Un incipit di Pierre Michon

sabato 29 ottobre 2016





“Si dice che Vitalie Rimbaud, nata Cuif, ragazza di campagna e donna malvagia, sofferente e malvagia, dette alla luce Arthur Rimbaud. Non si sa se prima maledì e soffrì più tardi, o se maledì la sua sofferenza e in quella maledizione persisté; oppure se anatema e sofferenza uniti come le dita della mano si accavallavano nella sua mente, si scambiavano, s’importunavano, e di modo che fra le dita nere, irritate dal loro contatto, lei stritolava la sua vita, suo figlio, i suoi vivi e i suoi morti. Ma si sa che il marito di quella donna e padre di quel figlio diventò da vivo un fantasma, nel purgatorio di guarnigioni lontane dove non fu altro che un nome, quando il figlio aveva sei anni. Si discute se quel padre futile, che era capitano, annotava inutilmente grammatiche e leggeva l’arabo, abbandonò a buon diritto quella creatura d’ombra che voleva trascinarlo nella sua ombra, oppure se fu lei a diventare così per via dell’ombra in cui quella partenza la gettò; non si sa niente.”
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Incipit di “Rimbaud il figlio”  – Pierre Michon - traduzione Maurizio Ferrara – Mavida, 2005

Serie fossile – Maria Grazia Calandrone

giovedì 20 ottobre 2016








Bisogna iniziare con una considerazione semplice e necessaria: man mano che si procede nella lettura appare  chiaro che Serie fossile  di Maria Grazia  Calandrone è un libro bellissimo, pervaso da una luminosità enigmatica,   potente espressione di una pulsione abbandonica che nella scrittura  tende come una freccia alla gioia, gioia naturale, primordiale, “preistorica”,  e perciò senza il limite della ragione, né della sua caricatura,  la follia; gioia pervasa dai meccanismi di una visione che sa liberare le parole del loro peso e poggiare la “piuma del futuro” sulla bocca dell’amata, giacché si parla,  o meglio si canta,  tra le altre cose, e direi soprattutto, dell’amore fra due donne. E Maria Grazia Calandrone sa parlare d’amore con quella chiarezza e grazia visionarie che pochi hanno; nelle sue poesie amore affiora come una forza magica, perfettamente terrestre  ma anche cosmica, come vedremo,  un’energia priva delle pesantezze retoriche  che su di esso sono calate, una realtà  trasmessa al lettore con i suoi sottintesi di estremo pudore.

Operazione di raschiatura dei concetti, di lavatura, di sciacquatura dei panni nell’acqua di un fiume linguistico che,  per la forza della sua originalità,  è lecito riconoscere già classico. Quella di Maria Grazia Calandrone è voce unica, ampiamente riconosciuta fra le più significative e originali del nostro paese.

Serie fossile è edito nel gennaio 2015 da Crocetti e questo sarebbe già  di per sé sufficiente a garantirci che siamo davanti al miracolo della poesia. Miracolo che si rinnova sempre a dispetto del disinteresse che dovrebbe, o vorrebbe, minare alla radice l’atto poetico e ricoprirlo di discredito. E invece per chi legge libri come questo, diventa sempre più chiaro che la scrittura poetica è scrittura alla massima potenza di condensazione dei concetti che,  lungi dall’essere nominati, catalogati o espressi,  vengono da Calandrone diluiti  in un  magma incandescente ed emorragico  che sa come rivelare il mistero stesso del linguaggio. “Del poeta il fin la maraviglia […]/ Chi non sa far stupir, vada alla striglia” è il monito di Marino. La poetessa,  nata a Milano ma residente a Roma, questa lezione l’ha appresa benissimo e la sua poesia  per chi la legge è tutta un dono di stupore.

Serie fossile è probabilmente una raccolta di poesie, ma ha l’aria di essere un poema o meglio ancora quello che i musicisti chiamano un “concept album” tanto sembra ruotare intorno agli stessi agglomerati di sensazioni e di idee, che sprizzano magia linguistica da tutti i pori. Così molti versi andrebbero citati per rendersene conto. Cito pescando più o meno a caso:  e io ero deserto/che si abbevera/alle lesioni della carne viva” oppure “ impariamo a soccombere/alla materia: questo corpo/- l’effimero, è il miracolo” o ancora la sorprendente, eppure perfettamente logica, conclusione della poesia “x- metamorfosi”: ” io servo l’animale che adora il sole” o ancora “Brucia il sale dell’ultima stella/sulla ferita umana.” E si potrebbe continuare a lungo tanto il testo è tutto disseminato di folgorazioni, illuminazioni, apoftegmi, rivelazioni vertiginose.

Bellissima,  in un modo più volutamente sommesso rispetto ad altre,  la poesia “acconsente” ci rivela la potenza sacrale della natura -  di cui si canta l’ istintiva obbedienza alle leggi cosmiche -  incarnandola nella figura di una cavalla che accetta di farsi cavalcare dopo un breve colloquio di gesti senza parole di cui la poetessa ci restituisce l’afflato con semplici tocchi naturalistici, “l’erba, gli stenti cespi/ di malva ai piedi del muretto”,  e raccontandoci con tono oggettivo e partecipe il passaggio della cavalla dall’ irrequietezza alla calma che precede la salita in sella. Poesia di potenza descrittiva non priva di commozione sotterranea e segreta, che esprime la complicità fra il poeta-stregone e le forze naturali,  primigenie, animalesche, ctonie.

Scrittura di flussi, questa, che s’intersecano, si compenetrano, si sfaldano uno nell’altro. Flussi sorretti da una visione profondamente unitaria e coerente,  per meta fuoco per metà abbandono”,  come nella citazione di Antonella Anedda,  posta come titolo di una delle sezioni del libro.

Nell’ultima straordinaria poesia in prosa abbiamo qualche traccia in più per capire quello che alla fine si configura definitivamente come poema amoroso; qui l’amore da vicenda privata diventa evento cosmico, in tutto simile alla prospettata fusione di due galassie e scopriamo così “la calma delle stelle”.

Libro bellissimo, dicevo all’inizio, che cresce man mano che si approfondisce la lettura e che rimane segno di un’esperienza poetica fuori dal comune, di una scrittura impetuosa ma soggetta a un calcolo preciso, a un controllo direi geometrico della forma, dove però più che alla geometria euclidea, Maria Grazia Calandrone sembra fare riferimento,  misteriosamente,  alla matematica dei frattali.  

Consigliato soprattutto a coloro che vogliono conoscere il linguaggio profondo della nostra epoca, per uscire dal mutismo autorizzato delle televisioni,  dei giornali e delle chiacchiere sociali,  virtuali o meno. Questa è come una conversazione elegante sotto un cielo stellato che ci rimanda perennemente l’immagine di un’immensità sfiorata, sufficiente, però, a colmarci. Tutto questo fa di Serie fossile un libro imperdibile.

Una poesia di Mariella Mehr

sabato 8 ottobre 2016







Niente,
nessun luogo.
C’è ancora rumore
di sventura nella testa,
e sulla mappa del cielo
io non sono presente.

Mai è stata primavera,
sussurrano le voci di cenere,
sulla bilancia del linguaggio
sono una parola senza peso
e trafiggo il tempo
con occhi armati.

Futuro?
Non assolve
me, nata sghemba.
Vieni, dice,
la morte è un ciglio
sulla palpebra della luce.

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 poesia tratta da “Ognuno incatenato alla sua ora” – Mariella Mehr – traduzione Anna Ruchat – Giulio Einaudi Editore, 2014.

L’adolescenza dell’oblio – Kikí Dimulà

sabato 1 ottobre 2016





Quella di Kikí Dimulà è una poesia che trae probabilmente dalle sue assonanze con il surrealismo quell’aria di gioco beffardo sospeso fra la birichinata di una bambina saggia e l’azzardo di un giocatore che ama il rischio. È una poesia che si fonda sulla percezione di un oblio onnipossente -  presente fin nell’enigmatico titolo della raccolta in cui si annuncia una sua ipotetica “adolescenza”-  sulla fragilità del ricordo, sulla necessità di trasformare anche la quotidianità più avvilita in epifania misteriosa.

È una poesia densa, magmatica, sferzante di paradossi, sorprendente per la sua ricchezza tematica ed espressiva. Ogni verso è un precipizio che ci fa osservare il mondo nella sua dimensione meno familiare e più sconcertante. La parola così denuncia la sua lontananza dal dettato comune, articola una conversazione fra individui in nome dell’assenza e quest’ultima,  insieme a “lontananza”,  è parola illuminante per questa poetessa, che avverte che, se  tutto è prossimo a evaporare,  anche la durezza diamantina del verso si riscopre liquida ed evanescente.

Poesia autunnale dai colori spenti, ci ricorda la traduttrice Paola Maria Minucci, diversa sia dalle solarità di un Elitis, che dalla lezione morale e politica di un Ritsos o di un Seferis; poesia di sensazioni che divengono subito immagini, come in preda al vortice dell’istantaneo, ricca di metafore ardite,  di costruzioni linguistiche fatte di suoni, echi, assonanze che, ci avverte la stessa traduttrice, si perdono una volta tradotte.

Si costruisce così un linguaggio poetico di straordinaria originalità e lucidità, la voce di Kikí Dimulà pare subito al primo sguardo unica, inimitabile, in fondo né gioiosa, né triste, né colorata, né opaca, inventa i propri colori e i propri stati d’animo come meccanismi di una placida deriva onirica.

Potente invenzione quella della poetessa greca, nata ad Atene nel 1931, che scrive di sé nella poesia Trasgressioni:Mi espando e vivo/ illegalmente/in aree che gli altri/ non riconoscono reali”. Dichiarazione questa  universalmente valida per quella strana genia di persone che, volenti o nolenti, hanno dovuto indossare la maschera del poeta. La poetessa si muove così in dimensioni anche linguistiche non riconosciute come reali, è la clandestinità stessa della parola poetica a muovere i suoi sogni, da qui la grande, vagamente spiritata originalità del suo versificare sull’orlo dell’oblio. La sua è dunque la creazione di una lingua propria, che in questa bella edizione Crocetti del 2002, grazie al lavoro della traduttrice, brilla di molteplici sfumature e ci ricorda che la potenza numinosa del verso non è disgiunta da una certa sobrietà, e che,  mentre si svolge l’apocalisse semantica più articolata,  possiamo anche sorseggiare un tè.

Libro fondamentale,  questo L’adolescenza dell’oblio,  di una poetessa forse poco nota in Italia (ma quale poeta non lo è?) ma che a me è  parsa decisiva. Ancora una volta la poesia, percepita misteriosamente come antiquata, ci mostra quale sia  il linguaggio segreto delle strade  e delle città contemporanee,  ci illumina circa il mutismo delle nostre comunicazioni digitali o meno, arricchisce l’idea che noi ci facciamo della realtà, ci restituisce qualcosa come la consapevolezza della parola. È indubbiamente, come ci ricorda Bonnefoy, una parola che sogna quella poetica, ma sognando ci dice cosa conta nel vuoto dell’universale vaniloquio ( "dialogo fra sedie” lo definiva Gottfried Benn), ci mostra l’oro rimasto impigliato nelle maglie dell’oblio.

Pochi poeti hanno questa consapevolezza,  che oso definire magica, quanto Dimulà,  che conosce il colore delle parole,  quasi come Rimbaud che inventava o scopriva  il colore delle vocali, conosce la loro potenza di specchio dell’esperienza umana e di oracolo, la loro evanescenza sorella dell’oblio e mescola queste nozioni per creare una pagina in cui la vertigine è alleata con un solido e disincantato realismo. Stupefacente la misurata allucinazione che abita queste poesie, la facilità con cui Dimulà crea metafore e immagini sorprendenti che sembrano altresì germinare spontaneamente.  Ci vogliono  naturalmente,  come sempre e più di sempre,  diverse  letture per avvicinare il mistero di una poesia in così strenua lotta con il senso comune.

Qui dove tutto è polvere,  spazzarla via consiste nello “sbattere fuori la vita interiore” e se tutto si sbriciola allora scopriamo che è una  Pietosa parola l’Intero”. Tutto è frantume, polvere, cenere, disfacimento.

“Chiamo la cenere
con il suo nome in codice: Tutto. “

Così l’oblio vince sottomettendo l’universo intero,  è proprio la chiave che fa girare ”la serratura  dei sentimenti”, motore del dire poetico e sua destinazione aldilà di ogni illusione di eternità.