mercoledì 24 giugno 2009
Genet si è posto nella vita e nella letteratura in violento contrasto con la società, rubando, mendicando, prostituendosi, ha raggiunto quella zona in cui la violazione di ogni legge è il sintomo di una caduta e al tempo stesso la ragione di un'enigmatica ricerca del bello e del sublime, nella dimensione del sordido. E’ proprio questa la sfida di Genet: isolare momenti di bellezza, laddove per la mentalità comune sembra esserci solo sporcizia e degrado. Egli è un isolato, nessuna possibilità di vera comunicazione può essere raggiunta, da una parte c’è la società, con le sue leggi inflessibili, dall’altra colui che le trasgredisce, e nessun ponte di letteratura può unirli. Così Genet usa il voi, quando si rivolge ai lettori, i quali, in quanto rappresentanti del senso e del vivere comune, gli sono lontani come la luna. Nelle pagine di Diario del ladro lo scrittore francese rievoca la sua giovinezza di sbandato e di teppista, per le vie di Barcellona, Brno, Anversa, e altre città d’Europa, città di cui egli frequenta bar di infimo ordine, malavitosi con i quali condivide la sorte, il letto, le avventure, in un contesto in cui i valori vengono ribaltati, e così l’abiezione più profonda, l’immoralità più scandalosa, assumono le veste di fantomatica rivincita, per coloro che la società umana ha espulso come indesiderati. Nel compiere “l’ascesa verso l’umiliazione “ Genet mostra un’enorme vitalità, sebbene disperata, gira tutta l’Europa, Spagna, Francia, Cecoslovacchia, Serbia, Italia, da tutti i paesi ottenendo l’espulsione, per via dei suoi crimini, infiammandosi talvolta di passioni violente, sempre assillato da una fatalità di abbruttimento. In questo c’è la coerenza di un santo al contrario, una vocazione a una sacralità sconosciuta, tanto che Sartre intitolò il suo saggio sullo scrittore francese Saint Genet, e ne mostrò l’assoluta sete di beatitudine spirituale, ottenuta attraverso l’infrazione dolorosa di ogni regola. Dolorosa perché tale è il male in Genet, una necessità e una maledizione, sicuramente una libertà pericolosa che si sconta con l’esclusione perpetua dal consorzio umano. In questa disperazione senza fondo Brno, Barcellona, e tutte le città citate sono terribili e malinconici sfondi privi di attrattive, come se il malessere stesso di Genet le prosciugasse nel profondo. Lui e i suoi amici sono dei paria pronti a tutto, consci della loro realtà di perduti a ogni convivenza sociale, essi recuperano la loro umanità sul piano dell’audacia, che fa compiere loro le azioni più turpi. Nel folgorante incipit i delinquenti sono accostati ai fiori, tanto brutali gli uni quanto delicati gli altri, e il tentativo di Genet è di far risaltare il suo amore per questi strani compagni di strada, pronti a tradirsi per pochi soldi, ad amarsi selvaggiamente, a uccidere, per affermare la loro natura di eslege, destinati a una vita disperata, dal fondo di un malessere in cui talvolta come una boccata d’ossigeno affiora una gioia straziata, una felicità macellata. Non sono certo eroiche le figure che Genet descrive, ma nella loro spesso ostentata vigliaccheria egli coglie una bellezza indecifrabile che lo commuove e in questa commozione, egli ritrova il senso della propria esperienza. I vari Pepe, Stilitano, Armand, sono personaggi di un mondo picaresco, che Genet rievoca con nostalgia, nonostante tutto l’orrore che essi hanno attraversato, conservano una specie d’incanto, sebbene questo incanto non sia altro che il segno di un’abitudine al crimine e al vizio così radicata da disgustare i benpensanti. In Genet l’immoralità dei comportamenti non è mai scevra da un sottile senso di colpa, ma lungi dall’allontanarlo dal crimine questo stesso senso di colpa diventa un ingrediente indispensabile per gustare la pienezza di una caduta inevitabile. Così Diario del ladro è la cronaca di un inferno, in cui non manca lo spazio per la tenerezza, la vita di Genet nella sua lucida disperazione è testimonianza di una realtà in cui la regola principale è sopravvivere nonostante tutto, immergersi in ciò che c’è di infimo per uscirne con le stigmate di uno splendore perverso. Una dimensione poetica pulsa in queste pagine, Genet si mette dalla parte dei ladri, degli accattoni, diventandone il cantore e in questa operazione dà voce a quelle realtà marginali che in letteratura sono spesso dimenticate. Se c’è un limite in tutto questo è nella fin troppo esibita pietà di sé; in questa apologetica del crimine, sebbene la colpa sia sempre presente e mai edulcorata, il pathos di una solitudine senza rimedio fa apparire freddo e scostante anche lo slancio più amorevole, Genet mostra un’Europa dei bassifondi, in cui la crudeltà non è mai separata da una certa grazia equivoca, il cui senso è tutta una paradossale affermazione della propria diversità sia erotica- Genet è omosessuale- che sociale, e la parola redenzione è svuotata di significato, una crudele fatalità spinge questi individui a una vita disperata, e sebbene carnefici essi paiono le vittime di un meccanismo che però lo scrittore francese non ha la forza di indagare fino in fondo. Non è una vita di ribellione che Genet descrive, tutt’altro, i suoi personaggi sono schiacciati e non ambiscono a nulla, sono ridotti spesso alla pura dimensione della sopravvivenza senza gloria, paghi della loro condizione miserevole, essi scontano la loro esclusione, e solo nel castigo cui sono destinati recuperano la dignità che il mondo non vuole e non può riconoscergli. In questo libro c’è qualcosa di profondamente alieno all’opera, qualcosa di freddo, una fondamentale rinuncia al decoro, una rabbiosa rassegnazione si mescola alla furia criminale, lasciando talvolta nel lettore una sensazione di macabro autocompiacimento, che può disturbare. Nel raccontare la propria vita violenta Genet non ha il coraggio o la voglia di andare fino in fondo, in certi momenti appare sdolcinato anche il crimine, e la sensazione è che lo scrittore francese inganni i suoi lettori, presentandosi ad essi con un candore che a un’attenta analisi appare posticcio. Meglio sarebbe stato mettersi dalla parte del male, senza quella svenevolezza che fa apparire equivoche e forse eccessivamente patetiche certe pagine del libro; la parola di Genet sa dunque di imbroglio calcolato e di tranello, in questo rivelandosi parola letteraria, da qui il grande successo di critica che accompagna il libro da quando nel 1948 uscì la prima edizione censurata.
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