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Una poesia di Alda Merini

lunedì 23 dicembre 2019




Il ritmo ottunde le mie povere idee,
a me piacciono i revivals dei negri,
la loro segreta esuberanza:
se fossi vissuta in Africa
avrei danzato intorno al fuoco
dicendo ch’era il mio Dio.
Poiché son nata in Italia,
ballo intorno al tuo corpo
la danza dello stregone
affinché tu risorga
a risanarmi l’anima.
Ma nessuno che mi accompagni
con cembali o trombe dorate;
forse soltanto gli angeli
hanno pietà di un carme solitario.

Ho vergogna delle notti che hanno invaso
il piacere
vergogna di me stessa  e paura
che possa ancora ripetersi
che io diventi acqua
e che tu mi beva dal limbo
della tua luce segreta.
O ruscelletto mio, accorta voragine di sogno,
portami alla tua serra
che io muoia del profumo dei fiori
irripetibile terra
 di un amore ferito.

Da “Vuoto d’amore”- Alda Merini- edizione per il Corriere della  Sera – settembre 2014

***
Buon Natale a tutti e tutte.

Ettore Fobo

Clinica dell’abbandono – Alda Merini

domenica 7 giugno 2015





 Penso che ogni libro di poesia sia una domanda, una domanda che l’autore rivolge a un ipotetico lettore. Per Adorno, che si chiedeva anche se la poesia fosse ancora possibile dopo Auschwitz,  i poeti scrivono ormai solo per il Dio morto dell’accezione nietzschiana.   A un Dio vivente e in buona salute sembra rivolgersi la poesia di Alda Merini  e il suo canto è sempre attraversato da una pulsione alla preghiera;  la domanda che gli rivolge potrebbe essere  questa: ”Perché tanto disamore nel mondo?”.
  
Leggo su un dizionario online il significato di clinica: “Metodologia medica basata sull'esame diretto del paziente e sulla cura non chirurgica delle varie patologie; insegnamento e studio di tale metodologia”.  Così Merini confessa che la poesia è un esame clinico, forse una terapia, sicuramente un’autoterapia; la ferita di cui soffre Merini - e in un certo modo tutti - da studiare e da sanare, è appunto quella dell’abbandono e della solitudine.

Poetessa oscura e insieme illuminante Alda Merini,  che seppe creare un vera e propria mitologia di se stessa: maga preda di un delirio creativo che esonda, vittima di un mondo che la confina in manicomio, dunque  “pazza”  visitata dall’ispirazione;  dove la poesia è riconosciuta  ora stregonesca alchimia di parole, ora  ritmo  che perlustra la  distanza fra la musica e il silenzio,  ora inquietante indagine nel nucleo atomico della parola o straniante perlustrazione negli abissi del disamore, ora quasi urlo glossolalico, infine  testimonianza di un riscatto. 

Si sentono alcune influenze, la parola orfica di Rilke, per esempio, o  l’ermetismo di Quasimodo, si notano consonanze con la poesia di Amelia Rosselli,  si ammira l’originalità del verso,  anche se a volte  qualcosa non torna. Talvolta le poesie di Alda Merini, anche in questo Clinica dell’abbandono, che probabilmente è uno dei suoi libri migliori, risentono di una visione un po’ antiquata del poeta e della poesia. Antiquata per via di una certa retorica sul ruolo salvifico della poesia stessa, la cui centralità è sempre più messa in dubbio dal crescente disinteresse verso di essa. Si rischia così di cadere nel sentimentalismo, in una retorica un po’ artificiale o addirittura in un misticismo di seconda scelta.   Quella di Alda Merini pare a volte,  anche nei versi meno felici di questa raccolta,   più  un’”allucinazione di parole”  autoreferenziale  che un impeto realmente visionario o visivo.

Mi sembra che Alda Merini sia più efficace quando smette la maschera dello stregone e dell’illusionista verbale, quando abbandona il pathos della Pizia invasata d’amore, carnale o spirituale, e ci mostra con sobria cattiveria, quasi con cinismo, il dolore della condizione umana (ma sappi che la solitudine / è l’unica donna/che non ti abbandona. “)  Meno interessante quando parla del suo bisogno d’amore con toni a volte queruli. In generale mi sembra che nelle parole di Merini, la parola amore ricorra troppo spesso ed è un cliché. Questo continuo parlar d’amore è,  però,  sintomatico. Dalla poetessa stessa definito magistralmente ”vaniloquio d’amore/ che altro non è/ che la futile lamentazione/ dei manicomi spenti”. Ecco la mancanza d’amore di Merini è indissolubilmente legata al manicomio, ferita originaria che nemmeno il successo mediatico e letterario ha sanato. L’amore è un tema centrale, dunque, la sua mancanza soprattutto. È un amore carnale che si fa spirituale e viceversa. Ci sono versi emblematici, nella loro desolazione: “ Non so niente di te/ e non è che mettendo/la tua carne dentro/la mia tu mi abbia detto qualcosa.”

 La poesia di Alda Merini,  insanguinata dalla solitudine”,   è però   diseguale,   regala momenti di straordinaria e glaciale genialità  ma a volte si perde in un vortice di sentimentalismo un po’  melmoso e vacuo, che,  se pure  ha un senso biografico profondo,  smarrisce la tensione all’universale tipica della poesia.

Detto questo, la sua è una poesia che lascia il segno, verso la quale non si può rimanere indifferenti, specie in questo libro,  dove lentamente s’insinua nella mente e la muove e la turba. I migliori versi della poetessa milanese, autentici, carnali e spirituali, viscerali, sfuggono per la loro fluidità alla presa totalizzante dell’interpretazione critica; come nota nell’introduzione Paolo Lagazzi, in questa edizione del novembre 2014, uscita con il Corriere della Sera (la prima edizione Einaudi è del 2003). Il retino del critico può davanti a questi versi sognare d’intrappolare qualche bagliore, l’essenza segreta di questa poesia gli rimane, però, preclusa; il mistero vince, ogni parafrasi incontra la sua fine.  Vi sono versi straordinari, come questi: ” Io sono l’uva io sono la gola e anche/ l’accidia quando il peccato trova in me/ la dimora, e in fondo sono l’estasi/ del piacere perché nel calice dell’amore/ io sono virtualmente/ il nulla”  ma essi in qualche modo abbagliano, più che illuminare.  In questo Merini è profondamente poeta.

Altrove si ha la sensazione che la poetessa milanese perda un po’ la bussola ed ecceda con l’accumulazione di artifici  retorici che paiono fini a se stessi. Per esempio: “Come la biada dirà i suoi inganni/ per cogliere giovani e feste che non hanno domani/e intanto tu invecchi nella palude dei morti/ dove ardono contadini di noia/ che affossano la donna, li chiami/ come il migliore degli uccelli, ed avanzano / con piume di pavone senza darti l’aria/ del suo pigolio assetato” Così il verso di Alda Merini oscilla pericolosamente fra l’illuminazione musicale e la farneticazione quasi glossolalica.

Questo libro,  però,  è un crescendo dove, progressivamente, nelle tre parti in cui è diviso,  Merini arriva ad asciugare il dettato rendendolo essenziale, di un’essenzialità che non ha paura di essere anche aspra:  “Usciamo da questa vita senza parole/ dove l’erba non cresce più/ e i secolari amori sono morti nel vento”. Oppure arriva a regalare sentenze: “Ogni donna ha nelle mani/ un’assurda parola.”

 Clinica dell’abbandono è, nel complesso, un libro molto  bello che si chiude con un’ immagine potente: “Il genio vivifica il teatro ed è come/  lo zolfo dell’inferno/ che apre un orizzonte.”
Questo zolfo del genio si sente a tratti in questo libro di Alda Merini, dolorosamente cristiana, un po’ strega,  un po’ santa, un po’ atea, un po’ devota, peccatrice perché bollata come “pazza”, che già in un altro dei suoi capolavori, La Terra Santa, aveva trasformato il manicomio in un luogo sacro e qui ci ricorda, come Ginsberg, che la santità appartiene a  tutti, che la vita è una “piovra dei mille occhi”, che l’amore manca sempre  e la carne se non può cantare allora urla.

 Dunque chiudo questa mia analisi con gli straordinari versi della poesia Fuga di volpe:

“A chi mi chiede
quanti amori ho avuto
io rispondo di guardare
nei boschi per vedere
in quante tagliole è rimasto
il mio pelo.”


Il tormento delle figure - Alda Merini

mercoledì 29 febbraio 2012


I versi sono polvere chiusa/ di un mio tormento d’amore/ ma fuori l’aria è corretta/ mutevole e dolce ed il sole/ ti parla di care promesse/ così quando scrivo/ chino il capo nella polvere/ e anelo il vento, il sole, / e la mia pelle di donna/ contro la pelle di un uomo.”
Alda Merini
Alda Merini incarna la figura dell’outsider: scarsi studi, la detenzione in manicomio, la diffidenza, e insieme la fascinazione di diversi intellettuali per la sua poesia appassionata, vibrante, carnale. Così in questo testo, Il tormento delle figure, ripubblicato recentemente all’interno de Il canto ferito, antologia uscita in allegato con Il Corriere della Sera, c’è un’epigrafe eloquente: “La cosa meno scandalosa della vita è lo scandalo.”
Perché Il tormento delle figure è un libro di prose che camminano proprio sul filo dello scandalo, lo scandalo dell’amore raccontato senza pudore ma con grande innocenza, come un’esperienza centrale. La convinzione profonda di Alda Merini è socratica, come nel Fedro di Platone ella esalta il delirio amoroso, la dissennatezza insita nel rapporto erotico, la follia del sentimento, la passione della carne.
“Il grande sentimento d’amore sconfina quindi nel delirio e nella demenza.”
Tutto questo filtrato, o deformato, attraverso una prospettiva cristiana.
“L’amore può essere assoluto e impreciso, comunque è sempre possessione demonica, perché il piacere è demonio, è fuga, è momento.”
E’ il libro di una poetessa che in vita si lamentò molto a causa della mancanza di amore, Vuoto d’amore è il titolo di uno dei suoi libri ma di amori ne ebbe molti e in queste prose trasfigura l’esperienza erotica fino a farne una manifestazione deviata dello spirito: “Il vero amore è lo spirito che si converte in Es, lo spirito che sbaglia rotta.”
Che i rapporti siano platonici o meno è considerato secondario, quello che conta è avventurarsi ai limiti dell’esperienza amorosa, per trovare l’unità fra anima e corpo tanto che Merini scrive: “Per adorare l’anima, bisogna tener conto del corpo.”, oppure “Negare il corpo vuol dire negare l’arte, e negare l’arte vuol dire negare l’anima.”
Lo scandalo è l’amore stesso, che, anche quando non arriva all’amplesso, conserva la sua dimensione peccaminosa, anzi, nelle parole della poetessa milanese, la castità accresce il peccato.
Alda Merini è così sospesa fra carnalità e spirito, dove la carne e la passione sembrano le uniche realtà in grado di mettere ali allo spirito, di farlo volare e viaggiare.
Le figure di queste prose sono gli amanti di cui si scrive; padre R, misterioso frate di cui Merini s’innamorò, Giorgio Manganelli con cui ebbe una relazione da adolescente, il marito Ettore, il clochard Titano e altri. C’era il rischio di scivolare nel pettegolezzo autobiografico ma Alda Merini trasfigura ogni racconto traverso il meccanismo della sua scrittura, che nasconde e rivela al tempo stesso, trasforma sostanzialmente ogni incontro, anche il più banale, in un’esperienza mitica, a tratti mistica, persino nel caso di rapporti occasionali consumati in fretta.
Infatti, una delle figure, possiamo tranquillamente dire uno degli amanti, è Dio, che compare spesso fra le righe, testimone di questi scandali d’amore e confidente segreto della poetessa. C’è anche una visione sottilmente tragica “ E Dio è precipizio, non è né luce, né canto.”
La prosa di Alda Merini è sospesa fra il lamento e l’inno, si situa in quella dimensione in cui le parole sono incandescenti e lo scandalo aleggia sempre, perché lei, per via della sua storia, era estranea a quel mondo milanese d’ipocrisia e perbenismo.
E’ lo scandalo della follia, lo scandalo di una sensibilità esagerata, anche lo scandalo di una sessualità bruciante, Alda Merini era davvero questo fiume in piena che trasportava perle e vecchie carabattole, sentenze aforistiche illuminanti insieme a frasi appesantite da un pathos e da una retorica eccessive, da outsider che se ne frega delle convenzioni e insegue soltanto l’acme del sentimento. Il tormento delle figure è un testo emblematico del percorso della poetessa milanese, giustamente riprodotto integralmente in questa antologia Il canto ferito, curata con grande passione e rispetto da Nicola Crocetti.
Dopo tanto materiale di non eccelso valore pubblicato dopo il successo mediatico, è necessario rileggere il miglior lascito di Alda Merini; in queste prose ascoltiamo una voce significativa del Novecento italiano intonare il suo canto d’amore, ora disperato, ora colmo di un’ebbrezza, anche erotica, fatalmente scandalosa, perché in questa società la sensibilità è uno scandalo di per sé.
Se anche Merini sembra talvolta peccare d’ingenuità nella sua visione del poeta come negromante dell’ispirazione, ha ragione però quando in questo libro scrive:
“ L’Italia dell’Umbria, della fontana di Trevi, l’Italia della Dolce Vita, non sa che i poeti vivono nel cuore dell’Africa, e sono amici degli stregoni, dei pitoni, degli elefanti e della pratiche magiche della terra. “
Anche l’eros è qui raccontato con accenti geniali:
” Lo so, le tue alchimie erano notturne. Udivo i tuoi sogni sopra la mia pelle ora per ora, e gemevo contro le pareti tenendo strette le gambe contro di te, magnifico avvoltoio.”
Il tormento delle figure è un bel testo, quel che si dice un testo maturo, in cui la dicotomia carne - spirito è raccontata con sobrietà a tratti deliziosamente allucinata, e il delirio è, in maniera apollinea, contenuto dalle figure che lo ispirano. Uniche note stonate, certe giustificazioni spiritualistiche della carnalità, che inficiano un poco l’autenticità del suo discorso.
Comunque sia, Alda Merini pare divisa fra cielo e terra, fra l’anelito a realtà trascendentali e la carnalità, anche brutale. C’è poi un aspetto autodistruttivo, per esempio del clochard Titano scrive: “La tua violenza mi servì. In fondo, Titano, tu non lo sai, ti ho sempre aperto la porta sperando inconsciamente che tu fossi il tanto auspicato Assassino. “
Qui, dove l’amore si rivela anche divorazione reciproca e un reciproco scannarsi, noi leggiamo, a mio avviso, una delle opere migliori della poetessa milanese, un testo che le fu commissionato da Il melangolo nel 1990, e che fu dedicato a Giorgio Manganelli e alla sua Hilarotragoedia, un testo in cui il sentimento è purificato dalla passione erotica, non dissimulata, raccontata a tratti con discrezione, a tratti in maniera impudica, ma soprattutto trasfigurata in mitologia personale.
E’ interessante la dinamica della scrittura, che sa trasfigurare poeticamente il dato ordinario e insieme ne restituisce anche la crudezza originaria. E’ una scrittura carnale, che si mistifica spiritualmente e viceversa, in un processo inverso.
“Noi tutti abbiamo nel cuore la bambola manganelliana, e non riusciamo a partorire questa bambola perché è il vudù dello spirito. Questa bambola ha ali metalliche e mente di trascendenza”.