sabato 3 agosto 2013
E non c’è ritorno possibile per questi vagabondi, che non possono, per uno strano e duro destino, ricongiungersi con la donna amata, né con la patria, né con la stessa terraferma, che per loro è soltanto una prigione.
avamposto mitorealista di lotta poetica
Pubblicato da Ettore Fobo alle 09:09 2 commenti
Etichette: Jean Claude Izzo, narrativa
La lingua di Jean - Claude Izzo è fatta di frasi semplici, brevi, è una lingua pop, in cui citazioni musicali di molto cantautorato francese si accompagnano con i versi memorabili di Saint John Perse, per esempio, si confonde l’odore dell’asfalto con quello del mare, lo scrittore francese trova folgorazioni mescolate a una desolazione senza fine. Il suo compito, come mostra l’epigrafe, è di far risplendere al sole la ferita che consiste in fondo con la vita stessa, che, nel caso dei clochard protagonisti di questo romanzo, Il sole dei morenti, è un sfacelo rovinoso, un discesa nell’inferno dell’emarginazione. Mondo picaresco che riecheggia le atmosfere di Genet, mondo senza luce, quello in cui Izzo precipita la sua umanità, mondo in cui proprio come nei libri di Genet, ogni slancio di tenerezza viene spezzato da una realtà senza pietà. Il protagonista Rico, il suo amico Titì, che se lo porta via un tremendo inverno interiore, il feroce Dedè, lo scanzonato e smemorato Felix Il narratore- ragazzino Abdou, sono i personaggi che la città ha espulso come scarti di produzione, e passano la loro esistenza marginale sfondandosi con l’alcol, vivendo di espedienti se non di crimini, vegetando ai margini stessi della vita come noi la immaginiamo. Quello di Izzo è uno stile immediato, probabilmente d’ispirazione hard boiled, nelle sue parole cala il sipario del nulla sull’esistenza di questi relitti sospinti comunque verso il mare, il magico e redentore mare di Marsiglia.
La narrazione opera per flashback, il protagonista Rico a partire dalla morte di Titì, compagno di sventura, comincia a rievocare la sua vita, in maniera inizialmente caotica, sentendo quest’unico impulso: recuperare la freschezza di un suo amore giovanile, Lea, vissuto nell’atmosfera sublime di Marsiglia. Scopriamo così i motivi che l’hanno condotto sulla strada: la fine del matrimonio con Sophie, la conseguente perdita dell’affetto del figlio Julien, e qualcosa d’insondabile che vaga nel romanzo e che Izzo stenta a nominare, un male di vivere, una vocazione alla sconfitta forse, o solo una fatalità incomprensibile.
La prosa di Izzo è secca nella forma quanto densa di emotività nei contenuti, sospira in questo Rico come un sentimentalismo un po’ di maniera, direi bavoso, quest’uomo spezzato non è un eroe, ma veramente un poveraccio a cui per giunta non ne va bene una. Non c’è per lui l’amore redentore di una prostituta, che gli viene strappata dai suoi magnaccia albanesi, che oltretutto lo massacrano di botte, né la gioia di poter rivedere Lea, tanto sognato amore giovanile. Romanzo senza speranza Il sole dei morenti è anche un interessante intreccio sentimentale, l’amicizia fra questi sbandati ha una sua purezza pasoliniana, a tratti, ma nella figura di Dedè, incallito criminale, anche l’amicizia si rivela un terreno minato. Rico è l’esempio dell’uomo prostrato, spezzato, rassegnato che ha gustato la vita, e l’ha trovata amara. Qui siamo dentro la fine di ogni valore, dentro la fine della dignità, anche, nell’impotente vergogna di chi per vivere tende la mano al prossimo, per un soldo bucato, o lo aggredisce per strapparglielo.
Rispetto a Genet, suo mentore, la lingua di Izzo può apparire povera, ma le conclusioni sono affini. Non c’è più nessun grido di rivolta, questa è l’esistenza degli schiacciati, il cui compito è assiderare sotto un sole morente come loro. Non c’è che un cuore spezzato che sogna un mare la cui vista lo uccide di nostalgia e di rimpianto. Il sole dei morenti è l’ultimo romanzo di Izzo e si configura come un doloroso, a tratti straziante, commiato, che risente però di una scrittura troppo leggibile, troppo fruibile, troppo scarnificata. E’ questo un limite, o il prezzo che si paga per essere letti? Buon romanzo dall’effetto omeopatico, ben confezionato, a tratti con la giusta spietatezza aforistica ma cui manca qualcosa, secondo me, per appartenere pienamente alla grande letteratura. L’affresco di Izzo ha una sua coerenza ma la sensazione è che il racconto sia piegato alla logica di un pessimismo troppo patetico, senza un reale sfondo tragico.
In fondo superato il deliquio di Genet, il deliquio di Izzo davanti a questi personaggi non è il virile sguardo tragico che tutto assolve e dimentica, qui la ferita più che splendere puzza di troppo facile nichilismo.
Qui in questo romanzo c’è troppa voglia di piangere, ora trattenuta, ora platealmente gridata, un prostrarsi, un cadere a terra. E allora? Vince la smorfia cinica di Dedè, il suo ghigno di ferocia. Vince il tallone di Fatos l’albanese, mentre schiaccia la faccia di Rico e con essa il sogno dostoevskiano di un amore fra il clochard e la prostituta. E’ un libro dedicato ai perdenti, con una sua bellezza triste, vi soffia dentro un vento di desolazione. Izzo fa il suo lavoro per soddisfare la platea, si esibisce nel culto della disperazione; troppo realista, troppo veritiero, Izzo però non suscita la pietà verso i perdenti, anzi, amplifica il disprezzo verso di loro, costruisce un buon romanzo certo, però afflitto da una retorica sentimentale, da una pompa magna della disperazione un po’ troppo enfatica nei contenuti, e poco scintillante e lussuosa nella forma che almeno l’avrebbe giustificata. In questo romanzo Izzo non è mai abbastanza glaciale, céliniano, scivola troppo facilmente nel sentimentalismo, e a volte sembra perfino auspicarsi che sul viso del suo lettore spunti la fatidica, e fatalmente troppo facile, lacrimuccia.
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:31 6 commenti
Etichette: Jean Claude Izzo, narrativa
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