito dalle dinamiche di un pensiero poetante fra i più intensi oggi in Italia. Alleggerito perché purificato dai luoghi comuni sempre corrosivi ed equiparato a una danza,  dove l’autrice Mariangela Gualtieri si muove fra ispirazione e ripensamento, perché è indubbio che questa  poesia  è cesellata fino ad apparire un flusso che sgorga senza sforzo, ma in realtà lo sforzo c’è, meditazione segreta che irrora questi versi,  che sono un alto colloquio fra la poetessa e  le sue ombre; così come mi pare indubbio che non si scriva così,  se non si è in qualche modo posseduti da un’ispirazione rigorosa, che a tratti appare potentissima, senza fondo. Ispirazione che non esito a definire religiosa, di quella religiosità che non ha bisogno di chiese e di dei e che affonda panteisticamente in tutte le vicende e le creature della Natura.

Se i versi di Fuoco centrale erano pensati per il teatro, questi sono invece destinati alla pagina stampata, più alla meditazione, dunque, che alla recitazione. Ciò nonostante si tratta di poesia: cioè di qualcosa che vuole sempre essere recitato, mormorato in questo caso. Manca forse il grido che connotava alcune poesie della precedente raccolta, e l’insieme appare una meditazione in versi sulla necessità della leggerezza, sulla radicalità stessa della gioia.

In questa raccolta ogni poesia è un tassello di un mosaico che s’indovina vasto e, però, come incompiuto, si ha come la sensazione che il dettato aspetti qualcosa di ancora più definitivo, un libro a venire,  qui solo accennato. Senza polvere senza peso pare un libro di transizione in cui “ una sconosciuta nascita” sta per avvenire, dove la poetessa è dolorosamente memore dello scomparire di ogni cosa, dove però una “allargatura di luce” ha la sua magica epifania, e ci redime.  Tremare vuol dire capire che siamo dinanzi al mistero, alla grazia, forse,  poiché è nel “ rinascere qui che io/ mi sostanzio andandomi via.”

“ C’è una pace grandiosa” nella natura dove un seme” pare niente/ e invece sogna” dove  il poeta” canta il nome della terra” e il verde dell’erba gli promette che una qualche verità eterna sta per affiorare dalla sua bocca. La Natura, nella pura semplicità dell’erba, è magnificata come sacra:” Creatura folta, sempre inginocchiata/ a rendere altare la crepa/ e il bordo del marciapiede. / Enigma del tuo essere ovunque/ cresciuta.”

Già nel titolo si palesa un poco la vicenda di questo libro, dove si tenta di sconfiggere la materia e la sua pesantezza,  ma ancora di più“ la consistenza, l’odore, il nome” e infine, come Cristo risorto, la morte stessa, che nei versi della poesia intitolata Venerdì santo diventa “ uno stecco, un niente/ un avanzo, un imbroglio”. Davanti alla potenza della vita, al suo “parto perenne”, essa scompare. Qui in questi versi percepiamo l’afflato potente di una preghiera fatta di terra, una preghiera che,  in assenza di un  dio, si rivolge alle cose.

Non c’è più un interlocutore divino, o è comunque lontano - in questo senso Gualtieri fa parte della modernità -  ma la Natura è sacra di per sé e non ha bisogno di nessun altrove trascendentale. “E’ terra la sostanza del mio dire/ è terra di quella calpestata/ è terra secca spaccata nel suo buco. “

Il senso della terra erompe come consapevolezza estatica, perché “ Adesso fa notte – fa preghiera” e allora tutto può trasfigurarsi. Non mancano  perciò le visioni di un altrove di sogno: “E venga il sogno africano/ quando le palme/ e tutti i cammelli e/ le lavandaie sul fiume/ sostano.

Il divino è presente negli animali, nelle gatte gravide, per esempio, che diventano ”partorienti languide”, essenzialmente esso è la potenza della vita che si moltiplica ed è presente nel “ guizzo di delfino festante”, come nella “danza rotante di cielo stellato”, come nella pioggia, invocata, cantata, evocata, con la stessa sicurezza che essa ascolti la nostra preghiera, che può avere uno stregone, uno sciamano. 

Infatti, importante è pregare, perché “Qualcuno che ascolta c’è sempre”, pregare anche se non si sa chi, e comunque non importa, nella preghiera, secondo Mariangela Gualtieri, c’è sufficiente forza da scardinare anche un cielo  vuoto e farlo risuonare.

Fra le poesie più belle c’è quella dedicata al conflitto fra Palestina e Israele, dove i personaggi del Vangelo si muovono in un contesto moderno, devastato dalla guerra fra i due popoli, a significare come il messaggio d’amore di Cristo sia stato schiacciato dalle bombe, e proprio nei luoghi in cui fu proferito; poesia che si conclude con questi versi indimenticabili: 

“ E noi. Dove moriremo? Mettetevi tutti giù
che è ora. Morite piano. Non sporcate.”



Mildred Pierce - James M. Cain

sabato 19 gennaio 2013






Ci sono libri che ti attirano al primo sguardo, misteriosamente. Mildred Pierce di James M. Cain è stato per me uno di questi. Senza neanche aver visto il titolo e il nome dell’autore,  la mia attenzione è stata  attratta da un libro che si trovava accatastato sotto diversi altri, in una bancherella di libri usati di cui sono cliente da diversi anni. Spostando una pila,  l’ho afferrato,  l’ho osservato, rigirandolo fra le mani e in pochi secondi ho deciso di acquistarlo, ancora prima di  leggere la quarta di copertina e  l’incipit,  come faccio di solito,  e l’istinto (o il caso)  non mi ha deluso, si tratta infatti di un romanzo splendido.

Viene definito un noir, ma si potrebbe discutere. E’ semplicemente una storia ben strutturata con protagonisti ben definiti, cesellati: la protagonista Mildred Pierce,  che da casalinga diventa imprenditrice, il marito Bert, cui tocca la sorte inversa, da imprenditore si trasforma  in nullafacente con velleità di riscatto, la loro figlia Veda, che da bambina prodigio  si trasforma in una  diva del jet set,  figura che sin dalla sua infanzia appare enigmatica e crudele, personaggio ambiguo, ambizioso, ferocemente snob,  pericoloso.

E tutt’intorno una serie di personaggi minori, tutti funzionali alla storia, tutti raccontati con sobrietà ed efficacia da James. M. Cain, noto soprattutto come autore de Il postino suona sempre due volte.
E’ una storia di rovesci, fallimenti, e improvvise ascese, ambientata negli anni trenta – quaranta , in cui pare che non ci siano sicurezze:  chi è ricco può ritrovarsi povero improvvisamente, chi è povero può sfidare il sogno americano e ritrovarsi ricco. E’ il tessuto sociale creato dalla grande depressione del ’29, che fa da sfondo alla vicenda.

E’ la storia di intrecci familiari malati, di amori fallimentari, di cattiverie ingiustificate, di inganni e di solitudine.

E’ un esempio di realismo in letteratura, di come la letteratura stessa possa raccontare la realtà, risultando più efficace della sociologia nel descrivere tipi umani e le loro peculiarità.

Questo romanzo è una critica implicita al sogno americano,  al lavoro come fonte di riscatto e di realizzazione, mostra aldilà di ogni dubbio  come le emozioni abbiano un ruolo decisivo nel decidere del nostro destino. E’  anche un’ implicita critica all’assetto stesso della famiglia, perché mostra come l’amore cieco  per i figli possa condurre alla rovina.

Dal romanzo sono stati tratti un film, negli anni quaranta, interpretato da Joan  Crawford, e una miniserie televisiva nel 2011 con protagonista Kate Winslet, che campeggia sulla copertina di questa edizione Adelphi, che risale al novembre 2011.

In tempi di recessione economica può essere utile rileggere la letteratura che fu creata  come risposta alla famosa crisi del ’29, una letteratura che indaga le difficoltà economiche di una generazione, e che mostra come esse siano un miscuglio di sfortuna, difficoltà oggettive,  paura. La visione di James M. Cain è crudele come la realtà, essenziale, quasi cruda;  la  sua eroina,  Mildred Pierce, accecata dall’amore per la figlia Veda, finisce per non riconoscere più in lei le tracce di un arrivismo senza scrupoli.

Mildred Pierce, pubblicato originariamente nel 1941,  è un gioiello di narrativa pura, James M. Cain a tratti ricorda Henry James, di cui sembra la versione più moderna, per la capacità di raccontare un mondo e per l’efficacia della ricostruzione delle personalità che si muovono in esso, per l’intelligenza dell’intreccio  e infine  per la freddezza calcolata con cui tutto è raccontato.










Mattatoio n.5 - Kurt Vonnegut

domenica 13 gennaio 2013






“Per un po’ d’ironia si perde tutto”
Salvatore Quasimodo

Mattatoio n.5 o La crociata dei Bambini di Kurt Vonnegut fa l’ effetto di quando in una pietanza si mescolano sapori diversi o addirittura contrastanti. Fantascienza e comicità si trovano composte in quello che fondamentalmente è un atipico romanzo di guerra, il fantastico è così fuso al realismo, e infine  deformato addirittura nel grottesco. Sono sapori forti che possono disgustare o affascinare per il loro esotismo, sono sapori che a mente fredda mi  sembrano troppo distanti.

Questo romanzo è un’operazione ironica, e questa ironia  smorza la  sua carica eversiva di documento contro la guerra, essendo la trama troppo caricaturale perché sia davvero presa sul serio, in sostanza l’ ironia rende l’insieme troppo fatuo, poco credibile, dissonante rispetto alla tragicità della guerra. Il romanzo si situa così in quella terra di nessuno fra  satira e parodia.

Probabilmente è proprio questa stranezza, che non mi convince, questo suo sapore agrodolce e tragicomico,  che ne hanno  fatto un romanzo di culto.  Questa eterogeneità di sensazioni, che io trovo quasi fastidiosa, è la ragione che forse  ne ha determinato il successo,  sul finire degli anni sessanta, quando questo tipo di procedimento rappresentava una novità. A distanza di  più di quaranta anni ci si chiede come questa parodia abbia potuto incarnare qualcosa, il pacifismo e l’antimilitarismo,  per giunta,  di una generazione evidentemente confusa.
  
  Mattatoio n.5  fu scritto,  infatti,   per ricordare una delle pagine più nere della seconda guerra mondiale, il bombardamento di Dresda,  e ciò  mi pare incongruo, perché in questo romanzo quello  che manca è proprio il senso del tragico  e la vicenda di  Dresda è liquidata in poche pagine.  A meno che tutto non si riduca a essere un gesto di esorcismo verso una realtà dolorosa: trasformare in farsa ciò che inizialmente era tragico. In tal caso,  l’esorcismo funziona per l’autore, meno per i suoi lettori che si trovano davanti una storia bizzarra. Ho dei dubbi persino sull’eticità di tale operazione, giacché tutto, anche l’orrore della guerra,  è descritto come una buffonata demenziale,  da non prendere troppo sul serio.

 Il protagonista Billy Pilgrim è il classico uomo medio, il classico uomo qualunque,  che si trova catapultato in situazioni più grandi di lui: la seconda guerra mondiale, con la detenzione in un campo di prigionia tedesco, viaggi nel tempo che fanno vorticare casualmente  episodi distanti della sua vita e addirittura un viaggio spaziale verso il remoto pianeta di Tralfamadore.

Così Vonnegut mescola ironicamente il fantastico con la realtà della guerra risultando per me dissonante: a tratti sembra così un romanzo per ragazzi, a metà fra il fumetto e la space story, non del tutto  riuscito come fumetto  e non del tutto  convincente come space story;  le cose migliori sono quelle legate alla guerra e alla detenzione, dove Vonnegut pesca nei propri ricordi: egli fu effettivamente detenuto in un campo di prigionia tedesco,  durante la seconda guerra mondiale e assistette al bombardamento di Dresda da una grotta scavata nella roccia sotto un mattatoio, e al protagonista Billy Pilgrim capita più o meno la stessa esperienza, da cui il titolo.

Ridotto all’osso, come romanzo di guerra, forse sarebbe stato più interessante, gli elementi fantascientifici, palesemente ironici oltretutto,  mi sembrano  un travestimento pleonastico, tolgono credibilità alla storia e la rendono un confuso guazzabuglio di sapori. Sapori troppo diversi, contrastanti, dicevamo all’inizio. Esiti tragici che diventano farseschi, esilaranti quasi,  disorientano e lasciano perplessi. Il racconto è volutamente demenziale, grottesco, il procedere della narrazione farsesco, parodistico. il romanzo oscilla fra  la satira e la favola, senza avere la ferocia della prima né  l’incanto della seconda. Il protagonista è il classico ”uomo senza qualità”, una sorta di Forrest Gump ante litteram e allora ci si chiede come sia possibile affidare alle vicende di tale insulso personaggio un qualsivoglia messaggio contro la guerra.

Il tutto  è inoltre appesantito da un opaco, e forse semplicistico,  fatalismo, esemplificato dall’espressione ”Così va la vita.”, che si trova a ogni piè sospinto, e che si vorrebbe ironica o sarcastica. Ecco,  l’ironia dell’insieme non  mi convince, il libro non è poi così  divertente e  neanche come romanzo fantastico   funziona,  perché la distanza data dall’ironia non permette di immergersi nella storia e di sospendere l’incredulità. Sostanzialmente è un romanzo troppo paradossale, ”scritto un po’ nello stile telegrafico e schizofrenico in uso sul pianeta  Tralfamadore”. Mi sembra che  Vonnegut strizzi troppo l’occhio a un ipotetico lettore, dicendogli: ” Ehi non è importante, sto solo scherzando”. Ecco, qui mi  viene in mente la freudiana differenza fra gioco e scherzo:  il gioco, infantile, è vitale, creativo e lo scherzo,  adulto, è  codificato, morto.

Così mi è sembrato Mattatoio n. 5, uno scherzo, non riuscito per giunta, perché rende tutto falso, anche lo sgomento e l’orrore verso la guerra.  C’è della genialità tragicomica va bene, ma davvero questo non è il tipo  di letteratura che mi appassiona.

Anche in un romanzo che non mi è piaciuto,  c’è comunque una frase che da sola ne vale forse l’acquisto:

Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere, e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli. E gli uccelli cosa dicono? Tutto quello che c’è da dire su un massacro, cose tipo ‘Puu-tii- uiit?’”.

Lo si può leggere allora in questo senso; l’orrore della seconda guerra mondiale è indicibile, come ha spiegato Adorno, non si può scrivere un romanzo che sia capace realmente di esorcizzarlo,  scriviamo allora una parodia. Grande è stata,  comunque,  l’influenza  che  questo romanzo ha avuto sulla cultura pop: e penso a fumetti, cartoni animati, film.

In sostanza,   però,   Mattatoio n.5  sembra  il trionfo di una visione postmoderna della letteratura che oggi,  a più di quaranta anni dall’uscita del romanzo, mi appare logora e datata.