Lettere luterane - Pier Paolo Pasolini

sabato 28 novembre 2015







Sarò forse banale ma più di una volta mi è capitato di pensare che ci sarebbe bisogno oggi in Italia di un intellettuale come Pier Paolo Pasolini. Non tanto,  o non solo,  per la sua intelligenza o la sua chiaroveggenza ma soprattutto per il suo spietato anticonformismo. Ritengo, infatti, che oggi l’anticonformismo sia ancora più raro che in passato, ed essere in controtendenza rispetto ai diktat sociali è un fenomeno sempre meno praticato dall’intellighenzia del nostro paese. Il conformismo è davvero lo spirito santo della nostra epoca. Si è quasi realizzato ciò che temeva Nietzsche “Chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio”.

 Leggo così questo Lettere luterane, raccolta di articoli apparsi originariamente sul Corriere della Sera e sul settimanale Il Mondo, pubblicata postuma nel 1976 e riproposta recentemente  proprio in allegato al Corriere della Sera, la leggo con un misto curioso di nostalgia e di rabbia; nostalgia per un percorso intellettuale, quello di Pasolini, oggi divenuto impossibile, rabbia nel notare che la situazione denunciata dall’intellettuale non solo non è cambiata negli ultimi quarant’anni ma si è inasprita.

Ho usato un termine oggi caduto in totale discredito, quello d’intellettuale, perché anche Pasolini lo usa spesso, lo utilizzo dunque, consapevole del fatto che questa figura oggi è considerata uno zero assoluto. Tanto devastante è stato, infatti, l’impatto della società dei consumi anche sulle nostre abitudini linguistiche, che si traducono sempre, nota Pasolini, in comportamenti, tanto ha fatto l’infame borghesia per declassare la cultura, quando va bene, a mera performance scolastica a uso dei padroni della società. Tanti personaggi vili si sono impossessati della parola “cultura” che oggi è quasi divenuta impronunciabile, carica com’è di tutta la disgustosa retorica della classe dominante.

Oggi l’intellettuale non è il critico acuto e spietato della società borghese ma troppo spesso colui che fornisce ad essa gli alibi culturali che le servono per opprimerci meglio. Se si rifiuta di fare il pagliaccio in qualche talk show, è pressoché ridotto all’invisibilità e al silenzio.

Tanto più scandalosa appare così oggi la parola di Pasolini, che si è deformata tanto da assomigliare a un grido nel deserto, grido nel deserto  che, non a caso, conclude uno dei suoi romanzi,  divenuto anche film, “Teorema”, grido che,  come nelle parola della poesia che chiude il romanzo,  ”è destinato a durare/oltre ogni possibile fine”. E oltre ogni possibile fine il grido disperato di Pasolini continua a riecheggiare. L’Italia, da ottuso paese clerico - fascista, si è trasformata proprio in un deserto, abitato da automi abbruttiti e da consumatori alienati, sotto la spinta di quell’edonismo  consumistico che Pasolini definisce ”la rovina delle rovine”. Il mondo agricolo, contadino, millenario, religioso, si è dileguato in pochi decenni per essere sostituito da qualcosa di peggiore, il mondo che abitiamo, dove il trionfo della borghesia ha annientato ogni differenza e compiuto un enorme genocidio culturale;  per cui oggi una figura come quella di Pasolini è divenuta, non solo impossibile, ma addirittura impensabile. Il consumismo, definito “penitenziario del consumismo”, con le sue allettanti sirene di falso progresso, è per Pasolini il “nuovo fascismo”,  più potente di quello originario perché in grado di modificare nella sostanza  e per sempre la società.  

Così Lettere luterane, pur non raggiungendo la perfezione diamantina degli Scritti corsari (a tratti è un po’ involuto), appare un testo profetico, pur essendo gioco forza anche datato. Non che Pasolini avesse sempre ragione, infatti, alcune sue considerazioni paiono davvero in odore di conservatorismo retrivo (come quando definisce negativamente e puerilmente la generazione dei neonati scampati alla morte grazie alle cure mediche come la generazione dei “destinati a morire”, esprimendo un darwinismo raccapricciante, che si giustifica solo pensando alla disperazione di chi vedeva dissolversi un mondo che per lui era il mondo); ma la sostanza delle sue parole continua a colpire le zone anestetizzate della nostra indifferenza. È vero, infatti, che il nostro linguaggio corporeo e verbale si è impoverito sull’onda di una corruzione imposta dai media, il mezzo televisivo su tutti (la televisione è definita ”delinquenziale”, ) e che un’orribile koinè si è impossessata del discorso pubblico. È vero che l’uomo medio, il borghese medio, è un essere orribile, qualunquista, amico degli oppressori, intimamente fascista, e questo tipo d’uomo viene allevato dalle scuole e dai media, nutrito da luoghi comuni, da slogan, da tautologie aggressive e che la morale,  divenuta permissiva,  non è perciò meno liberticida e soffocante, anzi. 

Quello che oggi chiamiamo pensiero unico Pasolini lo aveva già  visto affermarsi e lo annuncia come una apocalisse di portata storica;  egli vede la barbarie tecnocratica avvilire corpi e menti degli italiani, parla di “mutazione antropologica”, di ”tecnofascismo”, registra con orrore ogni variazione di comportamento, di atteggiamento, analizzando da precursore la lingua dei segni. Alcuni articoli hanno un valore puramente storico, non sono più attuali, specie quelli contro la Democrazia Cristiana, in altri appare una sopravvalutazione della gioventù comunista del tempo che francamente è un po’ ingenua,  altri ancora  risentono di una certa ossessività che pure è prova della onestà dell’intellettuale.

Quarant’anni fa Pasolini rimase inascoltato, il suo isolamento fu tremendo. Oggi hanno trovato un altro modo per neutralizzarlo, l’hanno santificato. È il consueto processo di normalizzazione cui va incontro anche il più radicale degli iconoclasti.  Ma l’opera di Pasolini rimane testimonianza di un’eresia e di un coraggio irriducibili agli schemi pseudoculturali di una società la cui deriva è ormai sotto gli occhi, ipnotizzati, di tutti.

“L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue,« contaminazioni» tra Molière e Il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti, in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel  divertirsi a tutti i costi,  che parevano in uno stato di «raptus»: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti.“

Potenza di Pasolini e miseria di Facebook

sabato 7 novembre 2015





Intervengo brevemente nella recente polemica sorta intorno alle velenose dichiarazioni di Gabriele Muccino sul cinema di Pier Paolo Pasolini, non tanto per dichiarare il mio disaccordo con Muccino che definisce molto negativamente l’opera cinematografica del poeta, quanto per sottolineare che l’intervento mi pare motivato, più ancora che da odio politico o da insofferenza estetica,  dalla volontà di mettersi al centro dell’attenzione mediatica. C’è riuscito, come dimostra anche questa mia nota. Un suo film, infatti, è attualmente nelle sale. Il clamore che le sue affermazioni hanno suscitato gioverà sicuramente agli incassi. Buon per lui.

Non difenderò dunque i film di Pasolini a spada tratta (il quarantennale della morte è stato per me occasione per rivedere in prima serata Mamma Roma e in seconda Il Decameron), mi limiterò a notare che mi ero completamente dimenticato dell’esistenza di Muccino. In futuro penso che mi ricorderò di lui unicamente per questo suo misero e arrogante J’accuse. Potenza di Pasolini!

Certo, nessuno può considerarsi immune dalle critiche, però queste di Muccino mi sono parse esagerate, sbrigative, inconsistenti e pretestuose. Si può dire che Pasolini non fosse un purista dell’immagine  cinematografica, si può dire che nel suo cinema il contenuto sia a volte più importante della forma ma ritenerlo sgrammaticato filmicamente, o addirittura amatoriale, è francamente eccessivo, se non addirittura frutto di un puerile delirio di egocentrismo. Pasolini non aveva forse la precisione crudele di Kubrick o Rossellini ma la freddezza icastica del grande cinema sicuramente. Dietro le  immagini dei  suoi film c’è un sostrato pittorico e visionario potentissimo che non va trascurato.  Poi, cosa rara per un regista, aveva una visione del mondo, non ha raccontato soltanto la visione che il mondo ha di se stesso (per inciso, come mi sembra faccia Muccino, da quel poco che ho visto di lui ma in questo caso davvero dico Muccino per non dire “tutti”.)

Ho letto anche che Muccino per le sue dichiarazioni improvvide è stato sepolto sotto una valanga d’insulti. Nonostante non sia d’accordo con lui, ho una sola parola per descrivere quest’usanza molto comune su Internet: barbarie.

Infine una considerazione: Facebook è davvero il luogo ideale per sparate di questo genere e per suscitare simili reazioni belluine.  In questo caso aveva  ragione McLuhan, ”Il mezzo è il messaggio”. Mezzo scadente, messaggio scadente.