La Folie Baudelaire- Roberto Calasso

mercoledì 28 gennaio 2009

L’oscurità naturale delle cose

La Folie Baudelaire non è solo un'indagine accurata della vita del poeta , ma l’acuta analisi di un ottocento francese visto attraverso altri suoi artisti da Delacroix a Ingres, da Rimbaud a Manet, da Flaubert a Degas, cui sono dedicati dei capitoli o delle digressioni . Io mi occuperò soprattutto del tentativo di sviscerare i il tema principe: Baudelaire.

Solo la prosa raffinata e nitida di Calasso poteva restituirci il fascino e il mistero dell’artista de I fiori del male e mostrare oltre ogni ragionevole dubbio la centralità della sua esperienza, analizzando minuziosamente la natura magmatica dei suoi scritti, soprattutto le lettere; per far vedere come ai nervi stessi del poeta, alla sua sensibilità esacerbata, spettasse il compito di registrare tutto ciò che dalla vita e dalla poesia, fino alla sua comparsa, sembrava essere stato estromesso, per pudore, per ignoranza o piuttosto, come suggerisce Calasso, per un'impossibilità fisiologica di mettere a nudo, di esercitare quello sguardo lucido e disincantato che fu la prerogativa formidabile del poeta francese.

Così Cioran ha potuto intitolare un capitolo di un suo libro, Da Adamo fino a Baudelaire, a significare lo scarto rispetto al passato che l’autore dei I Fiori del male rappresenta, la sua unicità davvero inesplicabile. Questo scarto è rappresentato, tra le altre cose, da quella che Calasso chiama antenna metafisica, che Baudelaire possedeva in sommo grado, la capacità cioè di ritrovare l’unità, la corrispondenza, l’analogia fra fenomeni diversi. In questa ricerca di assoluto non sporcato dall’invadenza di una natura che Baudelaire ha visto sempre con sospetto, il poeta incappò così in una vita fatta di umiliazioni anche gravi, tra tutte l’interdizione a opera del patrigno e della madre e la custodia coatta affidata al risibile notaio Ancelle, da cui dipendeva anche per pochi franchi, o ancora il processo per oscenità subito da I fiori del male. Questa congenita mancanza di denaro di un Baudelaire, subissato dai debiti e sempre alla ricerca di quattrini, rappresentò lo scacco più grave di un’esistenza che fu avvolta anche nelle spire velenose di uno spleen, che solo il consumo di oppio e di hashish sembravano poter alleviare.

Così Calasso passa dall’analisi delle’epistolario con l’equivoca Madame Sabatier alla descrizione di alcuni aneddoti della vita privata dell’artista, all’analisi stilistica delle poesie, conservando in tutto questo una straniante unità, quando il rischio di smarrire il filo era sicuramente incombente, visto che Calasso giustappone gli episodi in maniera a volte caotica, per far risaltare come dice il titolo del primo capitolo, che è una citazione da Baudelaire stesso, l’oscurità naturale delle cose. Con una grande capacità di ricostruzione Calasso fa così rivivere i personaggi che ruotarono intorno all’artista francese, presentandoli sempre attraverso le parole del poeta. Fra tutti i personaggi il già citato Ancelle, con la sua ridicola pomposità, la sua lentezza espositiva capace di strappare la pelle dalle ossa al povero Baudelaire, risultando così del tutto adatto al suo ruolo di carnefice, l’oscura figura che con le sue indelicatezze gravava sui nervi troppo sensibili del poeta.

Anche il rapporto con Madame Sabatier amore epistolare di Baudelaire getta una luce sinistra sulle vicende psichiche dell’artista, incapace per anni di rivelarsi per nome e cognome all’amata, di cui temeva soprattutto la disinvoltura con cui si circondava di amanti, per i quali ella, scrive Calasso, aveva sempre una parola buona, nonostante loro la trattassero spesso con modi scurrili e licenziosi. Baudelaire si nega a tutto ciò, diffidando della passione che, in una lettera, definisce ignominiosa(e in molti brani del Il mio cuore messo a nudo e qua e là in tutta l’opera). Centrale è il rapporto con la madre costellato di continue richieste di denaro e proclami di una fedele adorazione più da amante, che non da figlio, in un percorso che in epoca post freudiana è facilmente riconducibile alle solite, e un po’ fruste, problematiche di natura edipica. Non è infatti la devozione filiale a guidarlo, ma la passione, le scrive in una lettera in cui , dopo la morte del patrigno, si propone di prendersi definitivamente cura di lei, con un commovente slancio affettivo, poi definito, in maniera ancora più commovente, una stoltezza da vecchio.

Il poeta visse dunque una vita amara, da cui però seppe estrarre l’oro di numerose folgoranti intuizioni che, scrive Calasso, si trovano ovunque, dalle lettere agli scritti critici, frasi che nate da un impulso dei nervi si isolano dal contesto per conservare tutta la loro potenza di rivelazione; tracce di una sensibilità nuova che oggi, a distanza di centocinquant ’anni, conservano la loro fredda luce sinistra, per coloro che su questo itinerario si incamminano, per sapere com’è può essere duro sentirsi vivi, al di là di tutte le posticce retoriche consolatorie. Emblematica una frase di Baudelaire che in una lettera si augura che alla dichiarazione dei diritti dell’uomo siano aggiunte due opzioni, Il diritto a contraddirsi e il diritto ad andarsene, segno di quella insofferenza verso la propria epoca e in generale verso l’umanità che è ciò che tra le altre cose fa ancora di Baudelaire, per usare i suoi stessi versi, un nostro simile, un fratello. Perché non sono gli adoratori della specie umana o della natura coloro che fanno ad esse un vero servigio ma coloro che, come il poeta francese e aldilà di tutti gli infingimenti, strappano loro la maschera e ne mostrano l’orrore, senza edulcorarlo, lasciando respirare questa angosciante rivelazione in versi musicali, e in invettive crudeli e profonde di amare disillusioni. Ci restituiscono così la sostanza stessa di quell’inquietudine, che noi chiamiamo vita.

Il capitolo si conclude con la ribadita centralità della figura di Baudelaire, precursore di tanta sensibilità moderna. Evento di nervi e intelletto indissolubilmente legati, colui che scriveva “con furore e pazienza”poesie in cui si esaltava il culto della forma e soprattutto dell’immagine.

Baudelaire e due pittori del suo tempo
Nei capitoli seguenti il discorso si sposta verso la pittura in particolare Ingres , e Baudelaire viene citato per i suoi scritti critici. Viene dunque analizzata la rivalità dell’epoca fra Delacroix e, appunto, Ingres ,nella quale il poeta si schiera decisamente dalla parte del primo, sorta di alfiere di una nuova sensibilità pittorica, anche se Calasso nota che le pagine più interessanti Baudelaire le scrive criticando anche aspramente il lavoro di Ingres. L’acutezza delle sue affermazioni di critico gettano una luce definitiva su entrambi i pittori. Calasso quindi mischia le carte sovrapponendo le vite di questi tre artisti, in caleidoscopio di aneddoti e riflessioni che mirano a dare il senso di un’epoca. Ne vien fuori tutto il mistero che circonda la pittura, atto veramente magico, che crea qualcosa che assomiglia all’impossibile altrove così spesso ricercato dai poeti, trasfigurando i corpi, i vestiti e conferendo loro un aspetto di rivelazioni incongrue, di bagliori di metafisiche fiammelle, sospese a illuminare una scena anche banale, come nel caso del letto disfatto di Delacroix, ma che in virtù del procedimento formale, unito a una passione, si trasformano in epifanie misteriose. Il Baudelaire critico d’arte ha soprattutto il credo dell’immaginazione: “regina delle facoltà” e idiosincrasie verso una pittura scevra, come quella di Ingres secondo lui, di questo soffio vivificatore.

Il sogno del bordello-museo e Kamcatka

Nel terzo capitolo Calasso comincia a descrivere un sogno di Baudelaire, l’unico di cui esista una dettagliata descrizione per opera del poeta ed è ancora un sogno in cui l’umiliazione gioca un ruolo predominante. Lo descriverò sommariamente. Baudelaire si ritrova in un bordello, con il duplice scopo di regalare il libro di una sua non specificata opera alla maitresse e di abbordare una ragazza della casa. Inizialmente scopre di avere il pene fuori dai pantaloni e si sente indecente poi ci accorge anche di essere senza scarpe e oltre tutto si bagna i piedi in una pozza d’acqua e questo lo induce a vergognarsi profondamente, succesivamente le scarpe gli ritornano e in seguito passeggia intimidito per delle gallerie che sembrano infinite; si imbatte in uno strano museo dove a immagini oscene si alternano disegni e fotografie di uccelli variopinti, figure egizie, immagini di feti partoriti dalle ragazze della casa, finché incontra un essere mostruoso, specie di statua vivente del museo, con una sorta di appendice che gli avvolge tutto il corpo, una specie di coda lunghissima, forse di caucciù, che nasce dalla testa. Questi parla con il poeta della sua triste situazione e al risveglio Baudelaire sente di aver dormito in un contorcimento simile a quello del mostro, si identifica con esso. Viene in mente Gregor Samsa che si ritrova ,sempre dopo il sonno, trasformato in uno scarafaggio. Per Calasso è la condizione per delle riflessioni che servono a tratteggiare ancora una volta la figura del poeta intorno al tema dell’oscenità , e come questa sia inerente alla vita stessa e si profilasse in Baudelaire come una vera e propria vergogna d’esistere.

Giacché tutto, come Baudelaire scrive ne Il mio cuore messo a nudo, tutto è prostituzione, affermazione perentoria e provocatoria, e neanche la scrittura si salva perché a un certo punto il libro che deve regalare, gli pare osceno, quasi in una prefigurazione della sorte riservata a I fiori del male. Ma è bizzarro che in luogo dedito all’oscenità Baudelaire si senta imprigionato in una situazione umiliante e sia lui a recare l’indecenza nel bordello prima con l’esibizione del pene poi con la nudità dei piedi, e infine la tensione del sogno lo porta addirittura a identificarsi con un mostro.In esso Baudelaire rispecchia la sua noia e probabilmente la sua condizione di esiliato, esposto come il mostro alla curiosità e forse agli strali della folla. Calasso sembra suggerire che questa sia in realtà la sua vera condizione, forse addirittura desiderata, quella di umiliato, spossessato o se non altro come Baudelaire percepiva se stesso. Vengono in mente i versi de Lo spleen di Parigi, in cui il poeta perde l’aureola nel fango e dopo un po’ di riflessioni, decide di non raccoglierla. Ed è dunque di fango la condizione umana? Sembrano dire queste parole e questo sogno mi pare sia annidato nella stessa lacerazione. La salvezza però è affidata alle immagini e si percepisce come nel sogno Baudelaire si abbandoni ad esse, gironzolando per questo museo, recuperando la sua parte preferita, scrive Calasso, quella dello spettatore estetico che però, per sua stessa ammissione, non possiede una chiave interpretativa adatta. Così la narrazione del sogno si configura come letteratura pura, rendendo un disagio perfettamente umano, con uno stile sobrio e scarnificato.

Dopo aver scritto di Manet, Degas, Rimbaud e altri l’ultimo capitolo viene riservato ancora a Baudelaire. Ancora una volta viene raccontato uno degli smacchi principali subiti dal poeta: il mancato ingresso nella Accademia delle lettere, L’Acadèmie. Con un tono celatamente sprezzante Saint- Beuve, autorevole scrittore ed eminenza grigia della letteratura di allora, liquida la sua candidatura come una beffa. Ma perché in mezzo ad altri candidati, oggi completamente dimenticati ,il nome di Baudelaire suscitava quasi un’eco di scandalo? A parte le invidie del vecchio scrittore per il più giovane di talento, ci sono nello scritto di Saint- Beuve affermazioni che chiariscono quale fosse la posizione di Baudelaire in seno alla società delle lettere. Emanava da lui una strana aria esotica,da steppa asiatica, un pericoloso miscuglio di boheme, dandysmo e voluttà, tanto che Sant-Beuve ironizza sui costumi del poeta inventandosi il termine di Folie Baudelaire che dà il titolo al libro e che sarebbe un luogo di ozio e piacere equivoco e parla di lui come una zona di steppa ai limiti dell’Asia, come un’ intelligenza bizzarra, a cui non manca aggiunge per riabilitarlo ironicamente, la buona educazione, dato che in Baudelaire forse ci si aspettava una specie di selvaggio. Non essere preso sul serio come candidato deve essere stata per Baudelaire una delusione feroce e gli avrà confermato l’idea della sua impresentabilità in mezzo al consiglio degli eletti, e come testimoniano i famosi versi de L’albatro, la sua impossibilità a stare nel mondo con le sue ali da gigante, e di dover convivere unicamente con il proprio sguardo di lucidità,ferocemente intriso di melanconia e chiaroveggenza.

Calasso
così compie il suo avventuroso periplo intorno alla figura di Baudelaire, in una ridda di nomi altrettanto grandi, fra divagazioni intorno all’enigma della letteratura e dell’arte e si esce dal libro, che è un indubitabile atto d’amore, con la consapevolezza che pochi hanno saputo far parlare la vita, anche nella sua doratura più oscena e scabrosa, come il poeta francese de I fiori del male e de Lo spleen di Parigi. Ha voluto essere decadente, cioè” una singolarità che recide i legami con tutto il sociale, rifiutando di essergli funzionale.” E questo è stato forse il suo atto più osceno.

Madame Edwarda- Georges Bataille

mercoledì 21 gennaio 2009

Con la convulsa scrittura di Madame Edwarda, Georges Bataille entra di prepotenza in quell’area segreta dove la sessualità più brutale si trova stranamente connessa con il sublime, con Dio, con la morte. E’la narrazione questa di un controsenso delirante in grado di cortocircuitare la ragione stessa, ridotta a spettro impotente davanti all’irruzione di qualcosa di profondamente selvaggio, che fa saltare le categorie più elementari su cui si fonda la convivenza civile.
E’ il tema di un erotismo che si fonde con il porno, elevato però a concezione filosofica del sesso, capace di degradare l’essere umano, fino a sfigurarlo, in un piacere che è parossismo nichilistico di trasfigurazione autodistruttiva e al tempo stesso avvicinarlo a Dio, come fosse un’ esperienza mistica vissuta nella carne. Nella prefazione, scritta dallo stesso Bataille una frase condensa tutto questo:”Raggiungiamo il piacere solo nella prospettiva seppur remota della morte, di ciò che ci annienta.”laddove, per Bataille, il piacere ci differenzia dagli animali proprio per la sua misteriosa assonanza con il buio terrore della morte.
Nel racconto Madame Edwarda, donna dell’impossibile, baccante sfrenata, domino notturno, prostituta di un bordello, è per il protagonista un veicolo verso il segreto dell’esistenza, nel contempo una trappola e la via da seguire dell’ignoto; il suo sesso famelico e misterioso e’ il sesso stesso della Donna, enigmatico, disponibile o sfuggente, ammaliatore, divoratore, e molti aggettivi si potrebbero sprecare per tentare di definire l’indefinibile, che Bataille ha saputo così genialmente far vorticare in questo racconto. Qui la Parigi notturna sembra prefigurare, spingendola all’estremo, la New York del Doppio sogno kubrickiano, con la sua atmosfera sospesa tra desiderio e frustrazione, fra incubo ed estasi. Una notte che potrebbe essere magica se non fosse sordida, disperata ricerca di un piacere che sfugge .Il protagonista cerca la liberazione, denudandosi nella frescura notturna e afferrando il proprio sesso eretto, sguaiato e volgare, ricercando quella che Nietzsche chiamava sensazione suprema nel contatto con la massima angoscia , che e’ donna, è madame Edwarda, che è il vuoto baratro dell’impensabile da cui ci separa la convenzionale e comoda impostura d’una identità, che è Dio, ma non un Dio delle cattedrali, un Dio dei bassifondi, delle taverne, dei bordelli. Domina l’assenza in questo testo dalle complicazioni filosofiche così evidenti, il protagonista è scosso da sensazioni di annichilimento, si sente infelice”abbandonato come lo si è in presenza di Dio”, e questo apparente paradosso scivola nel testo con grazia. Su tutto, sul sesso, sul piacere, su Dio, sull’uomo soprattutto, aleggia lo spettro di una derisione assoluta “l’angoscia sovrana assoluta, la mia sovranità morta sulla strada”,come si legge nelle prime righe che precedono il testo vero e proprio, “la cui tristezza deride ogni cosa”. Il sesso aperto ed esibito di Madame Edwarda e’ metafora di quest’angoscia ”le labbra mi fissavano, pelose e rosee, come una piovra ripugnante.” Ma in tutto questo la salita delle scale del bordello verso la camera da letto gli pare soltanto “ un’allucinante solennità ” e così l’odore acre del corpo di Madame Edwarda e il suo osceno ancheggiare, ma ecco allora spuntare il tema della fragilità della carne nuda delle altre prostitute, esposta a ricordare soltanto ciò che potrebbe farne “il coltello da macellaio”, e poi la morte, presenza ossessiva, che sembra partecipare alla festa, a questa speciale e profana assunzione della prostituta al cielo dell’alcova. E dopo il sesso, la metamorfosi di Madame Edwarda in un domino seminudo che si aggira per le strade in compagnia del protagonista. Ed è nella solitudine delle vie notturne che Edwarda sembra essere epifania stessa della divinità nella sua spettrale indifferenza, in tutto simile a una oggetto la cui presenza “aveva la semplice inintelligibilità d’una pietra”. La prostituta del bordello si e’ dunque trasformata in un enigma, manifesta il vuoto, l’assenza, il lutto, come una preda si fa inseguire, ma è lei la cacciatrice lei in cui, non si può più dubitare, “regnava la morte”. L’enigma di questa metamorfosi sconvolge e affascina il protagonista, preso in una rete di fascinazioni difficilmente definibili. Edwarda viene colta poi da una crisi isterica.: si dimena, ride, si denuda, poi, sempre senza motivo, comincia a tempestare di pugni il protagonista e anche in questo caso la sua nuova nudità ricorda la morte”aveva l’assenza di senso, e nel contempo l’eccesso di senso di un abbigliamento mortuario.”Si ritrovano poi su un taxi, dove stavolta abbandonato il vestito di domino, nuovamente nuda Edwarda è l’animale per eccellenza, seduce il corpulento tassista e, accanto al protagonista pietrificato, si lascia penetrare da lui. Dopodiché i tre si addormentano .Le ultime pagine sono l’estrema riflessione del protagonista sul senso della vicenda appena occorsagli, l’incontro con una pazza che è anche un ignoto miracolo, che gli ha rivelato la sostanziale assurdità della vita. Come sperare in realtà di cavarne un senso ? ”Non riesco ricavare nessun significato che non sia il mio supplizio.” Il primo risvegliarsi e’ proprio lui. Sta male, non c’e’altro.”Il resto è ironia, lunga attesa della morte.”
Scritto nel settembre-ottobre 1941 e pubblicato sotto lo pseudonimo di Pierre Angelique, Madame Edwarda pur nella sua brevità è una precisa espressione della visione filosofica di Georges Bataille, ,che intese, usando le sue stesse parole, rappresentare stati di trance sessuale incoerenti, in un racconto dove alla sessualità fosse restituita una forma di solennità da incubo, che una risata acre, di ribrezzo e paura, cerca disperatamente di annientare. La demistificazione del reale, avviene a livello d’un surplus di grottesco e di ridicolo che non può suscitare altro che un prolungato sgomento; la sovranità su sé stessi e su ciò che ci circonda è completamente perduta , un po’ come avviene ne La nausea di Sartre, dove le cose perdono gradualmente di significato, in Madame Edwarda la centralità dell’esperienza sessuale così esibita finisce per fargli acquisire, per così dire, l’aria di un inutile scherzo atroce, giocato sul piano d’una sacralità demente,e quasi destituito di senso realmente umano, e così facendo il sesso diventa una specie di raccapricciante discesa negli inferi della carnalità più cruda, dove forse ci attende la sconcertante risata d’un dio. E’ qui dunque il sesso viene ridotto a cupo spettacolo estatico, che porta con sé una certa forma di angosciosa dannazione, svelando al tempo stesso misteriosa la santità oscena e animalesca rappresentata da una prostituta di bordello, nel tentativo batalliano di rimettere sulla scena del mondo tutti quegli stati di alterazione sessuale, sorta di invasamento dionisiaco, che il mondo stesso tende a rimuovere e che rappresentano forse il suo segreto più significativo. L’eresia del libro sta nel far coincidere la massima umiliazione, la perversione, il grottesco più ridicolo, con la ricerca stessa della divinità, che in Bataille è avvertita come l’estremo nulla, che giace sul fondo dell’esperienza di morte, di cui l’amplesso è forse solo una caricatura. Se la tracimazione eccessiva delle paura e del disgusto, lungi dal soffocarlo, potenziano il piacere, e ne sono l’unico vero alimento, ecco che l’angoscia si rivela essere sin dall’incipit “sporca” sì, ma anche “inebriante”. In questo caso l’estrema volgarità delle situazioni è vivisezionata come il limite stesso da infrangere per ottenere, nel buio profondo dell’esistenza, una parvenza di piacere, subito negata dal sopraggiungere di una morale che fa di questo un peccato o meglio ancora qualcosa di mostruoso , ma qui il tanto ricercato oltraggio al pudore diventa pantomima in grado di svelare la parentela tra l’osceno e il sublime, nel loro identico, enigmatico trascendere la ragione .Così in questo breve racconto le due figure antitetiche in apparenza di Eros e Thanatos si trovano ad essere stranamente complici, così come il massimo dolore ha qualcosa a che vedere con il massimo piacere. Sin dalle prime righe, che qui sotto riporto, il lettore viene catapultato in una situazione intollerabile, a sbrigarsela fra stati d’animo d’angoscia che anelano al loro estinguersi attraverso l’innestarsi di dinamiche sessuali. Ma se il sesso è davvero solo l’ulteriore angoscia che ci connette con la morte, la redenzione affidata a una prostituta si riduce nel non sense di tutta l’esistenza, nel suo enigmatico nulla.
L’’edizione italiana di Gremese editore accorpa a Madame Edwarda altri due racconti Il morto e Il piccolo dove a dominare è sempre una visione angosciante e catastrofica della sessualità.

Incipit di Madame Edwarda:

“All’angolo della strada l’angoscia, una angoscia sporca e inebriante, mi sfigurò (forse aver visto due ragazze furtive sulla scala di un gabinetto). In questi casi, ,mi vien voglia di vomitare. Dovrei spogliarmi nudo, o denudare le ragazze che desidero: il tepore di carni dolciastre mi darebbe sollievo. Ma ricorsi al mezzo più economico: al bancone ordinai un Pernod e lo ingollai; continuai di bancone in bancone, fino a… La notte era calata del tutto.”

"La verità di Madame Edwarda consiste nel confrontarci con uno scandalo palese che pure non sapremmo dove collocare. Potessimo incriminarne le parole: mai ve ne furono di così rigorose; o le circostanze, il fatto che Madame Edwarda è una puttana di postribolo, ma questo, anzi, potrebbe essere rassicurante; o ancora che certi particolari, che si devono dire osceni, lo sono con una necessità che li nobilita e li rende inevitabili, non tanto in nome dell'arte, ma per una esigenza forse morale, forse fondamentale. (...) Che il più incongruo dei libri, come lo definisce Georges Bataille nella sua prefazione, sia anche il libro più bello, e forse il più tenero, questo allora è soprattutto scandaloso" (da un testo di Maurice Blanchot )

La vita bassa- Alberto Arbasino

martedì 6 gennaio 2009


La vita bassa è un testo che rigurgita di enumerazioni caotiche in pieno stile Arbasino sempre tenute vive da un sottile filo di irrisione a volte tanto plateale da parere eccessiva. Questa dell’ironia è al solito la cifra stilistica dell’autore, che si lancia anche in ricordi rievocazioni del periodo del sessantotto, in una critica radicale ai linguaggi di allora. Ed è ’ancora una volta l’impietoso e divertito commento all’attuale stagione italiana, tutta’altro che florida, che nella moda della vita bassa sembra trovare quasi una metafora, un segno antropologico in cui finalmente riconoscersi, svilita nelle cicce crudelmente additate a significarne la crisi culturale in cui versa il paese.

Dunque Arbasino fa parlare, nella parte intitolata Memorial,  un nugolo di intellettuali a proposito del tema dello scrivere da Roland Barthes a Francois Whal,, Gunter Grass, Angus Wilson e altri, anche per tracciare attraverso gli intellettuali di allora uno spaccato sui moti degli anni sessanta, nel divertito rifiuto di ogni storiografia che non sappia di sberleffo al mito stesso della Storia, come in Super Eliogabalo di cui Arbasino, en passant, scrive una interessante rievocazione.

Musicalmente ineccepibile nella lingua e a volte tendente al non sense, soprattutto nell’elencare termini inglesi , in un modo sovente spiazzante, il libro conserva le riflessioni complesse di un intellettuale che davanti “al nuovo che avanza da quarant’anni” conosce come arma per difendersi da esso soltanto la propria corrosiva ironia, retta da uno stile di scrittura che non si vergogna di rimpinzarsi di tutti i termini della contemporaneità di ieri e di oggi , per mostrarne forse la decrepitezza alla moda. Il limite del libro mi pare sia proprio in questa complessità stilistica che nei momenti meno felici appare un po’ stucchevole, quasi si trattasse di un esibizionismo fine a se stesso, privo di una reale sostanza conoscitiva. Va bene la derisione ma l’analisi obiettiva della situazione italiana appare nascosta, abilmente è vero, da giochi verbali che alla lunga svuotano un po’ il testo, soprattutto nella parte finale. Comunque,  quando il gioco di Arbasino riesce può essere spassoso e illuminante.

L ’aspetto assolutamente ludico della prosa di Arbasino è secondo me, anche negli scritti de La vita bassa, il suo lascito più importante, la sua grande forza di rigenerazione di un linguaggio che ormai o forse da sempre rischia di sprofondare nelle paludi del luogo comune. Consigliabile a chi abbia voglia di immergersi in una prosa musicale a tratti davvero impeccabile, nei suoi crescendo e nei suoi arresti. Numerose perle navigano in un fiume che si è voluto inarrestabile di riflessioni, ricordi, citazioni, in cui spesso, è vero, ci si smarrisce, ma è un bel smarrirsi.