Una visita al Mart

sabato 29 settembre 2012



                                                                           
The new Babel- opera di Fortunato Depero

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Rovereto (TN) 4 agosto 2012

Mi colpisce subito, appena entrato nella mostra Ricostruzione futurista, la serie di quadri dedicati al tema della Scenotecnica da Tullio Crali. Sono sospesi fra futurismo ed espressionismo in una sintesi unica. Sembrano nascere da una visione profondamente cinematografica della realtà, legati all’espressionismo oltre che pienamente futuristi, risolti in una deformazione dello spazio in chiave filmica. Sembrano anche scene di e da un teatro impossibile.

Più in là, due opere straordinarie di Fortunato Depero: The new  Babel e Tunnel e grattacieli. Sono visioni della città di New York, che ricordano Metropolis di Fritz Lang, rendono armonico il caos cittadino che rimane un agglomerato di pulsioni dinamiche, straordinariamente sintetizzate dal pittore futurista,nato in Trentino e  vissuto proprio a Rovereto.  Le opere di Depero sono così potenti che valgono come un logo di New York, un suo marchio. Una testa di Mussolini, scolpita da Renato Bertelli, è occasione per danzarle intorno, perché a ogni movimento oculare intorno alla statua corrisponde la stessa mascella, lo stesso elmetto, lo stesso profilo, è come se il volto si ripetesse intorno alla sfera. Onnipresenza del duce. L’opera s’intitola appunto Profilo continuo. 

C’è anche uno straordinario esempio di pittura aerea: Incuneandosi nell’abitato, opera di Tullio Crali, che induce riflessioni su come la tecnica, in questo caso l’aereo, modifichi la visione. Ci sono dipinti di Balla, fulminei, plastici, esoterici: un vortice di linee che attraversano lo spazio, amplificato fino  a risuonare interiormente, ad agire sui nervi.

Ci sono due foto di Vaccari: in una si vedono Man Ray e Duchamp che giocano a scacchi, nell’altra Depero che legge una poesia a Marinetti. Nella prima c’è una frase satirica, dal significato politico. Non la ricordo bene, mi sembra che fosse  qualcosa come ”Duchamp lavora all’eliminazione del lavoro”, perlomeno il senso è questo.

Le sculture metalliche di Fausto Melotti, nella mostra Angelico geometrico, fondono geometrie sospese a un’allure decisamente metafisica, ignorando la pesantezza del marmo, perseguono leggerezze d’oblio. La contraddizione fra materiale usato, perlopiù metallo, e fragilità dell’opera,  conferiscono una vitalità misteriosa all’insieme. Il corrispettivo pittorico di queste figure sospese nello spazio è Mirò, di cui la mostra ospita un paio di dipinti. La mostra di Melotti è una continua corrispondenza, altri autori sono avvicinati alla sua scultura, Giacometti, Calder, Louise Nevelson, per restituirci il respiro internazionale di colui che fu uno dei più grandi e uno dei primi scultori astrattisti italiani. La sua è una scultura aerea fatta di pieni ma soprattutto di vuoti, basata sulla “ modulazione” più che sulla “modellazione” di forme. E’ un dialogo con il vuoto dove però il vuoto è inteso nella concezione taoista. 

Fra le altre assonanze della mostra, rimango colpito in particolare da un’opera di Fontana degli anni Sessanta, Concetti spaziali- la fine di Dio, dove una distesa di porpora è bucherellata, mangiata da  dentro. Che sia ciò che resta di Dio? Una tela bucherellata, un tessuto sbrindellato, che sembra terra battuta, un telo che fa aria da tutte le parti, divorato dalle termiti del pensiero, concetto svuotato crivellato dai colpi mortali dell’Illuminismo.

C’è anche un De Chirico, che con il suo gioco di specchi riflette un interno confuso raddoppiato appunto dagli specchi. L’opera s’intitola Interno metafisico e insieme con Composizione di Carrà e Le poéte di Savinio, chiude la mostra di Melotti, viaggio nell’arte moderna, viaggio dentro una metafisica del vuoto e del pieno, dove tutto si fa segno geometrico che sembra alludere a una dimensione sacrale, Angelico geometrico, appunto.
  
Nella mostra dedicata a Willi Baumeister mi colpiscono soprattutto i quadri africani, quelli ispirati alle pitture rupestri, quelli in cui il pittore raggiunge una rarefazione del segno simile agli ideogrammi cinesi e i numerosi dipinti che ritraggono atleti: tennisti, ginnasti, calciatori. Un quadro in particolare, intitolato Muro bianco del tempio. E’ una distesa di bianco da cui affiorano segni grafici indecifrabili. Emozionante e al tempo stesso freddo e privo di emozioni. Evocativo in chiave zen.

La mostra di fotografie della collezione Trevisan è vastissima e il museo sta per chiudere. Riesco a vedere la stupenda rielaborazione di una foto di Marylin Monroe, cui Bert Stern aggiunge una croce rossa, l’opera s’intitola Crucifix, e ammiro i colori e la composizione della foto di Silvia Camoranesi Studio per Ofelia, ispirata a Dante Rossetti, all’iconografia classica dell’Amleto shakespeariano.

Faccio in tempo a vedere che è presente anche la celebre foto di Tazio Secchiaroli di un episodio del jet set romano ai tempi della Dolce Vita, foto simbolo di quell’epoca. Di Diane Arbus mi colpisce un volto qualsiasi, deformato, quasi spettrale e comico in maniera sinistra nella risata fra lo scanzonato e lo schizofrenico.

Ci sono foto di Nan Goldin, Robert Mapplethorpe, Cartier Bresson, Vanessa Beecroft; Marina Abramovich, Francesca Woodman  e altri.  La mostra di fotografia meritava un più lungo sostare. Ne riporto a casa frammenti e me ne dolgo.
  
Un’ultima annotazione, le sale sono collegate da una sorta di tunnel in cui appaiono delle scritte, voci della memoria, che ti sorprendono durante il percorso. E’ un serpente di parole che si srotola davanti ai nostri occhi. La sensazione è che più che parole scritte, siano vere e proprie voci, che risuonano nella mente.  
 Anche questa è un’opera emozionante, purtroppo non ricordo il titolo né il nome dell’autore. Con la consapevolezza di non aver preso abbastanza appunti, lascio il museo.



Nell'ora della cenere - Giovanni Raboni

sabato 22 settembre 2012





                                                                                                            “Nell’ora, ormai, della cenere/ a pochi passi il corso brulicava/ di commerci frenetici e ingannevoli/ e di delitti consumati in sogno (…) ”
 Giovanni Raboni

Nella collana di poesia del Corriere della Sera esce l’antologia Nell’ora della cenere,  curata da Patrizia Valduga,  occasione per rileggere e meditare il  lascito poetico di Giovanni Raboni, uno dei poeti e critici più influenti della seconda metà del Novecento italiano. Patrizia Valduga - che fu sua compagna per gli ultimi vent’anni di vita, oltre a essere una delle poetesse più importanti della scena attuale - nell’introduzione riflette soprattutto sulla necessità di rivedere certe interpretazioni della poesia di Raboni.

Si è sempre parlato, infatti, di lingua piana, di linguaggio colloquiale, di understatement, Valduga si sforza di riconoscere alla sua poesia altre dinamiche fin qui sottovalutate.  C’è del vero in ciò che scrive la poetessa, il linguaggio di Raboni non è sempre riconducibile all’understatement, alla minimizzazione, talvolta sembra erompere come un grido. Sostanzialmente però la mia impressione è che Raboni fosse soprattutto un poeta attento a contenersi, a riflettere nelle sue poesie una visione del mondo minimale e priva di retorica, alla ricerca di una lingua essenziale, un poeta il cui impegno fu soprattutto civile, non di rado politico; negli ultimi anni condannò il berlusconismo, considerato sintomo di una drammatica involuzione, di un imbarbarimento dei costumi.  Allora sì che l’indignazione, il grido di orrore e di ripulsa, diventano prevalenti.

 C’ è presente in questi versi  un’inquietudine e un disagio molto contemporanei che Raboni  supera con eleganza formale(belli soprattutto i suoi sonetti) e un tono misurato, che però a volte viene sorprendentemente contraddetto, sminuzzando i dati della realtà e restituendoli attraverso dei flash, attraverso dei frammenti di saggezza addolorata ma mai- mi sembra-  disperata, anche se la vita non è nient’altro,  come si legge nell’ultimo libro pubblicato in vita, Barlumi di storia(2002), un “ vecchio, bizzarro canovaccio/senza capo né  coda”.

L’antologia comincia con poesie che risalgono agli anni Cinquanta, contenuti nella raccolta Gesta romanorum (1967), di cui sono riportate una manciata di poesie, incentrate su una visione moderna della vicenda narrata nei Vangeli.

“ Crocifiggilo/ perché questo è il mandato/ e la stanca vecchiaia s’avvicina”

In queste poesie Cristo è un’ombra, con la sua innocenza vilipesa, con il suo destino tragico, affiorano dunque figure minori come quella del centurione, viene dedicata una poesia all’apostolo Pietro ma sostanzialmente l’antologia ospita troppo poche poesie per farsi un’idea compiuta della raccolta che appare molto stratificata, postmoderna nella scelta di mescolare contemporaneità e antichità.

Nelle successive raccolte il discorso progressivamente si affina e progressivamente Milano, la città in cui Raboni è nato e vissuto, diventa protagonista, con le sue vie, le sue piazze, la sua gente, ma sembra essere una Milano sotterranea, lontana dai luoghi comuni, densa di storia. Perché, come chiarirà in una delle sue ultime raccolte, è soprattutto ”la comunione di vivi e morti” che interessa il poeta milanese, la continuità fra passato e presente.

Milano qui è rappresentata come un luogo in cui il passato è ancora vivo, in particolare il poeta riflette sulla peste che decimò la popolazione, peste che diventa emblematica e di cui la città porta ancora le ferite per cui nei versi finali della poesia Una città come questa Raboni si chiede “non è qui/ che buttavano i loro cartocci / gli untori?”

Sembra che così il poeta lotti per preservare l’identità della città, consapevole però che essa stia svanendo, come nella splendida poesia dedicata a Piazza Fontana, definita” il rimpianto o il rimorso d’una piazza” o  addirittura ridotta a essere non più un luogo ma “nient’altro che il suo nome”.

E’ un’esperienza che chiunque conosca Milano ha vissuto: la sensazione che progressivamente essa sia diventata una città fantasma, in cui come fantasmi ci si aggira fra rovine del passato e brutture del presente. Da qui l’impossibilità di amarla e al tempo stesso l’impossibilità di separarsene, perché il luogo in cui si vive ci entra fatalmente nel sangue e nel respiro. 

La città è una presenza costante, quasi un luogo della mente anche in questi versi d’amore, colmi però di altri sentimenti, la paura, la nausea.
  
“Si raggrinzisce/ la città, perde sugo e odore la sua buccia se solo/ pensassi di lasciarti. Non ci sarà/ posto per camminare. Picchierò la testa contro i lampioni./ La crescita di foglie nei viali una cosa/ che raspa in gola e mi fa vomitare.”

Raboni pare  un poeta di paesaggi interiori, non di paesaggi reali, quando questi ultimi appaiono,(l’invisibile, sconfinata/mutezza del mare)  vengono subito assorbiti, risucchiati e annientati da una consapevolezza tragica, diventano ”surrogato d’eternità “  in un “ tempo dei falsari e dei carnefici”.

Non tutte le poesie di questa raccolta sono felici, in alcune l’intensità si perde, soprattutto certi epigrammi sono un po’ stucchevoli, se non addirittura inutili, e hanno un senso solo biografico (Solo questo domando: esserti sempre / per quanto tu mi sei cara, leggero. /, oppure Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce) e francamente non si capisce la scelta di inserirli. Qualche poesia dà inoltre l’idea che dietro ci sia una mancanza d’ispirazione compensata dal mestiere. Raboni, infatti, sembra qualche  volte supplire con la tecnica a un deficit d’immaginazione.  Comunque i suoi sonetti sono molto belli stilisticamente, anche se a volte paiono tortuosi, eccessivamente pensati, esoterici, forse addirittura artificiosamente ermetici.

 E’ il destino di tutti i poeti, ingegnarsi per sottrarre alla lingua le sue abitudini sclerotizzate, e lasciare solo poche poesie importanti in un mare di cose medie,  a volte mediocri, o comunque al di sotto dello sfavillante mondo che la poesia fa intravedere.

Sostanzialmente però la voce di Raboni s’irrobustisce negli anni, il che è un paradosso perché la mia impressione è che il suo dettato si affievolisca quasi in un soffio. Così la sua ultima raccolta Barlumi di Storia contiene alcune delle sue poesie più belle  e la sua visione della vita si rivela tragica. Egli scruta in uno “specchio oscuro”, umanamente spaventato come tutti dalla morte e dalla malattia, consapevole della fragilità dell’essere umano, le cui domande rimangono senza risposta e inascoltate.  

Un grande ruolo ha la morte in queste poesie, una morte temuta, una morte aspettata, che getta una luce sinistra sui nostri atti.

La visione tragica di Giovanni Raboni acquista così i suoi toni classici, risponde alla nostra richiesta di poesia regalandocene una  scarna, scabra, a tratti persino velenosa, tortuosa, esoterica. E qui sembra aver ragione Valduga, il tono medio e mite è solo una copertura: dietro ci sono grida, sussurri, spaventi.  Nelle cose meno riuscite si  sente il poeta strangolato dall’intellettuale, Raboni perde in energia, perché non abbastanza selvaggio, irreggimentato com’era nelle file dell’Intelligencija borghese.

Si esce dall’antologia comunque  con il desiderio di leggere altro, di approfondire la conoscenza di un poeta che ha segnato in maniera così decisiva, come critico, come traduttore, come poeta, il secolo appena trascorso.   In particolare io personalmente desidero  leggere interamente la raccolta iniziale, Gesta romanorum,  e l’ultima Barlumi di Storia. Di entrambe  ho avvertito la  potenza.
Ecco per concludere la poesia su Piazza Fontana di cui si è scritto, straordinaria nella sua opacità,  che suona così essenzialmente esatta per chi conosca la piazza in questione,  poesia  tratta proprio  da Barlumi di storia:

“Ogni tanto succede
d’  attraversare Piazza Fontana.
Come parecchie piazze di Milano
anche Piazza Fontana
con le sue quattro piante stente
e il suo perimetro sfuggente
come se ormai nessuna geometria
fosse non dico praticabile
ma neanche concepibile
più che una piazza vera e propria
è il rimpianto o il rimorso d’una piazza
o forse addirittura (e non per tutti
ma solo per chi da tempo coltiva
più pensieri di morte che di vita)
nient’altro che il suo nome. “




Verità e letteratura

sabato 15 settembre 2012


In letteratura, per fortuna, non esistono verità assolute ma solo verità relative.  E’ il grande regno dell’ambiguità semantica, soprattutto la poesia. Quando Manganelli dice che la letteratura è menzogna, per me vuol dire che l’immaginazione è al potere. La parola menzogna ha però sempre uno spiacevole retrogusto morale. Con essa io intendo il dominio dell’immaginazione sui cosiddetti fatti, che, a ben guardare, sono soltanto i cascami dell’immaginazione. “Non esistono fatti ma solo interpretazioni dei fatti” scrive Nietzsche.

La verità è soltanto una pietra posta davanti all’uscita del labirinto in cui vaghiamo in cerca di noi stessi.  Quando Verità prende la maiuscola come nel caso del cattolicesimo, io sento la zaffata della putrefazione e come un tanfo di fogna si leva. La Bibbia è letteratura, cioè immaginazione e menzogna. Fare di un’interpretazione di essa la Verità mi sembra antiletterario e addirittura criminale. I paraocchi però permettono ai cavalli di non deviare dal tragitto imposto. Questi paraocchi religiosi hanno la stessa funzione, mi pare, ma persino Dante, per scrivere La Divina Commedia, dovette sbagliare strada. Chi non sbaglia strada mai e percorre la retta via, chi non ha il coraggio di mentire, cioè di affidarsi all’immaginazione, non scriverà mai nulla d’interessante. E oltretutto, dubito assai che possa definirsi vivente.

                                                                                                                                                             


Carmelo Bene, un iconoclasta dietro la macchina da presa

sabato 8 settembre 2012




In limine a Contro il cinema - Carmelo Bene - a cura di Emiliano Morreale - Minimum fax, 2011
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                “Io contengo in me il regista, l’autore, il produttore, il distributore, lo showman, l’addetto alle public relations, tutto. Sono milioni di contraddizioni.
Le accetto tutte, me le assumo. Vedete come la politica diventa di massa?
La massa dei miei atomi. “

Carmelo Bene

Che cosa significa essere un uomo di spettacolo, che però aborre lo spettacolo? O un artista totale in mezzo al suo disfarsi di se stesso? Che significa essere un pensatore acuto, un brillante affabulatore e al tempo stesso disprezzare il pensiero, quando si fa racconto e spiegazione?
Che cosa significa fare film, e disprezzare il cinema?

Troviamo la risposta a queste domande in Carmelo Bene, che i secoli dovranno ora tritare nelle loro antologie. Quei pochi che hanno sensibilità e mente invece con attenzione dovranno esaminare quella lucidità, quel dispendio di sé,  quel folle rigore che  Carmelo Bene ha trasmesso attraverso le sue opere teatrali, cinematografiche, letterarie, televisive.

Così, questo libro d’interviste uscito per Minimum fax nel 2011, Contro il cinema, e curato da Emiliano Morreale, ci dà un’ulteriore prova dell’estrema consapevolezza dell’artista, votato al suo demone, e ci getta un’ulteriore  luce sulle sue passioni, in primis la letteratura, centro di ogni cosa.  Periferico il cinema, periferico persino il teatro, centrale la poesia, centrale la parola scritta. Carmelo era un letterato di razza, possessore di quell’istinto che non ti fa sbagliare un libro, lettore attento e vorace, appassionato amante dei suoi autori morti.

Bisogna essere nati in una certa maniera. Bisogna saper scegliere. Leggere un rigo e poi comprare il libro o no; sbatterlo via. Queste sono fortune che non capitano a tutti, sono state date a Dante, a Shakespeare, sono state date a Cervantes, a Omero. Non si tratta di genio ma d’istinto, di fortuna.”

Ponendosi sempre fuori dalle dinamiche e dalle diatribe del sociale, rivelando la potenza dell’atto totale, stirneriano; ebbro della propria volontà di potenza, individuo puro, allo stato brado, Carmelo Bene arriva a incarnare involontariamente la figura di un pedagogo, di un maestro della gioventù, perché etica ed estetica si trovano qui abilmente contraffatte e brillano di una luce sinistra. E’ un paradosso vero?  Di Carmelo Bene io sento soprattutto l’umiltà di chi ha molto ascoltato, il carisma di chi s’intrattiene con il proprio daimon fino alle estreme conseguenze.

Che cosa ha liberato nell’aria Carmelo Bene con la sua presenza che ancora respiriamo, con le sue deliranti opere cinematografiche, per esempio, dove il delirio però è assunto consapevolmente, non come i surrealisti che si limitano a mimarlo, Carmelo Bene, da grande attore che si fa macchina attoriale,  lo incarna. Che cosa incarna in sostanza? Il proprio svanire, la propria dissolvenza in bianco, la dimensione notturna del negativo, ottenuta con la “sospensione del tragico”.  Per Carmelo Bene, l’uomo e la vita non sono tragici, sono ”ridicoli”, ma alla maniera schizoide di un Céline, nella consapevolezza di un limite ontologico, di un esser nulla, di un blaterare a vuoto.  Qui il comico si rivela per quello che è: freddo, crudele, senza pietà e senza pathos.

C’è dietro un folle rigore, una profonda conoscenza del cinema anche nei suoi aspetti tecnici, e insieme c’è la voluttà del disordine, il gusto del caos, che si declina in una fusione di elementi barocchi e kitsch. Da quest’ apparente disordine emerge però un cinema di grande armonia, dove musiche,  colori, parole acquistano le loro  risonanze alchemiche. C’è soprattutto una conoscenza delle tecniche del cinema e della televisione che i più si sognano, tecnica che diventa linguaggio, contraffazione del linguaggio e suo superamento critico.
  
“ Questo voler dir tutto in un racconto… Che ridere.” dice il protagonista di Hermitage, e allora invece di raccontare, di riferire un testo, frantumare il gesto, per farsi “musica per gli occhi”, così Carmelo Bene definiva il suo cinema, preferendo essere riconosciuto musicista piuttosto che degradato a cineasta.
Tutto viene dalla letteratura, di cui il cinema è un sottoprodotto, com’è un sottoprodotto della pittura.

“Il cinema è nato come cattiva imitazione della letteratura. Io credo che il tempo che uno dedica a vedere un film di Ejzenstein sarebbe meglio usato per leggere Puskin, perché si trova di più e meglio. Perché rifiutare di vedere il bello per vedere il distribuito, il contemporaneo?”

Così nelle parole di Carmelo Bene: “il cinema è spazzatura”  perché “ ha sempre saccheggiato  e scimmiottato le altre arti” come si legge in un altro testo - intervista ,  fondamentale per comprenderlo, Vita di Carmelo Bene,  intervista monstre, intervista fiume concessa a Giancarlo Dotto, libro fondamentale per capire l’intero mondo artistico che ci è ruotato attorno,  diciamo dalla fine degli anni Cinquanta  fino sostanzialmente al 2000, Carmelo è morto nel 2002.

 In quest’altro libro, Contro il cinema, in queste interviste- le più interessanti sono forse quelle concesse alla stampa estera negli anni Sessanta -  si capisce il terribile sforzo di Carmelo per sottrarsi alla stessa forma- intervista, alle temibili tagliole stilistiche rappresentate dall’autore che spiega la sua opera. E’ fondamentale riconoscere che in Carmelo Bene tutto è atto artistico e come tale straordinariamente scrupoloso, anche rispondere a delle domande, così spesso impudiche, prive di scrupoli, e irrispettose nel loro tentativo coercitivo: rinchiudere la complessità in un trafiletto. Del resto è nota l’avversione che aveva Carmelo per il giornalismo e i giornalisti. Così, come sempre, anche queste interviste rivelano il suo genio e la sua  umiltà istrionicamente trasformata anche nel suo contrario. L’umiltà è quella dell’artista che ha come suo interlocutore il genio, cui tende, cosa che però in Carmelo Bene diventa la ricerca di una santità assurda, quasi autistica, a bocca aperta. Qui  tutto è vanità, la letteratura, la cultura, il cinema, la pittura, l’arte, cose che sono nulla rispetto alla beatitudine dell’immediato, alla ricerca di quegli attimi di abbandono che danno senso alla nostra vita, come si legge  in alcuni versi de La terra desolata di Thomas  Stearns Eliot, che sono la sintesi più efficace di quello che cercava Carmelo Bene, soprattutto, ma non solo, nell’opera teatrale e nell’opera poetica, perché troppo spesso si dimentica che l’ultima clamorosa manifestazione  di  Carmelo  è un poema, “‘L mal de’ fiori “. Ecco i versi di Eliot:

Che abbiamo dato noi?/ Amico mio, sangue che agita il mio cuore/ L'ardimento terribile di un attimo di abbandono/ Che un secolo intero di prudenza non potrà mai ritrattare/ Per questo e questo soltanto, noi siamo esistiti(…)”

In queste interviste Carmelo Bene ci rivela anche cosa fosse per lui l’autore:
                                                                                                          
“ Ripeto, l’importante è considerare gli autori di un’opera morti. Perché sono fuori da quell’opera o perché sono autori di altre cose, che stanno pensando, quindi non possono dare nessuna delucidazione sull’opera fatta. La morte dell’autore è la prima cosa, per cui i miei prediletti autori, in pittura, in musica, sono tutti morti. Se io domani, oggi, amassi un contemporaneo cercherei di non incontrarlo e non di incontrarlo”.

Anche per questo Carmelo ha sempre intrattenuto rapporti difficili con la critica sua contemporanea, sovente paraocchiata, desiderosa quasi sempre di inchiodare l’artista a degli stereotipi,  arrivando a definirla inutile:

Ma è l’opera stessa che in quanto artistica è anche critica, e non ha quindi alcun bisogno di essere criticata. In conseguenza di ciò io do una visione critica del Don Giovanni. Il filmato che io presento è la mia critica al Don Giovanni. Ne consegue che la presenza del critico è del tutto superflua. “

Critica dunque che Carmelo Bene ha visto inerente all’atto artistico, che in quanto tale è già atto critico.
A che pro la critica? A che pro cercare “un letto in un domicilio altrui” definizione della critica data da Léon Bloy, che Carmelo ripeteva spesso. Ecco un altro nodo: le citazioni, che Carmelo Bene ha disseminato ovunque, nei suoi romanzi, nei suoi film, nel suo teatro, nelle sue interviste. Citazione come necessità di aprirsi un dialogo nel limbo, in cui s’incontrano Valéry, Huysmans, Santa Teresa D’Avila, Schopenhauer, Rilke, Borges, Gozzano, Shakespeare, Laforgue, Baudelaire, Nietzsche, e gli innumerevoli compagni di viaggio di Carmelo e di tutti quelli che amano la letteratura e la mettono al centro della loro vita.
Già sarebbe sufficiente questa costellazione (di nomi ce ne sono molti altri) per riconoscere a Carmelo Bene la sua grandezza.

Aristocratico perché incline alla solitudine dei libri, egli mostra un sovrano disprezzo per il cinema e le turbe che esso coinvolge. Non bisogna, infatti, fare del cinema ma cercare di fare dell’arte.
  
 “Qui non m’interessa sapere se è buon cinema o no, se è cinema o no. Perché non si tratta di fare del cinema – vivaddio o abbasso dio che sia! – ma di fare dell’arte. E’ questo che conta. E arte vuol dire reclamare se stessi, continuamente.

Ciò nonostante realizza del cinema, o meglio lo fa a pezzi con sistematico rigore. I suoi film non raccontano storie, non intrattengono intorno al fuoco, non sono confezioni hollywoodiane a uso dei gonzi, sono il cinema di un poeta, che sta al cinema come un pesce fuori dall’acqua, che non può che restituirci visioni annaspanti del suo annegare in un elemento estraneo. Così il suo cinema è un cinema di contorsioni, in cui tutto è stritolato o strizzato come una spugna, in cui l’occhio incontra se stesso, e  intuisce un ritmo, una musica, basti pensare al montaggio geniale e serrato del film Salomè, moltiplicazione forsennata di fotogrammi, a preannunciare con più di dieci anni  di anticipo l’era dei videoclip.

Tutto questo realizzato con supremo disprezzo verso il cinema, e oltre a queste interviste penso a quello straordinario scritto intitolato L’orecchio mancante, in cui Carmelo Bene ridicolizza tutto il cinema dei vari Fellini, Pasolini, Rossellini, Antonioni, eccetera,  realizzando loro parodie con un linguaggio dialettale,  caricaturale, sostanzialmente inventato.  Il cinema incarna, nelle parole di Carmelo Bene, un succedaneo, un surrogato della letteratura e fa l’esempio del neorealismo che approdò al cinema diversi decenni dopo Zola, come volgarizzazione di una visione del mondo già logora.

La letteratura dunque al centro, Il cinema degradato a espressione sommamente anti artistica, ”artigianato subumano”, regno del regista e della troupe, dell’“ elettricista che bestemmia”, un colossale spreco di tempo, sostanzialmente teso a giustificare “il ludibrio di un enorme canestro  di pop -  corn da svuotare nel buio”, come dice in un passo da vertigine contenuto in Vita di Carmelo Bene. 

Carmelo ci dimostra cosa è un artista: uno che ingaggia una lotta forsennata contro l’Arte, la demolisce o meglio demolisce tutti i concetti che puntellano quella oscura cosa chiamata Potere. L’accusa contro il cinema è ancora peggiore, non è un’arte, è “la spazzatura di tutte le arti, ” che paradossalmente tendono al cinema che le codifica e le annienta in nome di un gusto medio e mediocre. In fondo per Carmelo Bene l’arte è fallimento, assenza, inciampo, lotta contro lo strapotere della parola, o meglio della sua caricatura vigente, l’opinione, “opinionismo di massa” lo chiamava Carmelo, dove la parola è massacrata, mangiucchiata, risputata.  Questo” opinionismo di massa” si mette a fare film, e ha pretese di arte. In fondo Carmelo, avendo sempre coltivato consapevolmente un’indole da reazionario, non poteva sopportare questa ùbris dei mediocri, questo narcisismo da falliti.

La regina delle arti è comunque la letteratura, la musica al massimo, arti che a Carmelo interessano nelle loro manifestazione eccessive,  che eccedono il mestiere e diventano altro, vita, forse, estasi, abbandono. Il cinema è realizzato raramente da un artista, secondo Carmelo Bene, per cui esso era davvero per lui quel    plebiscito contro il buon gusto“ di cui scriveva Nietzsche, non a proposito  del cinema, ovviamente, ma del teatro. Così Carmelo Bene ha sempre percepito e raccontato l’inutilità dell’arte e della vita, ha sempre mostrato che siamo macchine di un delirio che ci sfugge: il linguaggio.

 Nello straordinario colloquio con Maurizio Grande, abbiamo una profonda riflessione, compiuta da entrambi, sulla tecnica come linguaggio, sulla tecnica che diventa arte. Tutto questo non è, però, mero virtuosismo, è un disfarsi di sé, del mestiere, di tutti i  codici normalizzanti, che rendono falso lo spettacolo e per quel che più conta falsa la vita. Dice Maurizio Grande:

“ Linguaggio dell’eccesso, linguaggio all’eccesso senza contorni di lingua o di codice normalizzante, ma semplice e profonda distensione nel linguaggio, distensione del linguaggio e dell’esperienza estetica, distensione dell’estetico senza luoghi deputati.  

Bisogna perciò temere il potere e le sue rappresentazioni, che paiono negromanzie intellettuali, coercizioni straordinarie della libertà di pensiero e di espressione. Carmelo Bene sintetizza tutto questo nel suo cinema, nelle sue opere televisive.  Per esempio, nell’Amleto realizzato per la Rai, dove intuizioni tecniche (eliminare i grigi, sacrificare la scenografia,  considerata un arredo inutile e un intralcio dell’occhio, limitarsi a suggerire un ambiente, eliminare i campi medi) diventano maschere di una esautorazione del senso, come supremo codice normatore. Tutto questo è criminale, nelle parole di Carmelo Bene, l’arte è un attentato alle venerate istituzioni della cultura. Non bisogna però fare di Carmelo Bene un semplice dissacratore, egli ci restituisce Shakespeare o Oscar Wilde perché li reinventa, li tradisce, li critica e non ne fa lettera morta da trasmettere come una reliquia. Cogliendone la modernità getta Amleto, Otello o Salomè, nel calderone di una sensibilità che non si può neanche definire nuova, perché è antica come il teatro. Come sempre, Carmelo ci racconta la lotta segreta fra arte, delinquenziale e inutile, e potere, normativo e oppressivo.

“ Arte e criminalità. Contro il padronato dell’arte e per l’artigianato. Come nel Rinascimento. Amleto è un criminale. Non ci può essere arte che non sia delinquenziale. E’ giusto che l’arte poi sia sconfitta com’è giusto che entri alla fine quel Fortebraccio senza testa che è il potere.”

Nessuno come Carmelo, e si capisce anche da queste interviste, ha perseguito con rigore, con follia, con amore, direi, la sua visione, e di essa ha fatto il centro dei propri atti e del proprio respiro.
Quello che questa raccolta d’interviste comunica è in fondo la visione di un letterato, che si trova a fare cinema, che polverizza il cinema, la visione di  un iconoclasta dietro la  macchina da presa,  che  ha  sempre sostenuto l’ inferiorità del cinema rispetto alla letteratura, la sua mediocrità di ipnotico per folle un po’ rimbecillite.

 Cinematografico Joyce, cinematografico Gozzano, questa sostanzialmente è l’idea di Carmelo Bene. Da un iconoclasta non potevamo aspettarci diversamente: il cinema è in fondo, in gran parte, il regno delle banalità e del conformismo. I film si assomigliano tutti, degradati, agli occhi di un artista totale come Carmelo, dal culto della trama. Non c’è trama o racconto possibile per Carmelo Bene, non ci sono idee, non c’è contesto, non ci sono tutte le rassicuranti e consolatorie codificazioni del cinema.

I suoi film sono importanti anche per questo: perché distruggono tutte le illusioni cinematografiche, personaggio, trama, conclusione, messaggio, tutto quel paesaggio di luoghi comuni che il cinema ha preso dalla letteratura.   I suoi film non iniziano e non finiscono, sono il risultato di una nausea per l’immagine così sottile da avere connotazioni filosofiche fuori dal comune. Soprattutto è la modernità dell’insieme che colpisce, modernità come reinvenzione costante, accompagnata da una critica spietata,  dei suoi stessi miti, in cerca del loro annullamento. La cosa è davvero radicale, il linguaggio stesso è radicalmente contestato, sia esso letterario, cinematografico, teatrale, pittorico, televisivo, è sempre un’incudine del Potere sopra il nostro capo. E allora bisogna rovesciare i codici, laddove gli altri fanno un racconto più o meno edificante, Carmelo irrompe con l’urgenza selvaggia della poesia e il risultato è di trascrivere lo smarrimento dalla pelle dell’attore - autore fin sulla pelle dello spettatore - voyeur.

Per Carmelo Bene tutto tende alla pagina bianca, in letteratura, e alla dissolvenza, nel cinema, annullamento dell’immagine attraverso la sua moltiplicazione.
Non si tratta di cinema, in fondo, non si tratta di teatro filmato, non si tratta neanche di letteratura per immagini, è qualcosa d’irripetibile e mai visto. E’ semplicemente Carmelo Bene.

“Si tratta di scantonare a un padronato, a una verità qualunque, a un padrone qualunque, all’andare a braccetto di arte e potere. Perché l’arte sia sconfitta se diventa padronale. Perché sia battuta se si incorona di niente, di quel niente che è il potere. “