È morto Mark Strand

domenica 30 novembre 2014





Mark Strand è morto ieri 29 novembre 2014. Penso che sia scomparso uno dei poeti più significativi della nostra epoca amara. Cantore del vuoto, dell’assenza, interprete ironico e raffinato del nichilismo contemporaneo, egli ha rappresentato molto anche per me. In questo blog potete trovare diversi articoli a lui dedicati e una sua poesia nell’etichetta Mark Strand. Se ne va un grande poeta, il mondo probabilmente non se ne accorgerà nemmeno ma da ieri è più povero.

Il mondo come meditazione - Wallace Stevens

giovedì 27 novembre 2014





Penso che la difficoltà della poesia, o perlomeno una delle sue difficoltà, consista nel fatto che nessuno può dire interamente il proprio pensiero. Il poeta lo sa e  colmo di questa consapevolezza  abbandona l’illusione di poter spiegare o dire, didascalicamente, tutto e lascia così un grande spazio all’immaginazione del lettore. La poesia è proprio quell’attività che richiede un forte contributo da parte dei suoi fruitori, che ne diventano in parte autori essi stessi; questa è forse una delle ragioni del suo scarso successo: troppo sforzo creativo richiesto.

Wallace Stevens mi è sempre parso uno dei poeti per cui questo è più vero, le sue poesie, pur intagliate nel legno dei boschi del Connecticut, lasciano sempre intorno  come un alone di incompiutezza, come se non tutto fosse detto, perché non tutto è possibile dire, il lettore deve provare con la sua fantasia a finire l’opera.

Questo Il mondo come meditazione, tradotto da Massimo Bacigalupo ed  edito da Guanda  nel 2010  in un’edizione riveduta dopo la prima edizione del 1986,  raccoglie le poesie scritte da Stevens nell’arco di tempo che va dall’ottobre 1949 al 2 agosto del 1955, giorno della sua morte. È un libro  che  presenta, nella prima parte intitolata “The rock”, poesie che il poeta pubblicò ancora vivente  nel suo Collected poems e nella seconda  parte l’opera postuma.  A dispetto della linearità della lingua è un libro complicato per le numerose riflessioni filosofiche che lo compongono e gli conferiscono quasi l’aspetto di trattato filosofico in versi. Colpisce in un uomo granitico, un avvocato tutto d’un pezzo, la propensione a percorrere la via orientale del pensiero zen. È un’affinità non culturale, non voluta, istintiva,  profonda. Si capisce per esempio dalla poesia Solitario sotto le querce, specie dai versi finali dove  leggiamo:

“Si sa infine cosa pensare
E  lo si pensa senza coscienza,
Sotto le querce, completamente affrancati.”,

dove con “affrancati” Massimo Bacigalupo traduce l’originale ”released”.

La liberazione è dunque nell’essere senza coscienza, svagati, con la mente leggera come vuole la tradizione filosofica indiana, poiché anche la realtà è immaginazione o più propriamente,  come recita il titolo di una poesia, “La realtà è un’attività dell’immaginazione più augusta”. Questo è un tema caro a Stevens, la realtà come summa della fantasia, poiché tutto per esistere, deve essere evocato, ripensato, rimodellato dalla fantasia come leggiamo, per esempio, nella poesia “Il senso ordinario delle cose”  dove tutto deve passare al vaglio del pensiero creativo e anche “l’assenza dell’immaginazione doveva/ essa stessa essere immaginata. “

La quiete metafisica è sintetizzata in versi come questi: “ Vi era una calma di mente come esser soli sul mare in barca.” in una poesia in cui questa barca allegoricamente viaggia verso una sillaba, sua destinazione, che la frantumerà, distruggendo così l’ordine impartito dai rematori. Qualcuno ha pensato che questa sillaba sia God - Dio. Poesia questa comunque misteriosa come molte di questa raccolta, pur cristallina nella forma, un inglese  ricco di allitterazioni e molto classico, dove Stevens porta a compimento la sua idea poetica fondata sull’impersonalità.

Nella poesia di Guardando attraverso i campi e osservando il volo degli uccelli abbiamo prospettive chiare sul pensiero di Stevens, che si ritrae nel personaggio di Mister Homburg, che sogna il mondo come “un operandum,/ meccanico e vagamente detestabile […]” e oltretutto “libero/ dal fantasma dell’uomo”, specchio di una “natura pensosa” che diviene spirito, ”la maniera di uno spirito”, si umanizza nella soggettività che la pensa, e in realtà la ricrea parte della sua fantasia, come si vede spesso in Stevens.

Ulisse e Penelope  sono due personaggi fondamentali, il primo ritorna in diverse poesie, la seconda è la protagonista della poesia eponima Il mondo come meditazione. L’attesa di Ulisse è anche l’attesa del sole, del risveglio primaverile, infatti dalla loro parte i due hanno “l’incoraggiamento di un pianeta”.

Ancora una volta sembra un tema orientale lo Yin, la terra, Penelope e lo Yang, il sole, Ulisse, “due in un profondo proteggersi, “ two in a deep- founded sheltering” nell’originale.

Quella di Stevens è una poesia razionale che denuncia i limiti della razionalità in cui il ”bene supremo” è sempre rappresentato dall’immaginazione, in cui la stessa realtà divina, personificata da Dio, coincide con la fantasia. Nella poesia Il pianeta sul tavolo, balugina, forse, anche  uno scopo per le poesie, un povero scopo, come spesso in Stevens, mostrare “Qualche abbondanza, anche se appena percepibile,/  Nella povertà delle loro parole, / Del pianeta di cui erano parte”.

In una delle poesie più importanti,  La vela di Ulisse,  in versi stupendi Stevens sintetizza con chiarezza il suo pensiero: essere e conoscere coincidono,  ma lasciamo la parola al poeta o meglio a Ulisse stesso che in un monologo ce ne riporta il pensiero:

“Se conoscere e conosciuto sono tutt’uno
Così che conoscere un uomo è essere
Quell’ uomo, conoscere un luogo è essere
Quel luogo, e sembra questo il senso di fondo;
E se conoscere un uomo è conoscere tutti
E se il nostro senso di un luogo singolo
È quel che sappiamo dell’universo,
Allora conoscere è la sola vita,
Il solo sole del solo giorno,
Il solo accesso al vero agio,
Il profondo conforto di vita e fato.”






Yahya Hassan - la poesia come grido e rivolta

mercoledì 19 novembre 2014





A coloro che ancora credono che la poesia sia una questione di fiorellini, cuoricini, sentimentalismi sdolcinati, inesprimibili deliqui, o al massimo occasione per autoreferenziali e sterili elucubrazioni intellettuali, farei subito leggere questo libro, che laconicamente s’intitola come il nome e cognome dell’autore Yahya Hassan. Edizione Rizzoli, traduzione di Bruno Berni, copertina nera come nell’originale danese, e dietro la copertina l’inferno. Un prolungato grido (le poesie sono tutte  scritte in caratteri maiuscoli e senza punteggiatura) per denunciare inizialmente i soprusi, le sopraffazioni, le violenze, compiute nel nome di Dio prevalentemente dal padre dell’autore, e in seguito l’ingresso del poeta nel mondo della criminalità con piccoli furti e rapine, spaccio di droga, la sua segregazione in riformatori e in comunità di recupero.

Yahya Hassan era diciottenne all’uscita del libro, che in Danimarca nel 2013 è stato un clamoroso caso letterario, il libro di poesie più venduto nella storia del paese, raggiungendo le centomila copie in pochi mesi. Yahya Hassan, infatti, è nato e vive in Danimarca,  scrive in danese ma è di origine palestinese,  perciò in famiglia parla l’arabo, è un giovane arrabbiato,  che ha trovato nella poesia il veicolo per trascendere la propria  rabbia e trasformarla in un libro,  che è  come “un pugno nello stomaco del lettore”, come dice giustamente la seconda di copertina, fondendo il poeta nel suo linguaggio il gergo della strada, la cultura del rap, con la ricercata rozzezza della poesia beat.  

Qualcuno ha evocato il nome di Whitman, io non ho trovato molte corrispondenze con il vate per eccellenza della poesia americana. Più azzeccato mi pare il paragone con Ginsberg e il suo “Urlo”, o con poeti come Artaud, Leopoldo Maria Panero, con certe poesie autobiografiche di Sharon Olds, in cui si attacca la figura paterna, o persino con le poesie giovanili di Klaus Kinski, soprattutto nello stile gridato ai confini della psicosi.   Oppure possiamo trovare qualche parallelismo con i grandi adolescenti maledetti dell’Ottocento francese, Lautréamont e Rimbaud, specie per la crudeltà con cui raccontano se stessi, il mito di se stessi, e la realtà che li circonda, anche se stilisticamente Hassan non è alla loro altezza, possiede la stessa sfrontatezza adolescente, un similare senso di esclusione dalla normalità borghese. Soprattutto, però, è l’originalità della vicenda biografica di Hassan a emergere con la prepotenza di cui è stato vittima da bambino che diventa nell’adolescenza alimento di uno stile di vita delinquenziale, da vero ragazzo di strada, da autentico bad boy.

Yahya Hassan è un poeta apolide, un poeta teppista, doppiamente emarginato, in quanto palestinese e in quanto ateo che rinnega la religione di suo padre,  ed è attualmente sotto scorta perché  il suo J’accuse verso il padre è stato interpretato (non a torto in verità) come un atto di accusa verso l’Islam in toto. Un fondamentalista lo ha aggredito in una stazione ferroviaria, contro di lui è stata lanciata l’inevitabile fatwa: l’Islam  radicale non può accettare versi come questi:

“TE VUOI LA PREGHIERA DEL VENERDI’ FINO AL PROSSIMO VENERDI’
TE VUOI IL RAMADAN FINO AL PROSSIMO RAMADAN
E TRA LE PREGHIERE DEL VENERDI’ E I RAMADAN
TE GIRI CON IL COLTELLO IN TASCA”

Ancora più esplicito il titolo di una poesia, ALLAH È IGNORANZA. Fino ad arrivare alla blasfemia e alla bestemmia, riecheggiando Artaud.


Siamo dunque a una versione contemporanea del più classico poeta maledetto, anche se io considero pleonastica questa espressione, essendo il poeta maledetto per definizione, tanto più in una società borghese, tanto più se apolide, tanto più se ateo, tanto più se poco più che adolescente, tanto più se palestinese di origine, tanto più se ha abbandonato la scuola a 13 anni e da allora entra ed esce da comunità di recupero e  riformatori.

Tutto ciò lo rende minoritario in seno alla Cultura Ufficiale, perciò forse interessante per un pubblico affamato di devianza, come quello della letteratura. Minoritario, però, nell’accezione di Deleuze, è il vero talento letterario, il precursore, il rinnovatore di forme consolidate e logore. Intendiamoci, Hassan non è un genio come i già citati Rimbaud e Lautréamont o come Artaud ma le sue poesie hanno dalla loro la vitalità della giovinezza, la cattiveria giusta, l’immediatezza.

La scrittura di Hassan è viscerale, grezza e brutale nella sua denuncia della brutalità, già m’immagino il classico intellettuale accademico storcere il naso davanti a questi versi, in cui tutto è detto crudamente e crudelmente, senza i veli e i voli retorici che ammansiscono solitamente le grida del reale.

Tutto è sbattuto in faccia al lettore, gridato con violenza, senza maschere, senza veli, senza trucchi, senza la consolante retorica della letteratura più tradizionale. Dalla parte di Hassan il fuoco della giovinezza, contro di lui la cultura patriarcale e ottusa, ma anche il multiculturalismo di una società ipocrita che ti condanna nella realtà della carne ma a parole ti vuole redimere: integrare secondo la sua dispotica retorica.

Hassan così ci racconta della sua stagione all’Inferno, della sua emarginazione, delle botte ricevute, dei furti commessi per affermare paradossalmente se stesso, del riformatorio, della comunità di recupero, e la sua è una autobiografia in versi che colpisce per l’autenticità con cui tutto è narrato, espressione senza pace di un dolore e di una rabbia enormi, che trovano una forma abbastanza convincente nella sua spietata crudezza, pur nell’immaturità stilistica, pressoché  inevitabile data la giovane età dell’autore.

La rabbia di Hassan è verso un padre dispotico che impone a lui con la violenza un sistema di valori non in linea con la contemporanea società danese, società che lo esclude e lo incatena, come si legge nella terribile poesia Dittatura educativa, con le sue cupe atmosfere che ricordano alcune scene di Arancia meccanica.

“TELECAMERE AL CANCELLO
GLI EDUCATORI MI CONFISCANO I VESTITI
E MI DANNO UN COMPLETO NERO
LE PRIME DUE SETTIMANE RESTO ISOLATO NELLA MIA CELLA
LO CHIAMANO ADATTAMENTO”

Questo libro racconta dunque una discesa agli inferi e un riscatto. Da delinquente Hassan si ritrova a essere poeta e per di più protagonista di un successo straordinario. Poeta maledetto si diceva, ma, soprattutto, poeta che maledice. Questo libro è perciò  un interessante  debutto, interessante per la violenza retorica che in esso si spreca, interessante perché sgorga come un’emorragia di sangue dalla ferita dell’immigrazione.

Ci si chiede però cosa succederà a questo poeta teppista una volta completato il processo di assimilazione. Che cosa scriverà una volta esaurita la rabbia? Poiché in questo libro il motore propulsivo è il disadattamento dell’autore, che cosa ne sarà di lui dopo che la società danese lo avrà  neutralizzato completamente? Una volta integrato nella società delle lettere, in che cosa si trasformerà? Nel pinguino ammaestrato di qualche talk show televisivo? O in un ribelle con la mutua, come nella felice definizione di Ennio Flaiano?

Pagina internet

lunedì 10 novembre 2014




È online una pagina internet a me dedicata (una nota biografica più tre poesie) sul sito della casa editrice Pagine. La trovate al link http://autori.poetipoesia.com/ettore-fobo/. Buona lettura.

Paesaggio con serpente – Franco Fortini

giovedì 6 novembre 2014






La voce di Franco Fortini ha l’inconfondibile timbro di una poesia sofferta, pensata, lavorata da un silenzio interiore che sfuma in canto sommesso, come fra sé e sé; poesia che è anche  frammento di un colloquio segreto fra il poeta e i suoi interlocutori immaginari, le sue maschere, i suoi fantasmi, i suoi eroi (Shakespeare, Poussin, Tasso, Che Guevara, Brecht…) i suoi amici (Mengaldo cui il libro è dedicato, Sereni, Zanzotto…).

Così questo Paesaggio con serpente, edito da Einaudi nel 1984, a distanza di vent’anni dalla morte del suo autore, conferma l’inossidabile modernità della grande poesia, posta sempre avanti rispetto a qualsiasi attualità di oggi e di ieri, sostanza bruciante di una Storia che sembra sempre più un’accozzaglia di brutalità sconnesse.

Fortini parla da una zona d’ombra, posta fra il proprio personale male di vivere e la speranza perennemente delusa  di una palingenesi più storica che individuale, perché il  poeta come individuo sente di aver già perso la propria battaglia con il dolore.

L’epoca è comunque infida, poiché in essa, come recita un verso che è anche il titolo della prima sezione, noi non vediamo ”il vero che è passato”.  Viviamo dunque in un’epoca menzognera, insidiosa di trabocchetti, in cui la speranza di ricavare un senso si fa via via più flebile. 

Ciò che più conta, però, è che il poeta è riuscito a elaborare, a inventare, una lingua nuova per dire che probabilmente non c’è mai nulla di nuovo nella Storia umana e tutto, ottusamente, si ripete. Così Fortini dà voce a personaggi del passato come Torquato Tasso, descrive scene di vita quotidiana che hanno come protagonista Cartesio, rielabora versi di Shakespeare e di Gongora, fa rifluire il passato nel presente alla ricerca della formula che sintetizzi il caos invincibile della Storia

Crea perciò una lingua nuova in cui gli echi dell’antichità si moltiplicano e si connettono con l’attualità di allora, creando il poeta un tempo alternativo, sintetizzando come in un alambicco una sostanza temporale altra, creando un luogo in cui la Storia è osservata dalla prospettiva della poesia e giudicata un vano affannarsi spesso privo di scopo, dimensione  in cui trionfano caos e disordine.

Quella di Fortini è una poesia spesso colloquiale, che si proietta aldilà della lirica comunemente intesa, colloquio però stregato da dentro, alterato da una forza d’inconoscibile, da un languore d’ignoto, e in cui non manca una forza epigrammatica, quasi oracolare, densa però di scetticismo verso ogni forma di magia stregonesca, di artificio, d’illusionismo retorico.

La sua pare una lingua densa di pause interne che talvolta imita la labilità del frammento ma raggiunge una propria solidità pietrificata, lingua che sembra nascere per moto proprio e al tempo stesso si avverte profondamente scolpita dall’artefice umano.

Straordinaria la poesia Editto contro i cantastorie, dove Fortini si esprime narrativamente, dopo aver descritto una situazione di guerra, che si perde nei millenni, scrive:

“Nel circondario di Liling non è più consentito
di girare per le case per esaltare la primavera e gli spiriti
e di cantare canzoni con accompagnamento di nacchere
chiedendo l’elemosina. La lega contadina
ha arrestato tre mendicanti. Li ha obbligati
a trasportare argilla e a cuocere mattoni.

Ma è bello esaltare la primavera, cantare i poveri morti.
Che male fanno i cantastorie alla comunità?

 I cantastorie sono i poeti di oggi e sempre, il cui canto è ritenuto pericoloso, portatore di disordine in seno alla società,  come vuole anche  la filosofia dell’ultimo Platone.

Paesaggio con serpente è dunque un libro in cui la quotidianità racconta, o prova a raccontare,  la Storia,  e la Storia è caos informe che nessuna legge umana può domare o dominare. Il male di vivere, la disperazione, il disordine, trionfano.

Rimangono, fragili segni di speranza, questi versi che concludono la poesia Un’altra giornata:

Il mancato piacere definitivo
si mutasse in  acquisita intelligenza.
E l’acquisita intelligenza si mutasse
in lode alla creazione.”