da Insetti senza frontiere- Guido Ceronetti- Adelphi

sabato 30 maggio 2009

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Se le gesta isolate della benemerita scuola cinica fossero diventate la regola(la regola del Nessuna Regola, del nessun controllo e intoppo sociale ), la convivenza civile come ancora la subiamo, sempre meno liberi nei movimenti, nel parlare, nell'urinare ( perfino nelle sepolture, spazi dei colombari ) sarebbe stata impossibile. Fumi di Caos ci avrebbero cullati, non avremmo imposto chiuse alle acque alle città mura.Meno sangue versato più straccioni; poca terra coltivata, poco lavoro alle ostetriche, nelle zone fredde nessun abitante, nudismo vuole caldo. Nelle Utopie si è tentato spesso di uscire dalle galere della civiltà, nessuna finita bene. Oggi l'unico orizzonte possibile è la schiavitù illimitata.

Insetti senza frontiere- Guido Ceronetti

venerdì 29 maggio 2009


Il rischio, leggendo un libro di Ceronetti, è quello di aprire gli occhi e perdere quella rassicurante cecità che ci permette di credere ancora che la nostra vita sia qualcosa di più che una squallida reclusione in una cella di rigore, ogni tanto rischiarata da una vertigine metafisica presto dimenticata. Pochissimi hanno nel sangue la percezione di un male radicale, a cui nessuna creatura vivente sfugge, quanto l’artista torinese, e ciò lo fa assomigliare ai grandi del pensiero. Ammiro in Ceronetti il coraggio di essere anti umano perché l’uomo è il più “falso degli idoli”, va rinnegato e non è forse questo a renderci migliori? Nella consapevolezza di far parte di un’orrida genia non possiamo più dirci, come nella visione di Nietzsche, Iperborei ? Leggendo Ceronetti lo possiamo fare, ponendoci con lui al di sopra di un monte, per guardare il mondo come un mito di ferocia sconfinata, un’orrida realtà impastata della più nera avidità e riconoscendoci in questo specchio affidiamo ai residui della nostra sensibilità schiacciata il compito morale di essere orripilata.
Questo Insetti senza frontiere è un libro di filosofia che cerca di sfuggire alla pensosità accademica e professionale degli addetti ai lavori, ed è insieme, come al solito, l’acuta indagine di uno spirito libero che si sa condannato all’universale schiavitù, nell’impensabile voragine della vita contemporanea. Come è possibile per l’uomo, creatura votata al male, resistere alle miserie radicali, all’abbruttimento del sentire comune, se sin da bambini, scrive Ceronetti, si barattano le proprie ali per una pizza e una Coca Cola? E quando si è incapsulati in una vita tremenda, fatta di conformismo bestiale e stolta obbedienza , in un mondo in cui in ogni momento la quantità di gente massacrata da ogni parte sgomenta, come è possibile dire che la vita è bella ?Non è forse un sopruso godersela in questo sfacelo? Eppure bisogna rassegnarsi all’ordine vigente di simulare la felicità, non si ha il coraggio di guardarsi allo specchio e ammutolire. Questo specchio ce lo mostra Ceronetti , che in questi aforismi, lascia vibrare Van Gogh accanto a Sironi,Dostoevskij insieme a Cechov ; ci mostra la sua passione per l’arte in ogni sua forma, dalla pittura, alla scrittura, al teatro, e al tempo stesso attraverso Heidegger ci dice che l’uomo razionale è scomparso per lasciare posto a una “bestia da fatica”, tenuta in piedi dall’allucinante mito del lavoro, come unico strumento di redenzione. “Sopravvivrai automa” sembra scritto all’ingresso della vita moderna ; il resto è scivolare in una vita di demenza, a stento mascherata e trattenuta,sempre, come in Cioran, asfissiati da una rabbia senza motivo, tutti partecipano all’espansione della violenza collettiva che diventa diktat, assicura l’ordine del male si perpetui e l’agonia dei pochi angeli feriti non interessa a nessuno .Lungi dal teorizzare una natura innocente, Ceronetti colpisce per la virtù di porsi contro la vita, avendola vissuta all’ennesima potenza, grazie alle proprie folgorazioni di artista, che riconosce, e porta in sé la pena di tutti. Pensare contro la vita ,significa averla compresa profondamente e allora ci coglie quella sorta di incantamento, di meraviglia che è alla base del pensiero filosofico, a partire dai Greci. Innanzitutto per lo stile di scrittura di Ceronetti , in cui uno sdegno di natura morale è sempre presente perché “ L’uomo fa orrore” , e si è volontariamente incarcerato in una vita di fatica senza senso. L’affinità con Cioran, testimoniata dalla loro amicizia, affiora spesso nelle parole dell’artista torinese, che ha il coraggio di scavalcare gli steccati che dividono il sapere, e mostrare come in lui le figure del filosofo e del poeta convivano, e che è una presunzione volerli separare. Ci vogliono occhi come quelli di Ceronetti, è necessario si posi su di noi il suo profondo sguardo di estraneo, che sembra aver capito tutto della nostra natura, avida, irresponsabile, sanguinaria: “ Siamo tutti figli delle foreste, ex belve che poco basta a rifare tali e peggio , ex lupi mannari ridotti a corsette perdichili in giungle d’asfalto … succhiamo il nulla, rematori di un’unica colossale galera … e un megafono imbecille ci ripete incessantemente che abbiamo un fine, che c’è un senso …”


Attraverso le parole di Euripide ci invita a vivere nascosti, per sottrarci alla famelica attenzione, e alla letale disattenzione degli altri, ci guida ad assaporare lo splendore della filosofia,e con nostalgia la rievoca dal fondo di uno smarrimento universale, mostrandoci sempre l’impossibilità della libertà in una società che votata al crimine più efferato- eliminare le differenze , schiacciarci in comportamenti alienati, in un universo che è dominato dal male e da un dolore, che solo in poesia può trovare la sua chiarezza di rivelazione.
Ceronetti ha “necessità di sublime”, e lo cerca fra le fiamme del mondo, servendosi della sua sterminata conoscenza delle lingue per seminare ovunque l’ignoto, e stupirci; attacca i carnivori, difende gli animali dalle loro fauci, annuncia l’orrore per ogni massacro, ci fa percepire lo sfacelo del corpo invecchiato e malato, e ci confessa il disgusto per la propria vecchiezza, e al tempo stesso il piacere che si prova ad ascoltarlo,- Ceronetti ha più di ottanta anni - ci fa percepire quanto in quella vecchiezza sia stato speso bene, al servizio di una passione dominante,per la filosofia , per l’arte, per la poesia, e sono molti i versi che Ceronetti cita nei suoi aforismi, spesso stratificati e intessuti di parole altrui, altre volte brevi e folgoranti. La trama delle sue parole è sempre attraversata da una tensione per il sacro, da una dimensione religiosa che non ha più nulla a che vedere con il monoteismo, condannato da Ceronetti in un aforisma, perché colpevole di aver mozzato il capo a quel divino” policefalo “la cui ricchezza impediva l’ossessività del rapporto con un unico Dio e del resto i cristiani “Hanno preso la via più facile: deificare Cristo, invece di comprenderlo”.
Nelle parole di Ceronetti il cristianesimo è quella realtà al servizio del male, soprattutto nella voracità con cui pretende carne umana uscita da ventri gravidi, quando ormai è risaputo che solo l’ignoranza e l’irresponsabilità sono al lavoro in quelle realtà in cui tragicamente si generano molti figli. La procreazione perpetua il male, dà il suo assenso a un mondo in cui ogni infanzia è bruttata e violata per sempre. Ne vien fuori un’umanità di disperati quando va bene, di assassini quando va male. .” Il filosofo ignoto” ci guida in un mondo che ha perso : “… il paesaggio, l’amore –passione, la Poesia di rivelazione … le fotografie in bianco e nero .. i misteri del corpo e dell’anima” e sostituendo tutto questo con la cacofonia dei giornali, della televisione, di internet,sostituendo il ronzio degli alveari col brusio sempiterno delle apparecchiature elettriche , questo mondo che precipita, crede di aver raggiunto il suo scopo sacro. Invece nelle parole accorate dell’autore de La carta è stanca, il dominio della tenebra, di cui consiste la vita da sempre, ha raggiunto oggi uno dei suoi vertici. Siamo dentro una tragedia dai colori sgargianti, ci hanno truffato, per venderci degli incubi. Dalla penna di Ceronetti escono alcune verità lapidarie come questa : “ Solo alla luce del Tragico il mondo non è inesplicabile.” Lo sguardo tragico, che non accetta compromessi, innervato di sensibilità e potenza etica, è necessario a questi tempi come il più urgente dei farmaci. Pensare l’orrore è tutto, ” la filosofia è onnipotente”, non servendo a nulla, non serve il Nulla . Meglio ascoltare il brusio degli insetti, il canto delle cicale, che affondare nel frastuono delle automobili, delle televisioni, meglio abbandonarsi alla contemplazione di quella minima vita brulicante, che è un po’ come guardare le stelle, cercando un luogo fuori dal mondo in cui l’infinito parli ancora all’uomo.

La prova- Jorge Luis Borges-poesia

giovedì 21 maggio 2009

Dall'altro lato della porta un uomo
espelle la sua corruzione. Invano
alzerà questa notte una preghiera
al suo curioso dio, che è tre, due, uno,
e si dirà immortale. Adesso
ode la profezia della sua morte
e sa di essere un animale seduto.
Fratello sei quell'uomo. Ringraziamo
i vermi e l'oblio.

Da La cifra- Jorge Luis Borges-traduzione Domenico Porzio- Mondadori)

Vitaiolo- Charles Cros-poesia

sabato 16 maggio 2009

Dopo aver vuotato tutte le coppe, tutte!
Alla fine devo rientrare; poiché le mie fibre dissolte,
Nei caffè rumorosi, frequentati da sgualdrine,
Hanno freddo nella notte pesante e negli incerti mattini.
Camminiamo.Ecco già brulicare la gente dei mercati.
Arrossisco, ortolani, nel vedervi, i grembiuli sporchi,
Rinfrescati dall'odore lontano degli aratri.
Lavoratori, ignari dei malsani amori,
Ammucchiate cavoli sul marciapiede, senza nemmeno
Immaginare l'orrore che segue il pallido passante.

(traduzione Aga-Rossi )

Hotel Insonnia- Charles Simic

venerdì 15 maggio 2009

Quella di Simic è una poesia della quotidianità, dove un incontro con un mendicante, una macelleria, un mozzicone di matita diventano segni emblematici di un’adesione ai dati della realtà, e raramente sono simboli di un cosmo trascendentale. L’unica vera trascendenza sembra essere quella del silenzio stellare, che va ascoltato e che nella sua lontananza è l’unico aspetto divino di una realtà che talvolta sorprende con la sua banalità, altre volte, nasconde dentro un oggetto il suo desiderio quasi sempre inappagato di trascendersi , laddove anche Dio si segnala per la sua “terrificante assenza”. Una scrittura a tratti aforistica che attrae per il residuo di rivelazione, che in essa ama nascondersi fra i dettagli, che lascia pulsare la sua vena gnomica distrattamente, senza darci peso. Così in una strada qualunque, si può incontrare “ questo secolo strano “ e in una testa di bambola che sogghigna scorgere la più implacabile delle derisioni, in una macchinetta di chewing gum ritrovare il contatto con la divinità, terrestre come i personaggi che affollano il libro. Diventare un sasso, un sacco sulle spalle di uno stracciaiolo, sono il tentativo di Simic di essere aderente a una dimensione di perdita e probabilmente di sconfitta, coltivando lo smarrimento come chiave per interpretare il proprio essere nel mondo, cercando di dare un senso alle “moltitudini / chine su un giorno/di lavoro mirabilmente inutile” Anche agli ingannevoli eroismi della mitologia Simic oppone una dimensione In cui “ gli dei tengono il becco chiuso “ permettendo agli uomini che la vita riprenda il suo corso naturale.

E’ una poesia quella di Simic costantemente attenta a quelle piccole cose che costituiscono il fulcro dell’esperienza, aldilà di tutte le esaltazioni, è una poesia fredda, caustica e pungente, costruita con semplicità, che non dà l’impressione di andare abbastanza a fondo e di rimanere volutamente sulla superficie spoglia delle cose. Il poeta non è il creatore di paradisi artificiali, ma l’umile cronista il cui sguardo ironico e disincantato offre la visione di un mondo che sa essere “ freddo come la tomba di un imperatore infante” e fra scazzottate e incontri con un'umanità violenta, il poeta s’inchina davanti agli oggetti di uso quotidiano, quando essi gli rivelano tangibile la sua stessa presenza, altrimenti destinata a una strana evanescenza. L’attitudine alla contemplazione permette a Simic di scindere l’esperienza in frammenti che la restituiscano nella sua potenzialità di fascinazione, così un paio di scarpe, una forchetta, degli insetti, diventano protagonisti della sua poesia, segni di una realtà destinata a essere imperscrutabile, sondata solo attraverso uno sguardo al tempo sprezzante e ironico.

Simic blocca gli oggetti e gli eventi in una sospensione fotografica, ed essi acquistano talvolta un aspetto nobile o inquietante, che cozza con la familiarità ad essi solitamente accordata. Una forchetta può, per esempio, apparire come un uccello mostruoso, le formiche alla ricerca di briciole sembrano indossare “cappelli da quaccheri”, lo specchio è degno di adorazione, ombrelli rotti paiono”funebri aquiloni”. Antieroico- scrive di godere della morte di Achille, Ettore e di tutti gli eroi dell’Iliade - Simic predilige raccontare della gente comune, e così baristi, avventori, vicini di casa, sono l’affresco di umanità di questi versi , impregnati di eventi minimi, con l’interiorità di questi personaggi che non è quasi mai messa in rilievo, essi si segnalano per la loro presenza spesso muta, che rimanda a un più generale mutismo della città stessa ,che parla solo attraverso delle inezie: una donna che si aggiusta la gonna, un barista che riempie il bicchiere del soggetto poetante, un mendicante bambino che agita una bambola, il poeta che legge Shelley e in esso trova il “sempiterno universo delle cose”, delinquenti che passeggiano con la loro aria di sfida.

Un mondo stranamente sospeso in un’opaca rassegnazione evapora nei versi di Simic, impegnato in un viaggio che non porta ad alcuna verità, ma in cui il poeta si propone di aggirare il proprio smarrimento di sradicato con una ironia capace di vedere nelle cose il loro aspetto comico, talvolta farsesco, ma se “i nostri governanti sono pazzi “sulla città raccontata da Simic aleggia come un incubo raggelato, che nessuno, neanche il poeta, ha voglia di fissare fino in fondo. La desolazione scorre su una superficie di ilare indifferenza, o se vogliamo di indulgente rassegnazione, che è come una corazza che protegge il poeta e il lettore con lui da certe catastrofiche miserie subodorate nei versi. Simic lascia pezzi di sé ovunque e la sua poesia appare traversata da una malinconica nostalgia di una dimensione metafisica irrimediabilmente perduta e l’ostentata banalità dei suoi temi testimonia del suo sforzo di recuperare l’incantesimo di una terrestre, quotidiana, o anche solamente simbolica, natura spirituale delle cose.

Hotel Insonnia- Charles Simic- traduzione Andrea Molesini- Adelphi

Scena di strada- Charles Simic- poesia

domenica 10 maggio 2009

Un ragazzino cieco
con un cartello fissato al petto.
Troppo piccolo per stare fuori
da solo a mendicare,
ma tant'è.

Questo secolo strano
con la sua strage degli innocenti,
e il volo sulla luna-
ora mi sta aspettando
in una città strana,
nella via in cui mi sono perso.

Mi sentì avvicinare
e si tolse un giocattolo
di gomma dalla bocca
come per dire qualcosa
ma non fu così.

Era la testa, la testa di una bambola,
tutta masticata,
la tenne alta per farmela vedere.
Il duplice sogghigno era per me.

(traduzione Andrea Molesini )

Per farla finita col giudizio di dio- Antonin Artaud

"Quando la follia scioglierà il suo legame con la malattia mentale, l'opera di Artaud apparterrà al suolo stesso del nostro linguaggio e non alla sua rottura"


Michel Foucault


Artaud ha degli incubi e questi incubi sono fatti del tessuto di una poesia in rivolta contro se stessa, sono fatti di pensieri e grida, la cui potenza schiacciante rischia di obnubilare l'autore e il lettore con lui. Poiché questo è Artaud: uno che si gioca la mente alla roulette dell'assurdo, piantando il chiodo della sua insofferenza nella carne del mondo, con la scrittura che pare voler uscire dalla sua immobilità e ritornare pura oralità, in uno slancio che dice tutta la profonda onestà dell'autore francese,che affronta la vita a muso duro, per piegarla alle logiche dell'impossibile; così la poesia stessa viene meno, urge il caos, la terra trema sotto i nostri piedi.

Se il poeta attacca gli Stati Uniti d'America è per dimostrare che la loro potenza si fonda sull'equivoco di una natura da dominare, di un mondo asservito alle logiche disumane della produzione e del profitto. Se parla del corpo è per farlo danzare in una vertigine che vada aldilà della stessa anatomia, poiché "non si è ancora finito di costruire la realtà ", non c'è una essenza da indagare analiticamente, ma qualcosa di sconosciuto deve emergere, irrompendo sulla scena del linguaggio. Così la poesia diventa un atto magico, per liberare l'umanità da tutte quelle realtà metafisiche che vivono da parassiti sul corpo dell'uomo. Artaud usa un bisturi per vivisezionare concetti come Dio, l'essere, lo spirito, il corpo, e il disordine della sua stessa mente, folgorata da uno strano fervore, si connette con degli strati geologici di pensiero e sembra fuoriuscire da quelle profondità con un 'enorme carica eversiva.

Non è una poesia di concetti quella di Artaud, ma di vibrazioni occulte che arrivano anche alla glossolalia, nel tentativo di far tacere la lingua stessa, nella prorompente caducità del suo sconvolgimento acustico, per farla diventare significante puro di un dissenso radicale, che rifiuti esegesi e liquidi così millenni di letteratura. Perché quella di Artaud è una lotta che in Per farla finita col giudizio di dio, in ogni verso si estenua, arrivando a scatenare quelle forze che stanno sotto o aldilà del pensiero, così come esso si è voluto. Artaud, insofferente verso la stessa poesia,vuole uscire dalle trappole del linguaggio, frantumare le concettualizzazioni, che esso opera in nome di una più che millenaria oppressione del corpo, vuole forzare la parola per far uscire il suo grido primitivo, la sua urgenza dionisiaca, la sua follia di balbettio sconnesso, per far saltare i codici e gli statuti linguistici, che fondano il valore. Infrange le tavole della legge, per conquistare una notte di silenzio inesprimibile, in cui taccia per sempre la logica che vuole elettrochoc e roghi, guerre e carneficine. La sua violenza verbale è sicuramente quello "sputo in faccia all'arte" di cui scrive Henry Miller, e nessuno meglio di Artaud ha realizzato la perfezione dell'insulto a "dio" privato anche della maiuscola, in quanto simbolo di tutti i dispotismi, nessuno ha puntato il dito accusatore, in maniera più radicale, contro ogni forma di oppressione fatta in nome della ragione, contro quel "succubato occultatorio di massa " che è la società umana.

Così Artaud si lascia attraversare da deliri, per sfondare i limiti della percezione, per fondare una prospettiva diversa e creare uno sguardo non più assoggettato a nient'altro che il proprio grido.
L'operazione di rottura costò a questo testo, pensato per la radio francese, l'intervento della censura: la trasmissione, benché fosse stata realizzata, non venne mai diffusa.
Così oltre ad essere un libro scritto martirizzando la lingua francese, è un libro parlato, destinato alla vocalità di Artaud stesso, acuta ai limiti delle possibilità umane, anzi un libro gridato, dove una "danza terribile " viene costantemente evocata, per frantumare la staticità pensosa della letteratura classicamente intesa.

L'edizione italiana di Stampa Alternativa unisce così al teso un cd in cui i versi sono recitati da Artaud stesso, e da altri attori che con lui hanno collaborato. E'un florilegio di voci, xilofoni, tamburi, che ha il potere di agghiacciare, e al tempo stesso elevare la poesia alla sfera pericolosa dell'indicibile. C'è qualcosa che non può essere detto, uno sfondamento del linguaggio, che non può esaurire sulla pagina il suo effetto di straniamento, e le parole diventano fuochi fatui che per un attimo come onde increspano la superficie del linguaggio. La lingua viene costantemente torturata da Artaud, che palesemente in questa operazione ci mette tutto se stesso, nello sforzo di cogliere, lo si percepisce, qualcosa di assoluto che la lingua stessa imprigiona. In questo paradossale desiderio di trasformazione della vita Artaud opera con crudeltà, polverizzando se stesso, e tutti quei concetti che si oppongono al caos delle forze che il poeta sente schiacciate dentro di dalle potenze della metafisica: Dio, la ragione, l'essere.

Per farla finita col giudizio di dio doveva essere il primo spettacolo del teatro della crudeltà, ma fu giudicato troppo forte per le orecchie dei francesi, ed a distanza di sessanta anni la sua potenza di scandalo è ancora viva, e sopravvivrà a tutte le mode, perché la ferocia di Artaud permette la dissoluzione di ogni pregiudizio, della "inconscia animalità dell'uomo", i suoi disgusti aprono una dimensione in cui il linguaggio mostra le sue crepe, e ciò che è consacrato odora di escrementi; tutto questo per liberare l'uomo da quelle potenze, da quelle illusioni di senso e di totalità, che lo separano dal proprio corpo, e lo trascinano dentro un vortice di idee, che alienandolo, lo privano della sua forza vitale. Ed è il corpo di Artaud, dominato, violato, sottoposto a decine di devastanti elettrochoc, che grida per tutti noi la rivincita del corpo stesso, contro tutto quello che nei secoli lo ha asservito; corpo vampirizzato dalla religione, dalla scienza, dall'ontologia, strumenti di un'alienazione che Artaud ha combattuto stando, coraggiosamente, dalla parte del delirio.

La sigaretta- Jules Laforgue-poesia

lunedì 4 maggio 2009


Sì, questo mondo è piatto, e quanto all'altro, frottole.
Senza speranza vado mansueto alla mia sorte;
per ammazzare il tempo, aspettando la morte,
fumo in faccia agli dei sottili sigarette.

Su,viventi, affannatevi, o scheletri futuri.
Me, l'azzurro meandro che verso il cielo si torce
mi sprofonda in un'estasi infinita e m'addorme
come ai morenti aromi di mille bruciatori.

Ed entro nel fiorito eden dai sogni chiari,
dove elefanti in fregola si intrecciano alla fioca
danza delle zanzare, in fantasiosi valzer.

E quando poi pensando ai miei versi mi scuoto,
contemplo, il cuore pieno di dolce gioia,il caro
mio pollice arrostito come un cosciotto d'oca.

(traduzione Luciana Frezza)

La letteratura e il male- Georges Bataille

sabato 2 maggio 2009

" Tutto lascia pensare che esista un luogo dello spirito a partire dal quale la vita e la morte, il reale e l'immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l'incomunicabile, cessano di essere percepiti in maniera contraddittoria."

André Breton

Il discorso di Bataille parte da una definizione di bene e male, che non è così automatica e per comprenderlo bisogna faticosamente entrare in un labirinto in cui lo scrittore francese ci guida fra riflessioni sulla letteratura ed a volte oscuri excursus filosofici.
Scrivendo di Baudelaire Bataille definisce il bene come ciò che la volontà persegue per l'avvenire, la difesa di una morale dell'utile e del vantaggioso, mentre il male sarebbe la dispersione dell'istantaneo, frutto di una volontà ambigua che arriva a non volere ciò che vuole e a volere ciò che non vuole. Questa impasse è chiaramente leggibile proprio in Baudelaire, che è uno degli otto scrittori di cui Bataille si propone di scandagliare il rapporto con la colpa originaria che sta nella letteratura.Questa è la tesi che Bataille cerca di dimostrare: l'impulso letterario, affondando nell'infanzia e traendo da essa il suo nutrimento, si contrappone all'ordine stabilito da ciò che la società umana ha deciso essere il bene, cioè appunto quella morale che pone nell'avvenire il suo senso e nella conservazione della vita il suo fondamento. Ma la letteratura è essenzialmente lotta contro quest'ordine, per affermare la dispersione dell'istante e il rifiuto infantile del mondo degli adulti, con la loro progettualità volta a garantire senso e durata, cui i bambini e gli artisti come Baudelaire contrappongono un eterno presente senza avvenire e in questo modo affermano le potenzialità della loro libertà, posto che questa libertà è inquietante, presuppone il deserto, in quanto aldilà delle convenzioni sociali che conferiscono alla vita il suo aspetto c'è una zona pericolosa, dove la ribellione allo status quo si realizza a volte nella distruttività, come in Sade, altrove nel "silenzio della volontà" come in Baudelaire, o nel desiderio di abiezione, come in Genet.
"L'uomo non può amarsi fino in fondo se non si condanna" e questa è una delle convinzioni che lo scrittore francese cerca di dimostrare e che cozzano contro il senso comune, contro il bene stesso, che sarebbe anche l'insieme di tutte quelle convenzioni e interdizioni, che rendono possibile la convivenza fra gli uomini, ma che la letteratura ha il compito di mettere in crisi, in questo senso realizzandosi come trasgressione di quelle realtà solide che gli uomini tendono a chiamare bene.
Così la figura di Baudelaire è tratteggiata attraverso questa fondamentale idea del poeta come colui che preferisce rimanere nell'attimo presente, alla ricerca di un piacere che gli sfugge, piuttosto che trovare nel lavoro, nell'utile, nel fluire del tempo, la soddisfazione e la pace che è priorità delle nature più prosaiche, che non perseguono la conoscenza, cioè quella fusione di soggetto e oggetto che sarebbe il fine della filosofia, ma solo il proprio vantaggio, il proprio bene. Il poeta sarebbe allora il demiurgo che cerca di sottrarsi alla dimensione in cui la coscienza non è nient'altro che il riflesso delle cose, per ricercare piuttosto l'impossibile, cioè la fusione con esse.
Bataille insiste molto sulla necessità per il letterato di volere l'impossibile, e proprio per questo sia Baudelaire che Sade si scontrano con un violento senso di impotenza, che però è all'origine del loro sforzo conoscitivo, invece la soddisfazione non produce quella particolare coscienza necessaria per indagare la realtà.
Il romanticismo è quel fenomeno che rifuggendo la consacrazione dell'utile, propugnata dalla mentalità borghese, in seno alla stessa borghesia, persegue obiettivi più naturali, laddove però la natura è il luogo di una grandiosa dissipazione, che raggiunge nella morte la sua forma più eclatante. Nell' indagare il rapporto fra sessualità e morte Bataille scrive di un racconto di Kafka, che si conclude con un suicidio; le ultime parole "In quel momento la circolazione sul ponte era addirittura senza limiti " vengono associate da Kafka in una lettera a Max Brod ad una" violenta eiaculazione".
In cosa consista questo rapporto Bataille lo vede nel superamento dell'interdizione, che realizza pienamente l'aspirazione fondamentale dell'uomo a raggiungere la vertigine del suo "scatenamento". L'uomo differisce dall'animale proprio per l'esistenza di divieti e dunque della possibilità e talvolta della necessità della loro trasgressione, mantenendo sempre la consapevolezza che questa infrazione della norma è comunque colpevole, in questo ritrovando però un surplus di godimento, fermo restando che "L'infrazione spaventa, come la morte; tuttavia essa attrae , come se l'essere ci tenesse alla durata solo per debolezza, e come se l'esuberanza comportasse, al contrario, un disprezzo per la morte, che è necessario non appena la regola viene infranta."
In Sade Bataille scorge la ricerca di uno stato paradossale di "esasperazione", uno sconvolgimento prolungato causato da una eccitazione sessuale sproporzionata e senza limiti, in un contesto in cui la depravazione diventa un atto di devozione al male assoluto. E' davvero l'estasi dell'annientamento anche del proprio; l'opera di Sade è un deserto che agghiaccia per la sua monotonia infernale, che stupisce per il fervore con cui il male, ciò che è esecrabile, viene esaltato, in un parossismo che distrugge tutti i valori e gode di questo, ma il desiderio di distruzione è il segno della reclusione. Sade crea un universo concentrazionario che è il riflesso della sua stessa prigionia, restituendoci" la solitudine dell'universo" e affermando così una verità clamorosa: lo " scatenamento", e la perdita di coscienza che esso permette, sono il segreto perturbante dell'uomo.

Scrivendo di Kafka Bataille sottolinea nuovamente un aspetto dell'isolamento dell'artista, e la sua conseguente insofferenza verso la società: la puerilità.
Così Kafka sconta la sua esclusione già nella figura paterna, che considera infantile ciò che per Kafka è una preoccupazione profonda: la letteratura. La letteratura è quella colpa, quella trasgressione delle leggi dell'utile, che il mondo della "attività efficiente" non vuole e non può riconoscere. Kafka non reagisce allora con la rivolta, ma con la sottomissione- "Nella lotta fra te e il mondo stai dalla parte del mondo -creando con le sue storie un disordine che mina le certezze logiche su cui si fonda la razionalità, alla ricerca di quello smarrimento che solo può dare il senso della propria presenza, seppure schiacciata da una fatalità oscura.
Nel rifiuto di diventare padre, Kafka rivendica il suo diritto all'irresponsabilità e al sogno- "Non sposerò Frida, non entrerò in comunità "- e ancora questo è un atteggiamento colpevole.
La letteratura è quel crogiolo di forze esorbitanti, di tristezza da esiliato, di gioie che in definitiva solo la morte può suscitare e contenere ;ma la sottomissione di Kafka verso la società è per Bataille più violenta di qualsiasi rivolta, affermando la propria nullità l'artista spezza ogni legame, trasfigurato, egli non è più il Prometeo che ruba il fuoco agli dei, ma un bambino che cerca nel sogno la propria verità di escluso: "Restai seduto e mi chinai come prima su quel foglio che dunque non serviva a nulla..., ma in realtà ero stato espulso di un colpo dalla società".
Questa umiliante condizione è il prezzo che Kafka paga per mantenere intatta la propria vocazione e la propria libertà, nel rifiuto della "attività efficiente" e della schiacciante fatalità del mondo.
Diversamente William Blake nella visione di Bataille oscilla fra paganesimo e un cristianesimo paradossale, elaborando una personale mitologia, in cui la materia è in perenne trasformazione e l'energia è"eterno piacere". Rivendica la sessualità contro ogni forma di imposizione religiosa o sociale, e nel tentativo di fondere cielo e inferno cerca di superare la dualità del pensiero occidentale.Per Blake la verità sta nell'immaginazione, e le religioni, nate da un impulso poetico, sono colpevoli di aver tradito la loro origine, rifugiandosi in un dogmatismo infecondo, non riconoscendo più la propria affinità con l'attività creatrice, sempre in qualche modo perturbatrice dell'ordine stabilito dalla ragione, sempre tesa a un godimento impossibile, ad una affermazione potente della vita.
Certo per Blake la poesia è dalla parte del male, cioè dell'attivo, dell'esuberanza,della stessa energia creativa e sessuale mentre il bene è "il passivo che obbedisce alla ragione". La condanna della legge morale fatta dal poeta inglese , scrive Bataille, è tutta nell'affermazione della necessità della gioia erotica, del piacere sensuale, per riappropriarsi del corpo, sequestrato dalla morale ebraico-cristiana e sottoposto alla tortura di una vita dichiarata colpevole, nella consapevolezza che, come si legge in Matrimonio fra cielo e inferno " Senza contrari non v'è alcun progredire.Attrazione e repulsione, Ragione ed Energia, Amore ed Odio sono necessari all'esistenza umana."
Scrivendo di Genet Bataille affronta il tema della sovranità che è "il potere di innalzarsi, nell'indifferenza alla morte al di sopra delle leggi che assicurano il mantenimento della vita"
e scrive dell' operazione compiuta dall'autore di Diario del ladro:infrangere il limite imposto dalle interdizioni, per generare un 'estetica del male, che è il rovescio inquietante della santità e presuppone la stessa tensione e lo stesso rigore. Così Genet delinquente e ladro, raggiunge nell'abiezione più profonda quella zona dove il male è la cifra di un'affermazione di sé paradossale ed inquietante.Il superamento della morale tradizionale, l'annullamento di ogni interdizione è strettamente legato alla coscienza di stare compiendo una violazione, e in un crescendo di crimini il rischio è quello che non ci sia più nulla da infrangere e dunque il vuoto. Scrivendo anche di Bronte, Michelet , Proust, Bataille compie così il suo percorso circolare, mostrando come i suoi assunti iniziali siano validi: la letteratura è dunque il luogo in cui l'esistenza raggiunge l'acme della sua dissipazione,e poiché essa non è nient'altro che il "sospirato ritrovamento dell'infanzia"non le resta che dichiararsi colpevole .


Da Cronache e altre poesie- Elio Pagliarani

mercoledì 29 aprile 2009

In casa, adesso, faccio la sarta
perché a Milano bisogna lavorare
-il tram, se no, chi ce lo manda avanti ?-
e gli occhi rossi sono più lucenti
ma da grande farò la cantante,
perché a un certo punto bisogna
calmare le vene che fanno crescere il collo,
poi viene la tiroide e gli occhi grossi,
e poi è la mia grande passione
e poi voglio dormire la notte
di colpo, e parleremo di cose pulite
e sarà un pezzo che ho finito di tremare
se un uomo in tram mi fruga, con le mani rozze,
e saprò bene dove porta un bacio.

Lo so, dobbiamo stare molto attente
che non ci venga una pancia grossa.

1952

La ribellione delle masse- José Ortega y Gasset

sabato 25 aprile 2009

Pubblicato nel 1930,questo testo di Ortega y Gasset ha fornito i primi strumenti ad altri intellettuali per analizzare uno dei fenomeni più significativi e peculiari del Novecento:il progressivo formarsi di grandi agglomerati urbani e il susseguente avvento al potere delle masse.
Si tratta, scrive Ortega y Gasset, di una violenta trasformazione della società, che vede protagonista l'uomo medio, l'uomo massa,colui che si sente come tutti gli altri, e in questo trae la sua forza,in questo mette tutta la sua volontà di potenza,generando con la sua apparizione sulla scena della storia uno dei più clamorosi trionfi del conformismo e causando perciò un declino, paragonabile solo al periodo del Basso Impero,con l'imbarbarimento e l'impoverimento dei costumi, con la lingua latina ridotta a una sua caricatura semplificata, e con il dilagare di stupidità e volgarità. Per Ortega y Gasset viviamo un periodo analogo, in cui le minoranze un tempo elitarie soccombono sotto l'urto di questo tipo di umanità irresponsabile, viziata, che non è legata ad alcuna classe sociale, ma si infiltra in tutte, determinando il corso degli eventi.

Il risultato è che l'Europa è diventata il regno di un grossolano dispotismo, di cui il fascismo è uno degli aspetti, all'insegna della volgarità e della violenza " retorica del nostro tempo ", con l'affermarsi di un'omogeneità che annulla le differenze e dunque con la progressiva scomparsa di quella "varietà di situazioni "che costituivano la ricchezza del continente. All'orizzonte il forsennato statalismo, l'improvvisa crescita demografica, hanno generato il dissolversi di una vera vita individuale, e il collettivo ha instaurato il suo regime spesso brutale, in ogni campo, dalla politica, alla cultura, alla scienza.La tesi del filosofo spagnolo nasce da un'idea della vita che egli stesso definisce aristocratica, l'umanità è, bisogna dire un po' schematicamente, divisa nelle categorie dei nobili, coloro che esigono molto da se stessi e per questo scontano una cronica ma salutare insoddisfazione, e le gran moltitudine di coloro che invece, assolutamente paghi di , non ambiscono in nessun modo a migliorare se stessi e sono inerti davanti all'esistenza che accettano in toto. Non riconoscono nessuna istanza superiore, sono felici di essere come tutti gli altri,in una sbornia di conformismo, e si lasciano semplicemente trascinare dalla corrente.

Quest'ultima categoria di uomini sono nella visione del filosofo spagnolo sempre sull'orlo di commettere qualche barbarie, animati da uno spirito gregario che cela una profonda distruttività ed essendo oramai arrivati al dominio, anche grazie alla tecnica che ha aumentato prodigiosamente le loro possibilità di vita,rappresentano un grave pericolo per la società occidentale. Oggi alcune delle idee del filosofo spagnolo sono forse diventate dei luoghi comuni, chiunque è in grado di rendersi conto dell'omogeneità degli stili di vita su scala planetaria, della fine delle differenze peculiari che, soprattutto in Europa, caratterizzavano positivamente la società di un passato anche recente, ma per gli anni venti questi temi se non nuovi, erano ancora lontani dal divenire consapevolezza diffusa; l'ossessione di Ortega y Gasset sta nel tramonto delle elite, travolte da quest'onda di umanità volgare e irresponsabile, convinta di poter fare a meno di loro.

Un altro dei pericoli contro cui Ortega y Gasset mette in guardia l'Europa consiste nella perdita di memoria storica, che impedisce quella continuità fra passato, presente e futuro che costituisce l'ossatura di ogni vera civiltà. Tutte tesi oggi consolidate, ma lo stile di scrittura del filosofo, avvincente e chiaro, rende vive alla nostra attenzione, in un'epoca in cui la massificazione, con la conseguente omologazione dei comportamenti, ha raggiunto forse il punto di non ritorno.
Una particolarità dell'epoca contemporanea, anch'essa evidente, è la sicurezza di trovarsi in un periodo in cui le " magnifiche sorti progressive", denigrate con addolorato sarcasmo da Leopardi, sono una certezza indubitabile; Ortega y Gasset osserva come la nostra sia un'epoca che si considera il vertice di tutti i secoli, e per questo motivo tende a dimenticare gli altri.

Questa sicurezza nasce dalla banalità del fatto, scrive il filosofo, evidente a tutti, che un'automobile, allora il simbolo della modernità tecnologica, sia destinata a un continuo miglioramento negli anni, e in questo miglioramento puramente tecnico, l'uomo massa vede realizzarsi l'utopia di un mondo in costante e vertiginoso progresso. Così da una parte la tecnologia fornisce a un'umanità impreparata quella ubriacatura di volontà di potenza che la caratterizza, dall'altra lo spazio per una reale individualità si riduce sempre più, in un mondo sconvolto da una crescita demografica improvvisa, ed è con vero orrore che Ortega y Gasset nota che nel breve volgere di un secolo (1800-1900) la popolazione dell'Europa sia più che triplicata.
Un'altra delle caratteristiche che rendono odioso l'uomo massa agli occhi del filosofo è che egli non accetta nulla al di sopra di e, a differenza del nobile, che persegue sempre un obiettivo posto al di fuori della propria individualità, egli si abbandona all'irresponsabilità e al nichilismo.

La prospettiva è davvero inquietante: " Chi non sia "come tutto il mondo ", chi non pensi come" tutto il mondo" corre il rischio di essere eliminato" e in queste parole riecheggiano analoghi pensieri di Nietzsche. Pare che per il pensatore spagnolo nulla si salvi da questo processo di omologazione,ed anche la scienza, motore delle trasformazioni degli ultimi secoli, lungi dal rappresentare ancora l'espressione di un'elite,è in mano ad uomini che in più passi dell'opera egli definisce barbari.La specializzazione esasperata di ogni ramo del sapere, che ha fatto smarrire una visione d'insieme, è sintomo di questa discesa del mondo occidentale verso una dimensione primitiva: la massa gode dei prodigi della tecnica, senza interesse verso i principi scientifici che li hanno reso possibili, indifferente alle complessità che rendono la vita una costante sfida e un pericolo. L'apatia e l'arroganza sono le malattie storiche susseguenti alla ribellione delle masse che, non accettando più di essere dominate dall'elite, hanno invaso con la loro prepotenza ogni sfera della vita sociale, indebolendone il tessuto. Se "Ogni vita è lotta sforzo, per essere se stessa", l'uomo volgare fugge da questa lotta, non accetta le difficoltà, e ha ricevuto la civiltà come un dono che non è in grado di apprezzare, convinto com'è che tutto sia naturale, inconsapevole del fatto che invece tutte le conquiste umane siano il frutto di un duro lavoro, e che ogni progresso sia costantemente in pericolo,e ogni periodo storico minacciato da forze regressive.

In tutto questo l'Europa ha perso la sua egemonia a causa della crisi di quei punti di riferimento storici e morali, che la caratterizzavano, e nessuno, gli Stati Uniti, l'Unione sovietica, hanno preso realmente il suo posto e il mondo è abbandonato a una pericolosa incertezza. Per il filosofo spagnolo è ancora l'Europa, di cui egli auspica l'unificazione,il continente che deve, per compito storico, guidare il mondo, ma la crisi morale in cui versa, a causa dell'imporsi di un tipo d'uomo,che disprezza ogni dovere e si sente solo " soggetto di diritti illimitati",le impedisce di assolvere questa funzione.Lo scopo di questa umanità che si è imposta è schiacciare ogni tipo di uomo superiore, eliminare ogni rispetto per l'intelligenza, e abbandonarsi a un senso di onnipotenza imbecille. La morale di cui parla il filosofo è"sentimento di sottomissione, coscienza di osservanza e obbligo". Senza questi valori si afferma soltanto una morale negativa che è nient'altro che la forma vuota di quella originaria.

Lo sforzo di Ortega y Gasset, la sua analisi impietosa, giungono però a un punto morto, se l'elite sono scomparse dall'orizzonte della storia, si può parlare di dittatura dell'uomo medio e deplorarne gli effetti, ma la questione rimane insolubile. La scomparsa dell'elite è un effetto perverso della democrazia, la ribellione delle masse il suo corollario, l'anarchia che il pensatore
sentiva nell'aria era effettivamente il terreno su cui stava germogliando il nazismo.

Oretega y Gasset vede davvero nell'unificazione dell'Europa l'unica possibilità per evitare il collasso della democrazia, o la sua caricaturale implosione demagogica.
Nell'ultime parole del libro si annuncia in effetti l'avvento di un'era di totalitarismi che solo successivamente saranno temprati dal sorgere di un nuovo liberalismo.
L'Europa farà vivere allora le sue differenze in un contesto di unificazione dove però queste stesse differenze saranno valorizzate. Questa è l'intima certezza e la speranza dell'ultimo capitolo del libro.

E' nell'incontro con se stessi che la storia continua ad essere feconda, ed è nello smarrimento, paradossalmente, scrive Ortega y Gasset che l'uomo ritrova se stesso, abbandonando, "retorica, posa,intima farsa."e raggiungendo la consapevolezza che tutta la vita è problematica, come un naufrago aggrappandosi a questo "tragico sguardo perentorio"al di là di tutte le "idee fantastiche"
che impediscono di vedere la realtà del proprio caos e solo da questo smarrimento, da questa scoperta, può nascere un sincero anelito all'ordine.

Un "io" non può mai essere un grand'uomo- Stephen Spender

sabato 18 aprile 2009

Un "io" non può mai essere un grand'uomo.
Questo grande famoso è debole
agli amici assai noto per la sua debolezza:
di cattivo umore a colazione, gli secca di essere contraddetto,
il suo unico piacere pescare negli stagni,
l'unico vero desiderio-dimenticare.

Procedendo dagli amici verso il sè composito,
l"io"centrale è circondato dagli "io che mangio"
"io che amo","io che mi arrabbio","io che evacuo"
e il grande io, piantato in mezzo a lui
non ha nulla a che spartire con tutti costoro,

non può rivendicare mai il suo vero posto
nella quiete della fronte,nella calma dello sguardo.
Il grande "io" è un intruso sfortunato
che litiga con l"io che sono stanco",l"io che dormo"
e tutti gli altri "io" che anelano a un "noi che moriamo".

(traduzione Alfredo Rizzardi)

Poesie-Stephen Spender


Stephen Spender è uno dei nomi più prestigiosi della poesia inglese del Novecento e qualche anno fa per Mondadori è uscita una sua interessante raccolta di versi, che partendo dagli anni trenta e arrivando fino a tutti i sessanta, disegna la sua parabola artistica in maniera efficace.Alla fine del volume troviamo anche uno scritto critico di Spender stesso sulla scrittura in versi, in cui egli esemplifica il proprio processo creativo, mostrando la tensione conoscitiva che lo anima.

Nella prima raccolta intitolata Preludi il poeta si sofferma sulla marginalità di certe esperienze umane, dai carcerati ai disoccupati, ossessionato dal loro vuoto che quindi, per adesione empatica diviene anche il suo, in un mondo che profeticamente Spender sente sospeso fra due guerre. Non c'è possibilità di vera grandezza umana e l'io sbriciolato si accontenta di desiderare un 'unità che, pare dire il poeta, solo la morte può dare.La fragilità dell'esperienza umana è così raccontata con una pietà e stilisticamente con un garbo che però rischiano di rendere talvolta le poesie un po' asettiche.Più spesso il poeta raggiunge una splendida sintesi di sentimento e intelletto, lasciando dei versi indimenticabili, come quelli della poesia Doppia vergogna, contenuta nella raccolta Un mondo stampato in cielo, dove sono le parole più gentili ad essere " quelle più affilate di lame" e l'incapacità di amare è stigmatizzata come una colpa.In altre raccolte il tema della guerra si mescola al desiderio di possibile un riscatto di marca comunista, finché l'autobiografia non entra in scena con la commovente Elegia per Margherita, dove Spender tocca il vertice di un lirismo funebre, che forse solo Auden con Blues in memoria ha raggiunto con uguale intensità.L'agonia della cognata è descritta attraverso il sentore del lutto imminente, cui partecipa la natura intera,il cosmo si spezza nel lamento funebre e il poeta ha il compito di riunire i pezzi infranti e vi riesce, dimostrando che anche il dolore, divenendo esperienza artistica, può essere alleviato dal discorso che lo eleva a condizione umana fondamentale, e come tale ricca di significato.Tutta la realtà del mondo è per Spender dicibile e come tale può essere redenta e purificata dalle scorie del discorso comune che tende sovente ad appiattirla in stereotipi di comodo. Attraverso la complessità dei versi invece il pensiero si perde e si ritrova nel suo mistero profondo, epifania di una ragione che s'interroga costantemente sul senso degli avvenimenti.Così nell Elegia per Margherita il ricordo della morta supera la morte stessa,sebbene di consolatorio questa poesia non offra molto, se non appunto la coerenza con cui tutto viene analizzato, e che fornisce così lenimento al dolore,per cavare un anelito di speranza che riesca ad attenuare la "misera e disperante turpitudine" del lutto.
L'infanzia della figlia è la rivelazione di un amore infinito, sebbene nella stanza ogni giocattolo sia "un nervo scoperto"nella consapevolezza della fragilità di questo stesso sentimento. Ed è proprio nell'amore, suggerisce Spender,che la travagliata esperienza umana trova il suo riscatto,e se in essa vi è una pienezza si trova nelle "passioni più reali"che vincono la desolazione con il loro afflato che in Spender non è mai mistico, ma calato pienamente in una realtà di cui il poeta non tace mai le asperità.L'amore è quella realtà capace di " benedire ogni cosa e ognuno ", ma altrettanto potente la morte" attesta il fuoco al centro del suo sguardo " nella poesia dedicata a Dylan Thomas, incorona il respiro nella dolente preghiera di Elegia per Margherita. Faticosa è la consapevolezza, un barlume di luce è una conquista quotidiana, e anche se il corpo" sarà buttato via come l'elitra dello scarabeo" vi è tuttavia"un'immutabile parola" che dà senso al divenire oblio di ogni cosa, sebbene in questa parola riecheggi tutta l'angoscia di chi, faticosamente, cerca una giustificazione morale al proprio agire, e la trova soltanto nella lucida "testimonianza di , dell'amore, della morte"realtà che costituiscono il fulcro del discorso poetico di Spender.L'uomo privato dell'essere cui anela può trovare magari diletto in un paesaggio, fino a desiderare di fondersi in esso, ma la totalità gli è preclusa in un 'epoca"ignorante e tragica" e sconvolto dalla scoperta della propria caducità" Giacché già ci si è dimenticati di noi sulle rive stellari "questa consapevolezza gli restituisce "un mondo già morto", a significare che la lontananza delle stelle è il segno di una cosmica indifferenza alle vicende umane.Non c'è nessuna divinità a vegliare su i nostri destini,nessuna realtà metafisica può consolare l'uomo della sua carenza ontologica, che spesso in Spender è sentita come una mutilazione.Uscire dal " caos della mia tenebra"è il compito che si impone nella sua poesia, per raggiungere"un più lucido giorno"dove però il buio e la luce trovino la loro necessaria riconciliazione, una sorta sintesi dialettica degli opposti, capace di ritrovare unità, ma così diventa difficile separare la vita dalla morte, l'essere dal non essere, e tutto è destinato ad una confusione inestricabile.In questa poesia i grandi temi della vita sono evocati con una sorta di tranquillità che vuole accettare tutto e restituire il caos alla sua comprensibilità, costantemente alla ricerca di un ordine che" ha per dogmi un oggettivo amore".
Il senso delle cose è un baluginare che può essere colto solo nella più profonda tensione intellettuale e sospeso fra amore e morte il poeta è " un profeta in cerca di lingue di fuoco"che nella "gran tempesta del mondo"cerca di unire i pezzi di un puzzle, di cui il significato complessivo gli sfugge, tentando traverso il canto di guarire " le ferite che questo tempo dimentica...e assai meno trascende."

Ballata della ragazza di Novi- Guido Ceronetti

martedì 17 marzo 2009

"E tu dagliene, dagliene ancora !"
Dietro l'uscio Elettra gridava
"Dagliene ancora ancora !"
Mentre Oreste la madre pugnalava


A Novi Ligure una ragazzina
Madre e fratello tranquilla sventra
Fa un mattatoio di quella villa
Con un coltello tolto in cucina.


Guàrdati madre da quel faccino
Che va alla scuola covando morte.
Domani sera ti verrà incontro:
Nei suoi occhi vedrai chi ti assassina


Scesa in giardini strepita " Aiuto !"
Grida agli accorsi: " Ci hanno aggrediti
Io per miracolo sono sfuggita
Furie parevano... nel buio svaniti..."


Tremendo il crimine ma misterioso
Assente il padre tornando vede
Lei dalle guardie portata via
Col suo stregato complice amoroso


Crudele enigma d'adolescente
Che dentro d'odio un oceano cela.


Duemila e uno e pur sempre scruti
Gli stessi abissi torvi dei miti.


D'Argo Dioniso trasse più vita.
Discetta il dotto d'Ellade e Fato.
Ma a Novi giace un sangue impurgato,
Cronaca smorta, irredimita


Dice la gente: sia demolita
La casa invasa da tanto crimine.
Il padre invece ne lava i muri,
Spera il cancello spinga una sera
L'amara figlia.

Le ballate dell'angelo ferito- Guido Ceronetti

giovedì 12 marzo 2009


Ancora una volta con questo piccolo libro di poesie Guido Ceronetti si interroga e ci interroga sul tema del male, del dolore e della violenza, che impregnano un mondo in cui il poeta riconosce e nomina le ferite che un progresso scriteriato ha lasciato su quello che un tempo era considerato sacro, la natura per esempio, giacché “ ogni albero è un angelo ferito”. In queste ballate, spesso dal tono narrativo, vengono isolati alcuni momenti estremi della vicenda umana, dall’omicidio di Kennedy alla strage di Beslan, dai lager all’assassino dei Romanov, dalle Torri gemelle al patibolo di Beatrice Cenci, eventi che acquistano nei versi di Ceronetti tutta la loro drammatica realtà di schegge dell’occulto, manifestazioni di una crudeltà che non dà scampo, e che davvero lascia sgomenti il poeta e noi con lui, che lo seguiamo in questo itinerario, confidando nella possibilità di capire, e quindi di guarire dalle nostre personali inclinazioni all’orrore. La poesia per Ceronetti è un farmaco contro i mali del linguaggio e della vita, con la sua oscurità redime il chiasso che ormai ci assedia con i suoi artigli di luoghi comuni barbari e vaniloqui aggressivi e feroci, è una luce che riscalda il lamento delle inanità colloquiali, e con la sua misteriosa lampada d’enigmi appena sussurrati, svela le tensioni musicali del linguaggio. Talvolta può denunciare vite malvissute, che sono le propaggini di un male di vivere universale, che la poesia stessa ha il compito di rischiarare, ora con la presenza di un'addolorata ironia, ora con un sarcasmo che in Ceronetti è quasi pedagogico, più spesso con l’esercizio di una pietà, che non è per il poeta un semplice artificio retorico, ma la sostanza stessa del suo grido e della sua estetica.
Così in una delle poesie più toccanti, quella sulla strage compiuta dai due sedicenni di Novi Ligure, la figura del padre chiude i conti con l’orrore con il suo disperato perdono che, rielaborato nei versi del poeta, ci tocca ancora più profondamente, diventando egli il simbolo di un’umanità dolente, che non vuole rassegnarsi alle dinamiche del mostruoso. In alcune poesie, Ceronetti arriva anche a demistificare l’orrore, ma sempre mostrandoci in filigrana le trame di un fato invincibile, a volte facendo vibrare, nella musicalità dei suoi versi, il suo personale convincimento che tutto è sofferenza, e che talvolta davanti a certi comportamenti non c’è nessuna possibilità di perdono, come nella vicenda di quei bambini, e di quell’uomo che volle condividere la loro sorte, deportati nel lager di Treblinka e là uccisi con il gas o ancora nella drammatica storia dei bambini trucidati a Beslan. Sul tema del suicidio della figlia di Sironi tocca la vertigine di un pathos, traverso cui persino la luce sembra patire il dolore puramente umano di un padre che perde la figlia in maniera così terribile, su Rosa Vercesi, assassina dell'amica Vittoria, il poeta, che già le aveva dedicato un libro intenso, ha parole di sdegno e di condanna, diversamente quando il tema è quello delle vittime Ceronetti trova la luce di una dolorosa pietà. Sulla vicenda di Eluana Englaro, per esempio, tenuta artificialmente in vita da “macchine crudeli “Ceronetti ha parole intense e la poesia a lei dedicata è una delle più vibranti dell’intera raccolta. In un'Italia che congiura contro di lei per farla rimanere”priva di morte e orfana di vita “, solo il padre raccoglie il suo lamento, mentre il clero mostra tutta la sua intransigente assenza di pietà, accontentandosi di mostrare un ipocrita affetto, assuefatto alla sua “ fumata teologica” e persino il Dalai Lama china il capo, davanti alla richiesta di Nirvana della ragazza pietrificata da diciassette anni di coma. Altrove una dimensione metafisica viene accennata, ora nella denuncia di una sorta di maleficio, causa della distruzione delle Torri gemelle, ora nell’intuizione di entità soprasensibili contemplate, “nella grotta di Lourdes”, da una contadinella analfabeta.
Così fra casi di cronaca e fatti storici, fra metafisica e orrore per la Storia, Ceronetti lascia un potente affresco di versi, che indicano talvolta la via della salvezza, come nel caso della preghiera rivolta a Buddha, affinché ci liberi dalla prigione dell’io, “ fabbrica di dolore”, o nell’esaltazione di una virilità che va incontro alla morte con eroismo e coraggio, o ancora nel misterioso disvelarsi di realtà metafisiche, capaci forse di riscattare questi “ grovigli di umanità perduta” che rendono spaventosa la metropoli moderna. Come sempre in Ceronetti la folla umana è inquietante: ”Turba di oziosi, suburrani, servi" e i “pochi che hanno sensibilità e mente” sono vittime di questa” canaglia bruta”.
L’angelo ferito del titolo è un personaggio che la fantasia di Ceronetti ha ricavato dalle impressioni suscitate in lui dalla visione di un dipinto di inizio secolo, e da un racconto di Wells, ed è la figura che lega queste poesie, e dà unità ai vari passaggi del libro, che nella sua asperità disegna le forme di una contemporaneità mostruosa, in cui la salvezza è affidata al canto, farmaco necessario per guarire le ferite di una società che pare avviarsi sempre di più verso un pericoloso declino intellettuale e morale, verso un’atrofia dei sentimenti più complessi, procedendo verso un imbarbarimento che più volte l’artista ha denunciato nelle sue opere. Qualcuno potrebbe obiettare a Ceronetti che la sua visione è troppo apocalittica, ma la lucida coerenza con cui il poeta sgrana il suo rosario di versi illuminanti, a mio avviso, vanifica questa obiezione e il canto dell’angelo ferito continua a cerchiare di pietà i nostri sguardi, che tenendo testa all’orrore, cercano disperatamente altri sguardi in cui fondersi, per sfuggire alle “cattività dell’ombra”, alle bruciature dei”mentali roghi”.

Aforismi proibiti e libertini- A.V- a cura di Riccardo Reim

giovedì 5 marzo 2009


Il piacere è naturalmente vivo e scintillante. Se fosse possibile paragonarlo a qualcosa, lo paragonerei a quei fuochi che fuoriescono bruscamente dalla terra e che svaniscono nel momento che il vostro occhio, colpito dallo scoppio di luce, si sforza di coglierne la causa. Sì, questo è il piacere: si mostra e sfugge. “Jean- Charles Gervaise de Latouche



La letteratura libertina del settecento francese è stata un fenomeno complesso, che questa antologia, curata da Riccardo Reim, ha il merito di mostrare in tutte le sue sfumature. L’eros ovviamente è posto al centro delle riflessioni di questi letterati, ma da questa visuale il mondo acquista altre tinte e tutte le sue convenzioni vengono affrontate, per essere dissolte in quel gran fuoco amoroso che tutto arde. Così il discorso che affiora da questa raccolta fonde lirismo e oscenità, riflessioni morali e politiche, invettive contro Dio e sottili insegnamenti di seduzione, giacché nulla sfugge all’acuta analisi della società del tempo che questi scrittori scandalosi affrontano; analisi spesso distruttiva dei valori su cui la società stessa si poggiava e quindi sovversiva. Ma questi sovversivi hanno l’amore sessuale al posto della bomba, amore che viene illuminato da una luce di grazia, tanto che l’orgasmo passa per essere in uno di questi aforismi la divinità stessa, sprofondata negli abissi affascinanti della carne. La leggerezza del tono di alcuni, la sfrontatezza calcolata e spesso elegante di altri, la volgarità a volte spietata, e in particolare la lucida crudeltà filosofica di Sade, conferiscono a questo agile libretto un notevole interesse storico ma non solo, se ciascuno è alla ricerca della chiave per risolvere il mistero del sesso qui c’è, letteralmente, molta carne al fuoco. E’ proprio un vademecum per lo spesso ignoto e fuggevole territorio della voluttà, parola che in questo libro acquista tutta la risonanza magica che poi troveremo anche in Baudelaire. Gli aforismi del titolo sono in realtà frasi estratte da romanzi di autori come Diderot, Restif de la Bretonne, Choderlos de Laclos, Crebillon fils, Latouche, il già citato Sade, considerato però l’estremo sussulto di quella letteratura, il suo epilogo, nonché il suo teorico più avvincente. Sono soprattutto le parole dello scrittore di Justine a rendere irsuto il pelo del nostro più ipocrita perbenismo, specialmente nel suo continuo assalto alla divinità, degradata in più di un passo a pura superstizione di cui ridere o ad obbrobrio per la ragione, giacché solo in un mondo senza Dio, per Sade, l’uomo può ritrovare la sua libertà perduta. Egli affronta il terreno minato delle convenzioni borghesi per far esplodere la bomba di un egoismo naturale, invitando gli uomini a far cadere tutte le maschere e rivelarsi nella loro natura malvagia. Fu proprio il terribile poeta nero della distruzione, autore di quelli che sono, per alcuni, i libri più scandalosi della letteratura occidentale e pagò questo anticonformismo pericoloso con una vita fatta di prigioni e manicomi; così egli, che voleva essere carnefice, fu vittima di quella stessa ipocrisia contro di cui lanciava i suoi strali, esempio di letterato perseguitato per le sue idee sovversive. Ebbe la forza di rompere con il passato della letteratura, agendo con crudeltà per generare un altro movimento, che ebbe in Nietzsche il filosofo più eloquente. Ma oltre a Sade, altri autori hanno brillato per quel breve scorcio di passione che fu questa letteratura, che per lo più si volle pagana, satirica e scandalosa. Lo scandalo era soprattutto rivelare l’ipocrisia di un’intera società, che praticava in segreto ciò che pubblicamente deplorava. Ma non è solo sesso come si potrebbe pensare superficialmente, tutta una retorica della seduzione prende forme nelle pagine di questa antologia, si arriva persino a sfiorare il segreto che la donna custodisce, a interrogarsi sul suo fascino tanto potente, con la consapevolezza che, come scrive Mirabeu “ Molto spesso la passione degenera in furore “. Per questi scrittori la potenza della donna è la seduzione e non ci si inganna a proposito dei maschi, tesi unicamente “ ad appagare le loro passioni." Altrove invece la donna diventa la vittima sacrificale di un gioco erotico che la deve vedere sconfitta, cioè posseduta. Tanto che per un autore il “ti amo” proferito da una bocca femminile equivale a “m’arrendo”, anche se poi c’è la consapevolezza che in questa resa sta tutto il suo piacere più profondo, per i maschi insondabile e invidiato. All’origine dello scambio amoroso, c’è proprio la ricerca del piacere, che scrive Crebellion fils, solo per decenza si traveste d’amore e sentimento, alibi per mascherare la necessità profonda del godimento. Così questi brani nel loro insieme appaiono animati da un amore profondamente e liberamente carnale, per cui la sessualità, liberata dalle pastoie del moralismo, può assumere anche l’aria di un sacrificio rituale, o di una festa. C’è un trasporto che raggiunge la vertigine di una galanteria raffinata, che avvolge anche il desiderio più infuocato, c’è una passione che nomina ogni aspetto del godimento il più delle volte con una leggerezza incantata. Le massime amorali, la caustica critica sociale, le riflessioni antimonarchiche e l’anticlericalismo sono l’ulteriore lascito di questi autori,la loro manifesta opposizione, spesso irridente, ai costumi del loro tempo. Non mancano riflessioni sulla gelosia, derisa da Sade, ma considerata alla stregua di una passione fondamentale, nonostante si proclami la sua inutilità e idiozia e discorsi intorno alla virtù, non amata da questi scrittori, con la verginità spesso esecrata, e questi furono alcuni dei molteplici fattori che li posero in fortissima collisione filosofica con il cattolicesimo, e in questo sia Diderot, ma soprattutto Sade, anticiparono il pensiero di Nietzsche, forgiarono la visione di Bataille, in nome di una natura in cui non esiste alcun ordine morale, in cui il piacere è razionale, e ciò che gli si oppone malato. Ma Sade a volte si rifiuta di ipostatizzare questo principio, per ricondurre l’uomo alla sua potenza di essere libero, non soggetto a Dio, né a qualsivoglia forza naturale, diversamente dalla maggior parte di questi autori, che invece idealizzano eccessivamente la natura, considerandola come la verità pura dei sensi, in contrapposizione alle menzogne della cultura, sempre repressiva, sempre ipocrita, in questo modo rischiando di intrappolarsi nella gabbia delle necessità naturali, come scrive Giovanni Macchia. Ma se è vero che “ Non c’è amore senza delirio"come scrive Choderlos de Laclos, questo delirio deve essere vissuto con coraggio e soprattutto senza pregiudizi, altra parola aborrita da questi scrittori. In conclusione, questa antologia è bella perché offre la possibilità di avvicinarsi ad una letteratura, che dà l’idea di nascondere tesori notevoli, anche se, data la varietà, non tutti i brani sono interessanti allo stesso modo, ma penso che questo sia giusto per dare la vera sostanza di un movimento. Il messaggio quasi estatico di questi scrittori è che l’assoluta sacralità del sesso non debba essere smentita mai; essi sono stati gli alfieri di una sorta paganesimo senza dei, in cui il piacere può diventare raffinato istinto, all’arte spettando il compito di dire anche la verità più scomoda e crudele.
.

Bar marino- Antonin Artaud da" Poesie della crudeltà"

giovedì 26 febbraio 2009


a Roland Tual

L’ora in cui il nocchiero picchia sul suo bastardo
Marinai perduti in un sogno di bruma
Fanno rosseggiare la loro pipa sulla soglia del piccolo bar.
I panettieri stanno infornando pani di luna
E io sotto la rugiada che cade dalla coffa,
Dal grande soffitto imbottito di onischi aspiro
Tutto un carico di stelle in ritardo.
E quella di Gaspard,
Gaspard che si è installato sul fondo della conchiglia,
Ha preso l’ultimo treno, dormito fino al mattino
E tutto il porto è vagato fra le sue mani.
La regina che voleva salvarmi dal naufragio
Tendeva le sue orecchie al canto di una conchiglia
Quando il brigantino cannoneggiò di primo mattino.

(traduzione di Pasquale Di Palmo)

College all'angolo della via- Kenneth Patchen

domenica 22 febbraio 2009

L’anno venturo ci ricoprirà l’erba della tomba.
Adesso stiamo verticali, e ridiamo;
lumando le ragazze di passaggio;
puntando su cavalli bolsi; trincando gin scadente.
Da fare, non c’è niente; da andare, in nessun posto; niente gente.

L’anno scorso era un anno fa; nient’altro.
Non eravamo più giovani allora; né ora siamo invecchiati.

Riusciamo mantenerci un’aria giovanile;
dietro le facce non sentiamo niente, in nessun modo.
Probabilmente non saremo davvero morti quando moriamo.
E comunque non siamo mai stati niente; neanche soldati.

Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati.
Sonnambuli per una terra buia e terribile,
dove la solitudine è un coltello sporco alla nostra gola.
Stelle fredde ci guardano, socio
Stelle fredde e le puttane

(traduzione di Massimo Bocchiola)

Presagi d'innocenza- Patti Smith

C’è un’energia notevole in questo libro di poesie, scritte con il fiato rock da una Patti Smith spesso in stato di grazia. I riferimenti più ovvi sono William Blake, Arthur Rimbaud , Allen Ginsberg, ma la poetessa americana trova una sua originalità e la potenza dei suoi versi rimane nella memoria. C’è un afflato che si riverbera in strane volute, la forza atavica di un misticismo spesso accompagnato ad un’ironia che apparenta per esempio il romanticismo alle feci di un pidocchio, raggiungendo così la cifra di una contemporaneità in cui l’aspetto più elegiaco deve contenere il suo contrario e il sentimento fondere la nostalgia della purezza con il fango. In questi versi l’ombra di un albero, arbusti, rocce, sono racchiusi in un’ atmosfera magica in cui la presenza umana è dolcemente fusa alle cose , come se non ci fosse estraneità fra uomo e natura ,ma una profonda compenetrazione panica. Presagi d’innocenza sono appunto il contenuto esatto di una ricerca sulla realtà che permette a Patti Smith di indossare la maschera di Sibilla, lasciando scorrere nella pagina i suoi enigmi. Anche la presenza di Dio è evocata con la nostalgia di chi cerca nella banalità dell’esistenza la trascendenza che dia valore“alla volta celeste del nostro agire”, agire che in Patti Smith è sempre colmo di una consapevolezza che non viene mai abbandonata, nemmeno nel pieno della visione. La tensione sarcastica unita a una dimensione oracolare, la condanna della guerra, le immagini intense sono il dono di questi versi, in cui un intelligente controllo della scrittura si mescola con la spontaneità di molta narrativa e poesia americana. Il tema del vagabondaggio, del vagare in boschi trasfigurati , conferisce al libro un ulteriore fascino, sostenuto da una scrittura che sa essere materica e impalpabile, sfuggendo ogni pesantezza ideologica, e delineando un mondo affascinante e segreto in cui qualcosa di sacro e insieme profondamente animalesco, ma forse sacro proprio per questo, si dispiega sotto i nostri occhi. Il vento che muove le foglie dei platani ricorda che “ In qualche luogo sei buono “e anche il dolore “germoglierà come uno stelo”. L’accettazione della vita anche nei suoi aspetti più desolanti si sprigiona in versi come questi e il libro ne è tutto impregnato e anche se talvolta l’erba è” maledetta e priva di magia”, e gli orrori della guerra impediscono al poeta di cantare, e la” bellezza del sole non è immortale” , il sudore è in grado di battezzare luoghi aridi, la rugiada cola dai nostri stessi nasi e le nuvole dell’infanzia offrono la loro dissoluzione in “ un linguaggio di cifre”, che misteriosamente donano al cielo i colori di un’eternità, che si è vestita di tutti gli attimi della vita . Per diventare noi stessi occorre “spezzare il cuore delle nostre madri,”cercare la propria voce aldilà delle imposizioni della famiglia, e in questo ardere tutte le convenzioni Patti Smith ritrova la semplicità incantata dell’infanzia, unita alla”manciata di sofferenze” dell’età adulta,ma anche queste sono benedette da un’intensità vitale ,che trasmette loro tutta l’ arsione di una rinnovata consapevolezza. C è dunque una straordinaria vitalità in questi versi , la Smith allude costantemente al risveglio di sensi dimenticati, che lottano sotto la soglia della coscienza, per lasciare la loro impronta di lode, per cui le poesie della rocker americana si configurano come un canto di esaltazione e ringraziamento e si esce dal libro con la sensazione di aver partecipato a un rito iniziatico, guidati dalla poesia a trovare il fuoco di un mondo rivelato nella sua luce quasi estatica, nella sua fragile innocenza.

Minima moralia- Theodor W. Adorno

venerdì 20 febbraio 2009

“Ma il nuovo barbaro non è un rozzo/Abitante del deserto; non emerge/Da foreste d’abeti: è un prodotto di fabbrica;/Università, compagnie, società,/Furono madri alla sua mente, e molti giornali/Ne hanno rafforzato le opinioni. E’ nato qui./La bravate dei revolvers ora in voga/E il culto della morte sono a casa loro /In città”.
Wystan H. Auden

Minima moralia è indubbiamente un testo fondamentale per capire i disagi della nostra epoca e a me è sempre parso uno di quei libri che insegnano a pensare, soprattutto a pensare alla contemporaneità, su uno sfondo di pura negatività, rappresentato dallo scenario inquietante della seconda guerra mondiale, da poco conclusa al momento della pubblicazione del libro. Mi colpisce da sempre lo stile di scrittura, serrato, lucido, complesso, che sembra porre Adorno sempre al di sopra dei suoi avversari, siano i seguaci del neo positivismo, siano semplicemente gli uomini medi, con la loro normalità malata. Il sottotitolo del libro Meditazioni della vita offesa, già dà un senso alle multiformi riflessioni che Adorno lascia scivolare nel suo testo, optando come già Nietzsche per una scrittura aforistica, forse l’unica in grado di tastare il polso della contemporaneità, ormai orfana di sistemi, per coglierne le pulsazioni più inquietanti. Lo scopo è ambizioso, scrivere un libro di etica, che riconduca al senso di una retta via classicamente intesa; così Adorno, come un filosofo del passato, si propone di guidare il lettore verso una visione morale dell’esistenza, affinché agli orrori che egli denuncia nel testo, si opponga il tenace desiderio di capire, perché non c’è bellezza e conforto se non “ nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa”.Nonostante la frammentazione aforistica il libro mantiene una sua profonda unità, se non altro nella sua ricerca inesausta di una verità che sfugga al “ cerchio magico dell’esistenza”.Se la vita è offesa bisogna interrogarsi su cosa l’abbia ferita così gravemente, e le risposte che Adorno offre sono diverse: la strenua difesa di un aberrante status quo promossa dalle classi dominanti, la cecità delle masse asservite al dominio, la voluttà delle stesse di essere conformi a modelli stantii di puro asservimento, la logica della produzione, vero idolo contemporaneo, cui la vita è sottomessa, fino a divenire caricaturale, fantasma di se stessa, con la progressiva riduzione dell’individuo alla semplice e barbarica sfera del consumo. Così il pessimismo di Adorno, la sua triste scienza, è radicale e nulla sfugge alla sua critica lucida: la psicoanalisi, il cinema, i giornali, la politica, le università, sono tutti agenti di un'alienazione, sintomi di una malattia, che già Nietzsche aveva individuato, ma le soluzioni del filosofo di Rocken spesso non piacciono ad Adorno, la cui visione nasce direttamente dall’abominio dei lager, che sembrano proiettare la loro luce sinistra fin dentro il cuore di ogni sua parola. E’ l’ordine della società che rende alienato l’uomo, che non può sfuggire alla pressione del conformismo, la prospettiva è umiliante: rimanere bambini o diventare uomini come tutti gli altri, abbruttiti dalla cultura stessa, dalla scienza che si propone di salvarli, dalla religione che li ha sempre inchiodati al loro nulla e, per recuperare la potenza vitale,non c’è amor fati che tenga, la libertà si riduce al lumicino in un mondo sempre più standardizzato, e nessuno può sfuggire ai condizionamenti subdoli che la società contemporanea impone a quelli che Adorno chiama i suoi sudditi. Tutti sono vittime di una mutilazione, e anche la cosiddetta normalità è solo una pletora di ferite, castrazioni, violenze, operate in nome dell’ideologia di un capitalismo sempre più feroce, che permea tutto, per cui diventa quasi preferibile rinunciare a essere portatori di messaggi, di valori, di propositi se questi sono soltanto i segni impressi nella coscienza da condizionamenti che essa non può che subire. Il lavoro intellettuale stesso è ormai svolto da lacchè la cui autonomia di pensiero è azzerata in nome di una, scrive Adorno, mal compresa oggettività, che depaupera il singolo, inconsapevolmente complice dello stato di cose che lo schiaccia. Anche la psicoanalisi, che in quel periodo celebrava il suo trionfo, è complice del sistema economico di cui vent’anni dopo Deleuze mostrerà essere una diretta emanazione. La tesi di Adorno è questa: laddove una volta una verità su se stessi faticosamente conquistata era il risultato di uno sforzo conoscitivo, con la psicoanalisi tutto diventa preconfezionato, e invece di pensieri abbiamo una sorta di concetti passepartout, che si possono applicare a tutti, permettendo loro di evitare la fatica di pensare se stessi e provocatoriamente Adorno scrive che il problema dell’umanità non è tanto avere troppe inibizioni, ma averne troppo poche. A Freud Adorno rimprovera anche di non essere andato fino in fondo nel liberare il desiderio e di averlo nuovamente incatenato a delle razionalizzazioni, dal sapore nettamente reazionario, dando ragione alla società borghese, che desidera sempre la sublimazione,per nascondere i segni della sua violenza repressiva. Anche la psicoanalisi sostiene così le ingiustizie che affliggono il mondo e che Adorno, sulla scia di Marx, individua nei rapporti di produzione, nella natura alienante del sistema capitalistico coll’individuo condotto per mano da una società paternalistica e crudele ad essere mero consumatore. Ma il desiderio della salvezza, della redenzione, attraversa tutto il libro più come una nostalgia, che come una vera e propria speranza. Nostalgia che in un più aforisma diventa desiderio di una riconciliazione della falsa coscienza , prodotta dal movimento della storia, con la nostra sostanza più antica, la nostra natura arcaica, non ancora alienata, e in questo sembra consistere il compito profondo della cultura, nel recupero di un’infanzia in cui brilli ancora il fascino dell’intuizione e la possibilità della sorpresa.
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