Abbacinante. L’ala sinistra - Mircea Cărtărescu

mercoledì 25 gennaio 2017




Questo romanzo, Abbacinante. L’ala sinistra, opera dello scrittore romeno Mircea Cărtărescu, è fra i libri più sconclusionati che abbia mai letto.  La scrittura, nella traduzione di Bruno Mazzoni, in questa edizione Voland del 2008, appare da principio corposa - si potrebbe definire barocca, anche se a tratti involuta e non sempre fluida - ma poi devia verso una deriva onirica posticcia, in una melassa di termini scientifici e di altisonante, vacua spiritualità. A peggiorare la situazione, la storia è assolutamente confusa e i contenuti spesso assurdi.

Diviso in tre parti, il romanzo non è costruito bene ma risulta un accatastarsi di storie divergenti troppo eterogenee.  C’è un lungo brano di tipo apocalittico, per esempio, che parla di demoni e angeli, del tutto incongruo, appiccicato forzatamente a una storia che scivola in un’atmosfera allucinatoria raramente convincente. Come quando lo scrittore romeno mostra una cosmologia dalle vaghe ascendenze gnostiche. Altro brano appiccicato in maniera impropria. Il romanzo oltretutto è stracolmo di descrizioni pesantissime e spesso inutili, rese con linguaggio tecnico -  scientifico quasi a mo’ di birignao allucinato.

Inizialmente il protagonista è Mircea stesso, raccontato nella sua ricerca del passato, nel ricordo, soprattutto, della madre Maria, protagonista della seconda parte, dove si racconta, in maniera interessante a dire il vero, del bombardamento di Bucarest da parte degli alleati durante la seconda guerra mondiale  e delle peripezie di Maria e sua sorella sfuggite per caso  alla morte. È la parte migliore che da sola dà senso a una lettura che fino a quel momento era stata pressoché fastidiosa, 120 pagine almeno fra assurdità e tedio. Poi un’ennesima variazione, una storia nella storia, ambientata a New Orleans,  raccontata da uno dei personaggi. Anche questa pare una deviazione dal tracciato del romanzo, per aumentare il senso di confusione. Così il materiale pare eccessivo, come se Cărtărescu utilizzasse troppi colori e appesantisse il quadro. La sensazione di un romanzo barocco eccessivamente denso e rutilante aumenta e il fastidio si ripropone. Non che questa storia nella storia  sia tutta da buttare, alcuni personaggi sono bene evocati, ma nell’insieme del romanzo sembra un’intrusione indebita. Si rivelerà poi nel finale  il delirante e pressoché incomprensibile  fulcro del libro.

 La storia d’amore fra Maria e il futuro marito Costel conserva spunti interessanti fino a quando non si precipita nuovamente nell’allucinazione. La scrittura qui diventa fantasmagorica e insensata. Le geometrie del romanzo sono così diseguali, il ritmo ne risente e il barocco della scrittura diventa palesemente kitsch, il fastidio si accresce in questa mescolanza non riuscita di fantastico e realtà, fra surrealismo pacchiano e accenni metaletterari.

La terza parte inizia con un monologo che lascia il tempo che trova, patetico, in cui l’ossessione per il corpo si mescola con un assurdo delirio religioso che comunque nel testo ricorre più volte. Il solipsismo di questa prosa sia fa via via sempre più sconcertante. Regna la noia. Per decine, centinaia di pagine: uno stillicidio.  La consapevolezza di stare ammorbando il lettore è presente in Cărtărescu che definisce in due occasioni ”illeggibile” il libro che sta scrivendo. Poi il romanzo migliora nel racconto di una degenza ospedaliera in cui Mircea bambino incontra due coetanee che si prendono gioco di lui e lo tormentano. Poi si torna ai monologhi, dove è descritto un parossismo di emozioni fine a se stesso. La conclusione della storia nella storia di cui sopra è un profluvio di visioni sovrannaturali con poco senso o nessuno. Davvero imbarazzante. La fine del romanzo, che si rivela una grottesca parabola metafisica, è un sollievo.

La sensazione definitiva è quella di un testo assai scadente; caotico, abnorme, mal strutturato, troppo lungo e troppo tortuoso, opera di uno scrittore dalla fantasia eccessivamente debordante e sfrenata, cui pare sfuggita la misura stessa della propria opera.

 Eppure avevo letto il suo libro di poesie, Il poema dell’acquaio, edito da Nottetempo, sempre tradotto da Bruno Mazzoni, e ne ero rimasto positivamente colpito. Questo romanzo è invece una grande delusione. Da cestinare senza pietà.


Fogli d’Ipnos - René Char

sabato 14 gennaio 2017





Scrivendo poesie m’interrogo spesso sul mistero della scrittura.  Ogni tanto arrivano risposte o abbozzi, simulacri di risposta,  dall’esterno. Come questo libro,  edito in Francia  per la prima volta nel 1944, Fogli d’Ipnos, del poeta francese René  Char, che leggo  nella traduzione di Vittorio Sereni, in questa edizione Einaudi.

Libro che mescola la poesia con gli aforismi  e con brevi  brani narrativi, andando aldilà di ogni definizione di comodo, esplorando la scrittura come pozzo senza fondo dell’intuizione pura.

Nulla di astratto in tutto ciò ma la lucida concretezza di un uomo d’azione che partecipa alla Resistenza francese, assumendo su di sé la consapevolezza di agire per il giusto e “deciso a pagare per questo”. La guerra non è solo contro Hitler e le sue tenebre, ma anche contro il linguaggio automatico, sclerotizzato e sepolcrale che la modernità comunicante  ha fatto suo. Scrittura che a fatica, letteralmente in mezzo alle pallottole,  trova il suo spazio e la sua voce umana.

Perché è l’umanità di Char, il senso di fratellanza di questi partigiani, la cosa più commovente di questo libricino che vive le sue illuminazioni come il territorio conquistato al nulla e alle tenebre. Libro che non comunica, che sta di fronte al silenzio come un’offerta sacra, in cui la comunicazione anzi è denunciata come impropria violazione di questo silenzio,  nell’aforisma numero  185, per esempio,  in cui si glorificano ”le imposte di cristallo chiuse per sempre sulla comunicazione.”

È sicuramente un paradosso ma non si scrive per comunicare ma per accedere a quella zona incomunicabile che è il nostro più profondo tesoro e segreto. Così quasi per caso arrivano le folgorazioni, che ci sorprendono con il loro nitore.

In questo libro profondamente scritto e direi dolorosamente tradotto da un altro grande poeta, Vittorio Sereni, le folgorazioni sono diverse. Di tipo aforistico, poetico o narrativo.  Ne scelgo una per tutte, la mia preferita, la numero  129:  Siamo come quei rospi che nell’austera notte delle paludi si chiamano e non si vedono,  piegando al loro grido d’amore tutta la fatalità dell’universo. “

L’impressione di  stare davanti a una prosa poetica è giusta ma poi fugata da una scrittura che spazia dall’aforisma  all’aneddoto, fra impulso narrativo di tipo storico e la considerazione filosofica. La storia è quella della Resistenza contro il Nazifascismo,  la filosofia è un pessimismo lucido riscattato però da un “umanismo” (humanisme nell’originale) dall’ispirato tono civile.

 Non si sa dove finisca l’azione e cominci la poesia, se poesia e azione siano lo stesso atto  o attimo di una presa di coscienza civile. Risuonano le parole della prefazione che Char scrisse al testo vero e proprio,  dove si parla di un libro che avrebbe potuto avere come editore ”un fuoco di erbe secche” perché qui nulla  è solo letteratura, c’è in corso una sfida alle dinamiche della storia e della scrittura, dove forma e contenuto si rincorrono, dove,  come nelle parole di Rimbaud,  la poesia non ritmerà più l’azione,  sarà avanti. “

 Poesia e azione, vasi ostinatamente comunicanti” commenta Sereni. Poesia specchio dell’azione,  occhio stesso della Storia in cui l’azione si compie. 

Fogli d’Ipnos  è un libro profondo di un poeta che attraversa virilmente la Storia, per attingere  poi misteriosamente alla miniera della poesia, di un uomo che vive l’azione come spazio di una rivelazione,  per essere una “voce d’inchiostro”, nel marasma cieco e allucinato della barbarie nazista, sempre tentato di espanderla questa voce ma limitato dai tempi stretti, dalla disciplina militare della sua attività di partigiano. È la scrittura di un uomo che rischia in ogni momento di essere ucciso e non ha tempo da perdere;  è una scrittura perciò  necessaria, visionaria e realistica al tempo stesso.

Si finisce per ammirare René  Char,   come poeta, da lui definito magistralmente come “conservatore dei mille volti di ciò che vive”,  ma soprattutto  come  uomo che ha voluto partecipare al suo tempo e ha saputo  esserne all’altezza.

Autointervista con domande implicite – parte seconda

sabato 7 gennaio 2017







Leggi qui la prima parte.

La mia idea di letteratura è  un po’ quella di Manganelli, con meno ironia, forse, perché la penso come Pasolini, l’ironia, una certa ironia-  l’attitudine cioè a scherzare,  a minimizzare -    è spesso  un atteggiamento un po’  borghese.  Manganelli,  però,  ha tutte le ragioni del mondo quando sostiene  che la letteratura è mistificazione, menzogna. Nessuna verità da dire, costruzione intellettuale in bilico fra la burla e la profezia, gioco pericoloso in cui ci si danna l’anima per assecondare le ombre. Finzione anche la Storia, i cui  personaggi sono dei flatus vocis senza significato.  Glossolalica,  puttanesca infine  la poesia,  imbroglio calcolato al millesimo che ci rivela cos’ è il linguaggio umano, sospeso fra farneticazione e musica.

Proprio la musica  ha un ruolo centrale in Diario di Casoli. In quel periodo ero ipnotizzato da “Music for Airports” l’ album  di Brian Eno,  lo ascoltavo continuamente. Penso -  e in realtà  spero -  che quelle melodie avvolgenti, circolari, quelle spirali melodiche,  mi abbiano influenzato. Poi rompevo l’incantesimo di quella musica, con il ruvido suono dei CCCP, con la cantillazione ipnotica alternata al grido di Giovanni  Lindo Ferretti,  vi aggiungevo  la dolce, cinica per gioco,  fintamente ubriaca, di sicuro ironicamente dannata, musica di Guccini, maestro di poesia nei suo meravigliosi testi, secondo me, i  migliori della musica italiana  e penso, per esempio,  a una delle canzoni degli anni ‘90, neanche fra le più note,  “Lettera”.  Citerei i Grateful Dead, rivelazione di quell’estate, gruppo che conoscevo superficialmente. Sono entrato dentro quel mondo musicale fra psichedelia e folk e mi sono molto divertito. Ascoltavo Crosby Stills e Nash, per esempio. C’erano i Doors, naturalmente ma quelli li ascolto sempre. E i Velvet Underground, sì, quasi sempre. Che altro? Non so, Battiato, ma soprattutto come autore per Giuni Russo, Alice. Ascoltavo  quell’eccezionale album che è “Energie”, dove la voce di Giuni Russo ritma la follia metropolitana, l’alienazione, l’ allucinazione urbana. Penso che tutto questo mi abbia influenzato durante la scrittura di “Diario di Casoli”, io scrivo spesso ascoltando musica e i miei percorsi musicali sono strani, come si è visto da quello che ho appena detto.

Sento di aver ingannato il lettore, in quanto poeta è mio compito, naturalmente, il bucolico è solo il travestimento di un poema che realizza altro: la fuga di colui che è “passato al bosco” come recita più o meno Jünger. Ecco Diario di Casoli è traccia di questa illuminazione, che naturalmente trattandosi di poesia è finta, anche nel senso etimologico di modellata, costruita, artefatta.

Cosa posso dire  infine di questo flusso di parole che ho intitolato Diario di Casoli?   Che esso  racconta il mio passaggio al bosco, l’ingresso deliberato in quel tempio, quella “foresta di simboli”,  che è la natura. Un’indagine alla fine inquietante, una  straniante ricerca dell’altrove, nel sogno,  nel mito, nel mito di stessi,  di Casoli, del divino,  del nulla. Ecco così, ipotesi di lettura. Ma la domanda io la rivolgo al lettore. Solo lui possiede la chiave  di questo testo che io ho smarrita scrivendolo. La lettura che ha dato Tonelli, per esempio, per me è stata illuminante. Ha definito il poema un “vagare immobile verso l’impossibilità della parola”. Fantastico, non ci avevo pensato. Mi ha aperto alla comprensione del mio stesso testo come deve fare un vero  critico. E ciò mi lusinga oltretutto,   perché infine  ho imparato che capire e amare sono la stessa cosa.

Tre aggettivi per definire Diario di Casoli: orfico, onirico, bucolico, sul solco di una mistificazione, lunare che finge la luce, lucente che sogna la tenebra.

Spero che si possa dire della mia poesia che essa sia ribellione al senso comune, alla dittatura della Verità. È semplice ma complesso da dire. Con  la narrazione mistificatoria della poesia rispondo alla Narrazione mistificata dell’attualità e del mondo.

Il bucolico è l’ abbellimento, l’ornamento di qualcosa che in essenza potrei chiamare la rivolta, non quella chiassosa delle piazze, ma quella silenziosa del bosco. E si ritorna a Jünger al suo Trattato del ribelle, che parla del ribelle come di  “colui che è passato al bosco”, si è dato alla macchia, congiura con le forze astrali della sua unicità selvaggia e aristocratica.

Perché scrivo? Mah.  Forse Per resistere allo sfacelo, per oppormi alla pernacchia dei luoghi comuni e del qualunquismo linguistico, per indossare una maschera ed essere la finzione di una voce, un medium che porta un po’ di inferno in paradiso e viceversa… No,  no. Tutto falso, ovviamente. Scrivo perché non lo so, se lo sapessi non lo farei, sarei troppo cosciente e ciò mi paralizza, l’eccessiva coscienza ti blocca,  in poesia ci vuole abbandono, incoscienza, oblio. E torna il discorso del femminile. Torna la luna con il  suo silenzio oceanico. Ancora una volta l’acqua. A Casoli c’è un laghetto, ma è lo stesso. Bagni di Lucca è famosa per le terme.

Ho scelto o meglio mi si è dato un luogo piccolo, minimo, una frazione, quasi un villaggio, Casoli, dove nel silenzio della valle  ho potuto sentire il richiamo della vastità,  del bosco, della natura sacra perché altra e altra perché sacra. Questa scoperta dell’alterità non cessa di inquietarmi.

Fra le influenze aggiungo il Pasolini de Le ceneri di Gramsci,  in cui c’è un poema che parla molto dell’Appennino toscano,  di Ilaria del Carretto, questo straordinario monumento funebre di  Jacopo della Quercia che ho avuto la fortuna di ammirare due volte, nei versi di Pasolini e dal vivo, alla cattedrale di San Martino.  Ho girato intorno al monumento  avidamente, come per assorbire la sua bellezza. È stato un evento.  Un biancore scintillante, la grazia, l’abbandono.

Il passare del tempo nel poema è un battibecco fra luce e tenebra, che in quella dimensione sono entrambe assolute. Per questo parlo spesso di penombra che con la sua incertezza ci salva dalla luce troppo accecante e dal  buio troppo terrestre, ambiguo, spaventoso.

Qualcuno può pensare che potessi scegliere un titolo più evocativo,  più suggestivo, ne avevo anche uno ma mi avrebbe dirottato l’opera che vuole essere anche realistica, di un “realismo magico” però, una mappa del mio vagare mentale sì ma profondamente radicato nel luogo, territorializzato, direbbe Deleuze ma in questo  caso si tratta di una dislocazione, l’altrove. Beninteso: solo l’occhio visionario lancia uno sguardo realistico. Solo il sogno racconta la realtà e non la fredda astrazione della Ragione contemporanea, calcolante, utilitaristica.

In poesia c’è sempre il potlach, l’eccesso che deve essere distrutto altrimenti ti distrugge. Il Minotauro si traveste dunque  da fatina. L’inquietudine del buio diventa ardente desiderio di luce.

 La mia è una sorta di Lonely Planet mentale, una mappa della terra che non c’è, Casoli , “puntino sperduto nell’universo” lo chiamo in un verso, che per effetto dell’immaginazione diventa mitico, a tratti incantato(parlo di casa delle favole) a tratti spettrale( “il cimitero proietta una luce diabolica, sinistra”). Una collina  tutto sommato dolce,  diventa  aspra come la montagna, luogo archetipico, come archetipica è la valle. Si tratta anche  giocare a creare un mito di  se stessi. Così il poeta incontra Casoli, luogo sospeso fra il nulla e l’infinito, fra la luce amica e il buio diabolico, fra realtà e sogno.  Visione ipnagogica della penombra, che come dice anche l’etimologia  non è ombra ma quasi ombra. E così via.

A Casoli noi ci muoviamo così in un mito, il mito dell’altrove, il mito del bosco;  sono stati mentali,  sono la  soglia. Il primo libro di Ferlinghetti s’intitola A Coney Island of the mind. Qui non siamo a New York o a San Francisco, siamo  a Casoli ma è lo stesso. “Casoli is a state of mind,” potrei dire giocando ma non troppo. In Toscana si respira sempre un’atmosfera internazionale.

Ci sta che un minuscolo paesino collinare divenga montano, per effetto anche dell’immaginazione. Tecnicamente Casoli non è montagna, ma è come se lo fosse. Io ero  immerso in una valle circondata dai monti, nel silenzio rotto solo dal canto delle cicale. La mia mente ha iniziato a mormorare un canto di ringraziamento. Ho assecondato questo desiderio ed ecco Diario di Casoli.

Lo pseudonimo risponde all’esigenza della maschera. È la consapevolezza che scrivere poesie significa sempre indossare una maschera. Ettore Fobo non sono io, è un io fittizio generato dalla mia scrittura,  l’autore.  C’è una frase di Oscar Wilde a tal proposito,  illuminante : “Gli uomini mentono.  Date loro una maschera e  vi diranno la verità.”

Ma qui la maschera mi serve per rilanciare un’idea di mistificazione assoluta, di menzogna come grimaldello che permetta di scardinare la porta sul giardino incantato della pura invenzione. Nulla di vero in tutto ciò, sogno che si sfalda come un dente di leone… Eppure in questo sfaldarsi troviamo l’unica realtà, l’unica verità,  cui la nostra condizione umana ha possibilità di  accesso.

Fine