Febo cane metafisico - Curzio Malaparte

sabato 5 febbraio 2011


Si è soliti differenziare fra prosa e poesia, come se questi fossero dei generi di quella cosa enorme chiamata letteratura; si è soliti fare ulteriori distinguo: lirica, narrativa, epica, filosofia etc., così quando si incontrano libricini come questo, Febo cane metafisico, possiamo rallegrarci del massacro di queste futilità, e ancora una volta la dualità è sapientemente delusa. Si scopre allora che non c’è alcuna distinzione, il dio Pan, con il suo oceanico desiderio di fusione, veglia ancora su di noi, è ancora vivo e lo sarà sempre, nonostante certi iettatori abbiano detto illo tempore il contrario.

Così si capisce che Curzio Malaparte ci sta parlando degli dei, li nomina pure- con estremo pudore e dolcezza- ma soprattutto li lascia agire nella sua scrittura, che non potendo modificare il mondo, si limita a fare una cosa più grande, lo fa girare come una sfera di cristallo in tutte le sue prismatiche e fluide metamorfosi. Ed è un cane, dal leggendario nome di Febo, a farci scivolare in quello che potrebbe parere un sogno a chi dorme, per chi è sveglio, è invece Dioniso stesso che vede attraverso gli occhi di un cane metafisico com’è fatta la realtà: la realtà è fatta di immagini in perpetua trasformazione, la realtà è letteratura, e la letteratura è il movimento stesso del respirare.

E allora, trattando ironicamente i futuristi e le loro parole in libertà- elevando però come i futuristi stessi l’onomatopea a segno e sigillo di una musicalità non umana - una stringente necessità s’impadronisce di Malaparte, che recita a soggetto frantumato il suo divenire cane, il suo divenire Apollo che contempla la luna fondersi con l’odiato mare. Ed ecco allora apparire all’orizzonte una scrittura che lega i notturni di Campana alle straordinarie solarità della Sicilia, luogo dove il testo ha visto, è proprio il caso di dire, la luce.

E la luce è quella di un meriggio danzante e al tempo stesso di una mezzanotte in cui la luna specchiandosi nel mare si pettina mormorando il nome del suo amato, Febo, cane metafisico, realmente esistito e non è un dettaglio, perché la melodia di Curzio Malaparte non è astratta, è calata nelle più minute sfumature della vita quotidiana; la gente di Lipari è raffigurata minuziosamente, nei suoi slanci di bontà come nei suoi innocenti e feroci egoismi. In sostanza è la lezione del “realismo magico” di Massimo Bontempelli, unita alla serena consapevolezza di Eraclito: “Il tempo è un fanciullo che gioca spostando pezzi sulla scacchiera: è il regno di un fanciullo”.

Se Dostoevskij scrisse i suoi capolavori in una stamberga maleodorante e gelida, con la stufa perennemente guasta, se Sade concepì e vergò Le centoventi giornate, chiuso nella Bastiglia, nei giorni che divennero Storia (grazie a lui divennero qualcosa di più, divennero leggenda), non stupisce scoprire che anche Malaparte scrisse questo testo al confino di Lipari; dove ancora adesso la sua ombra si allunga, evaporando dal vulcano, sciogliendosi in tutti bicchieri in alto levati per un brindisi eterno alla sua musa canina, il suo cernego apollineo dal nome Febo che, ovviamente non a caso, è un appellativo di Apollo.

Febo cane metafisico è dunque un poema filosofico, intorno al tema delle divine metamorfosi, è una danza di un dio che si fa cane per amore della luna, vicino a Stromboli, che nell’etimo greco vuol dire trottola, in realtà è dunque la storia di una trottola che era un cane, il cane di Curzio Malaparte, imprigionato a Lipari fra il 1933 e il 1934.

In altre opere scrisse ancora di Febo: “ Sentivo la sua presenza come quella di un’ ombra, della mia ombra […] egli mi aiutava […] a riacquistare quel distacco dal bene e dal male che è la prima condizione della serenità e della saggezza della vita umana. E anche oggi forse più di allora sento che Febo mi assomiglia che egli altro non è se non il riflesso della mia coscienza, della mia vita segreta. Il ritratto, insomma, di me stesso, di tutto ciò che vi è di più profondo, di più intimo in me, di più istintivo. Il mio spettro.” E ancora gli sentiamo dire ne La pelle : “ Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un fratello, a un amico, quanto a Febo. Era un cane come me.”


9 commenti:

giacy.nta ha detto...

Dopo la lettura del tuo testo ( che non è poesia, non è saggio, non è racconto perchè non vuole nomi ) rimane il senso di un tenero sciogliersi in un riflesso.
Ciao, Eugenio.
Giacinta

Ettore Fobo ha detto...

Cara Giacinta, dietro l'apparente semplicità del tuo commento sento agire tutto il tuo intuito femminile.
Mi hai detto qualcosa, senza dirlo. E mentre scrivo, lo sto ancora decifrando. In cinese credo che si dica wu- wei, fare senza fare.

Ultimamente sto pensando al tuo blog, a come è composto, a come è strutturato. Sono tutte Matrioske, o mi sbaglio? Una bambola sta dentro un'altra bambola che a sua volta si trova... dove? In quale luogo? O dovrei dire labirinto? Tutte bambole a loro volta mascherate da luoghi, immagini, musiche, storie.
Matrioska dentro Matrioska, così ciascuno ci trova qualcosa di sè, e al tempo stesso altro.

Ancora una volta ti ringrazio per la gentilezza. Un caro saluto

dalloway66 ha detto...

la realtà in continuo mutamento diviene irreale e in quel territorio sospeso si possono orchestrare le audaci melodie del cantore metafisico che si fa osservatore di immagini che mutano e adegua anche il linguaggio, ricreandolo...
nei luoghi delle suggestioni oniriche tutto si trasforma in attesa estatica e al tempo stesso ci si lascia andare al continuo fluire senza posa...

il tuo scritto, affrancato dalle definizioni, libera una miriade di collegamenti e rimandi... mi è piaciuto moltissimo...
a presto

Ettore Fobo ha detto...

Grazie dalloway66, a me è piaciuto molto il tuo post sul daimon. A presto.

Antares666 ha detto...

Grazie del passaggio e del commento :)
Un caro saluto!

Elena ha detto...

Quanta bellezza. Eppure sono così profondamente stanca sfinita dai giochi traditori degli specchi. Come vorrei finalmente guardare qualcuno, qualcosa, afferrare il mistero. Anche quando guardo me stessa in uno specchio. Ma credo che sia una questione minima, e che avvenga soltanto alla fine, per un istante. Quando finisce.
Mi perdo, qui, poi volto l'angolo e riconosco ogni singola ombra. Ciao, E.
Elena

Ettore Fobo ha detto...

Afferrare, persino comprendere, temo che per me significhi sempre assegnare un ruolo, a volte è necessario, persino bello, se si è consapevoli che i primi a tradire siamo noi. Tradire l’altro credendo di averlo compreso, compreso al più nella nostra immaginazione, o finzione, se vuoi, il che però non è mai un male, anzi, perché tutto è invenzione e anche fingere nell’etimo significa qualcosa di bello: forgiare, formare. Allo specchio voglio vedere il mondo e riconoscermi anche ombra fra le ombre, purché quest’ombra mi sorprenda con il suo mistero. Però viene per tutti la stanchezza e quasi un grido si alza, voglio la verità su me stesso, su ognuno! Possibile che essa venga fuori solo nel momento della fine? Penso di sì. Al riguardo c’è una frase che Pasolini disse in un’intervista, che ascoltai una notte a Fuori Orario più di dieci anni fa: “ Solo quando un uomo è morto, si può dire chi è realmente stato.” Forse la citazione non è esattissima, vado a memoria e anche la memoria è invenzione. Un caro saluto, Elena.

Elena ha detto...

"E' dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell'ambito appunto di una Semiologia generale). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci" (P.P.Pasolini)

Questa citazione la tengo salvata in bozza da mesi. Penso di pubblicarla ogni giorno. Ma qui ora trova un suo senso preciso ed è quasi come togliersi un peso. Sono contenta, ogni volta che passo qui.

Elena

Ettore Fobo ha detto...

Grazie del regalo, Elena, ciao.