mercoledì 10 giugno 2009
La poesia di Morrison è un tentativo di coniugare le influenze beat alla grande tradizione decadente europea, con tracce di mitologie disparate, dai greci, ai pellerossa, che scorrono nei suoi versi. E’ certamente un mondo misterioso che egli cerca di mettere in luce, con una tendenza gnomica che talvolta lascia dei bagliori di illuminazione, altre volte si cela in una dimensione più colloquiale. L’occhio di una telecamera sembra a volte presente per cogliere gli umori di un'umanità di ragazze chiamate “Libertà “, ballerini invasati, bambini dalla mente “fragile come un guscio d’uovo”, satiri, gnomi, e numerosi sono gli animali -cobra, pantere, leopardi, leoni , cavalli- che abitano queste poesie, dove riferimenti alla cultura greca si innestano su un tessuto di matrice celtica, con frequenti riferimenti alla poesia di William Blake, soprattutto nella costante creazione di un mondo magico e mitico, con il caos che sembra sempre voler irrompere sulla pagina e solo raramente vi riesce, con esiti a volte sorprendenti, altre volte invece si rimane stupiti per la loro vacuità.
Una natura selvaggia e pericolosa viene costantemente evocata da Morrison che però talvolta manca di efficacia, perdendosi in una strana confusione di parole, legate analogicamente, ma in maniera forzata,o abbandonandosi alla scrittura aforistica con esiti quasi mai convincenti. Credo dipenda in parte dal fatto che questi testi sono stati pubblicati rovistando fra i suoi taccuini e operando una scelta fatalmente diversa da quella che il poeta avrebbe compiuto, perciò alcune poesie sono poco più che appunti, abbozzi su cui non si è operato in maniera definitiva. Talvolta pare deficitaria la necessaria revisione e limatura dei testi, che è fondamentale per l’ attività poetica, ma bisogna dire che nel clima culturale della beat generation la scelta di Morrison di una scrittura spontanea, germinazione di significanti in tensione musicale, è più che comprensibile. Del resto la poesia di Morrison non è immune da influenze dadaiste, e una rilettura in chiave surrealista di Rimbaud è una delle matrici della sua poetica e l’oralità, la recitazione in pubblico, l’immediatezza corporale del verso, giocano un ruolo preponderante.
Al di là di certe ingenuità, in questi versi vi è indubbiamente una potenza oracolare all’opera, Morrison persegue una follia di nomadismo psichico, appartiene all’epoca che credeva che le droghe amplificassero la coscienze, estendessero gli stessi domini dell’anima.
In tale contesto, la poesia è un nuovo idioma che racchiude folgorazioni e visioni che ci liberano dalla schiavitù del senso comune, e Morrison in questa operazione mostra talvolta una chiarezza visionaria, altrove smarrisce la strada, devia verso l’ovvietà detta con una certa supponenza,ma nel complesso quel tanto di indecifrabile che vibra in questi versi basta a fare di Morrison un poeta che si può leggere.
Così egli ci invita ad abbandonare la tranquilla, domestica, paranoia per entrare nelle foreste degli antichi, dove elaborare nuovamente una mitologia, parlare “alfabeti segreti” e incontrare lo spirito della musica, complice” un’intensa visitazione d’energia”. Abbandonando tutto ciò che ci è stato insegnato Morrison ci suggerisce di iniziare il nostro viaggio verso la libertà, modellando la nostra percezione a partire da uno stravolgimento di tutti i sensi, che permetta alla nostra natura di volare aldilà delle sterili convenzioni del linguaggio e affermando l’individualità contro ogni progetto di massificazione: giacché siamo dominati dalle televisioni e “placidi ammiragli” pretendono il sangue giovane ,per far girare il grande macchinario della guerra, noi abbiamo una chance solo nel approfondire la nostra visione personale, lasciandoci incantare dalle dinamiche inconsce di una psiche che ha scelto vivere accanto agli dei della tradizione, ritrovando in essi la corrispondenza segreta fra intuito e ragione e il trait d’union che lega il mondo moderno alla natura.
Un “ pensiero senza mente “ cerca di affiorare nelle parole di Morrison, che elabora uno strano misticismo che pare più una concessione alla moda dell’epoca che un sincero anelito spirituale; Buddha e Cristo si incontrano in un intelletto che considera la contemplazione del cielo il suo destino naturale e il suo apice di godimento estatico. Ecco, se l’artista è colui che persegue l’estasi, i versi di Morrison testimoniano della sua vocazione a sciogliere i legami mentali per far emergere quella tentazione d’infinito che troppo spesso risulta essere al tempo stesso un salto nel vuoto, o una caduta verso gli oscuri regni della morte. L’affresco offerto dal rocker americano è sicuramente vitale, ma troppo spesso i suoi versi combattono la vacuità uscendone malconci, ma quando la visione si innesta sulle parole in maniera convincente abbiamo versi belli, che offrono uno scorcio di dimensioni dimenticate, dove “il mondo è un film inventato dagli uomini “e il sesso quella realtà iniziatica che ci fa assaporare la nostra natura di Buddha e al tempo stesso il buio della tomba.
Bisogna godere assolutamente del momento presente perché “ nessuna ricompensa eterna ci / perdonerà ora / per aver sprecato l'alba /e gli dei sono sul punto di irrompere nella nostra vita per sconvolgerla e portarci la consapevolezza di un’energia cosmica che può farsi musica oppure silenzio inesprimibile. L’amicizia rappresenta per Morrison qualcosa di sacro che è più potente della sua evidente fascinazione per la morte, ma il bisogno di far parte di un gruppo collide con la sua vocazione ad una aristocratica solitudine, intessuta delle voci che si alzano dai libri, amuleti contro il conformismo, talismani che ci proiettano in una realtà, dove è possibile benedire il momento presente, implorare” un’ora di magia” al “grande creatore dell’essere” e sfuggire alla morte “ “terrificante ospite compagnona “ consapevoli che sfuggendole, incappiamo in lei ancora più rovinosamente. Possiamo però diventare come “folletti innocenti “ desiderosi solo di sballare e “mandare a quel paese gli dei “, essere come dei “fiori lussureggianti”, colti nel loro effimero sfiorire, che dice qualcosa delle meccaniche universali.
Nei versi di Morrison, perlomeno nei più belli, un incantesimo di morte si allea alle forze più vitali della natura umana, mentre entità occulte “stanno facendo del nostro universo uno scherzo”, e tutto frantumato non può che danzare , il desiderio di “mutare mentalmente la realtà" emerge come una sfida alla totalità e direi niccianamente anche alla verità. Perché è un mondo di illusioni quello che Morrison prepara per noi, confidando alla nostra ombra che un mondo segreto sta per scoppiare, e che la poesia potrebbe dilagare nella realtà, diventando la sua nemesi più veritiera. Se un poeta va giudicato dalle sue opere migliori, penso che tutto Morrison vada visto alla lente dei suoi versi più efficaci - fra tutti quelli di Una Preghiera americana- che fanno presagire,che se fosse vissuto più a lungo, abbandonando certe pose narcisistiche, avrebbe potuto lasciare un corpus poetico meno frammentario e confuso, e più letterariamente compiuto.
Sono questi i versi - non sempre riusciti -di un apolide spirituale, che non si sente a suo agio in nessuna dottrina, ma le osserva tutte con interesse, cercando di fondere totem, crocifissi, sciamanesimo e oracoli, dal fondo spettrale di una parola che, sebbene minacciata da afasia, cerca di restituirci il fascino dell’ignoto, talvolta precipitando frantumata, altre volte mascherandosi da grido animalesco, per impressionare meglio la pellicola della nostra mente.
Tempesta elettrica- Jim Morrison- Mondadori
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