Diario I

sabato 28 dicembre 2013



Si è ingenui nel ricercare un consenso, un riconoscimento. Soprattutto nel campo della letteratura, evanescenza solenne, mistificazione da Circo, aleatoria, casuale, folle. Che cosa vuoi,  la pacca sulla spalla? La medaglia al valore?  Per aver fatto cosa? Per aver seguito il demone dell’immaginazione? Lo dice bene William Carlos Williams in “Kora  all’inferno”: “L’immaginazione essendo nulla, nulla ne sortirà.” Questa è la norma. Eccezionalmente nasce un Dante, uno Shakespeare, un Omero, che sfidano i secoli. Saranno consegnati anche loro all’oblio un giorno, foss’anche fra un milione di anni. Gli altri, poeti, giullari e simili saltimbanchi, l’oblio lo vivono nella carne; conoscono l’indifferenza delle orde cieche nella metropolitana milanese, come me, per esempio. Che fare? Cantare, cantare. Sull’orlo del precipizio, con la ghigliottina che sta calando. Opporre la ricerca della forma all’insensato del tempo.  Combattere perché un fiore possa dire la sua, nella cacofonia dell’esistenza contemporanea.  Perché  l’enigma vince. La poesia lo sa.

Storia di bambole - una poesia da "Sotto una luna in polvere"

martedì 24 dicembre 2013





                                                           “La potenza del femminile è dunque quella della  seduzione.”

                                                                                                          Jean Baudrillard

Quante verità sotterranee
giungono alla luce serale
di questo blues, dove
si spartisce la notte con ninfe,
dal cuore dolorato e la mente
un fiocco di neve.
Nate dentro l’incanto
di un azzurro sfregiato
dimentica progenie di sole
e ideogramma del buio;

vi giungono suoni animali
cosa fanno alla vostra mente?
liquida come linfa e saliva,
sporca di sangue e spellata:

“ Noi ci ritiriamo, scompariamo,
siamo le nate dissolte.
Alzarci e danzar non possiamo,
sulle nostre bocche cucito
 l’urto tra nascita e morte.
La nostra felicità è un giaguaro,
che si lecca una ferita
 e una  foglia di tabacco,
che si macera al sole”.

Sognano e cantano il vero oblio,
sognano il silenzio di un pianeta deserto,
cantano l’assurdo o lo predicano
come risposta ai problemi del senso,
con gli occhi stracolmi di nascita,
la loro anima è un problema scenico,
un atteggiamento di seduzione calcolata.

Ettore Fobo


                                                                                                          Febbraio 2008

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La poesia è tratta da" Sotto una luna in polvere" di Ettore Fobo (Kipple Officina Libraria 2010). Disponibile anche su Amazon in formato ebook e su altre librerie on line.

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Buon Natale a tutti. 






Una poesia di Angelo Maria Ripellino

sabato 21 dicembre 2013



“Astres! Je ne veux pas mourir! J’ai du génie!”
Jules Laforgue, Éclair de gouffre



Sonare su un violino in fiamme
una mia seguidilla,
prima che cada il sipario come una ghigliottina.
Mi piace il fragore, il bailamme,
ma la mia vita arlecchina,
veliero viluppo di stracci,
con la sua gracile chiglia
si impiglia in un groppo di ghiacci.
Avanzare con grandi falcate di goffa pavana,
gonfiarsi come una rana.
Riempire di propri scartafacci la stiva,
sognare che il nome
fra tanto oblio sopravviva.
Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla.
O vita, o Hanna Schygulla,
sciantosa di varietà, sulla riva
del Nulla.


Angelo Maria Ripellino

*
da  “Dopo la lirica. Poeti italiani 1960- 2000”  – a cura di Enrico Testa - Einaudi - 2005.

Il tipo Rimbaud

sabato 14 dicembre 2013





Sopra: Arthur Rimbaud in un disegno di Pablo Picasso
*  
“Je est un autre
“Io è un altro”
Arthur Rimbaud
Penso che la condizione dell’artista sia perlopiù drammatica e aspirare a esserlo cosa vana. Se penso all’artista mi viene in mente la definizione che ne dà Ceronetti: “Colui che porta in sé la pena di tutti” (in realtà,  mi sembra di ricordare, sia una definizione  del poeta, l’artista più squalificato di tutti).  Per William Butler Yeats tutti gli artisti agiscono la ”lotta della mosca nella marmellata”.  Riesco a vedere nella figura dell’artista solo uno che si dibatte fra il “desiderio di non lasciare tracce” di cui scrive Baudrillard e un certo desiderio di immortalarsi, cioè di imprimersi nella memoria dell’umanità,  che si può tradurre  nella fantasia di essere più reale da morto, come ricordo o leggenda, che da vivo. Perché così funziona il mercato dell’arte,  dove un pittore morto è un “business”, così funziona la mente, che tende a esaltare quello che non c’è più, a mitizzare il passato.
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Fra i poeti quello che si avvicina di più a essere un mito per me è Arthur Rimbaud, icona del grido dell’adolescenza, grande visionario, viaggiatore - camminatore instancabile, davvero “uomo dalle suole di vento”, come nella celebre definizione data da Paul Verlaine.  Per essere un mito non gli manca nulla, capro espiatorio in gioventù ribelle, che fornisce la più esatta lingua del delirio al suo secolo, frenetico viaggiatore come alla ricerca di un impossibile Graal mentale, e in età adulta arido mercante, ingranaggio di un meccanismo, ostaggio del deserto, che parla solo di rendite e molto prosaicamente vuole “farsi una posizione”.  Davvero il viandante e la sua ombra, come aveva scritto Nietzsche, l’uomo ottocentesco e la sua ombra, e insieme il mostro dentro il labirinto, Prometeo che ruba il fuoco agli dei,  l’artista moderno.
Talvolta egli può creare, come fece Rimbaud, la propria nemesi, il suo desiderio di alterità lo porta a fondersi con la propria ombra. Quale abisso fra un poeta e un mercante, che probabilmente mercanteggiò anche in  armi?

Eppure Rimbaud li incarna entrambi.  E’ insieme il grido di rivolta e il rumore di un cingolato che schiaccia la rivolta. Egli racconta la lacerazione in cui viviamo noi uomini del futuro. Ci anticipa sul terreno della creazione artistica, vede dentro il nostro abisso mercantile. Sceglie la via del deserto africano e si desertifica intimamente.  Suo unico desiderio garantirsi una rendita che lo liberi dal  dover lavorare. Per questa rendita impossibile si massacra di lavoro. Lui che nei suoi versi aveva condannato il lavoro, sia quello manuale, sia quello intellettuale, e aveva gridato: “Non lavorerò mai”.

Per Henry Miller il tipo Rimbaud avrebbe scalzato il tipo Amleto,  avrebbe incarnato meglio il nostro disagio contemporaneo. Miller intendeva il primo Rimbaud, poeta e veggente, folle e sinistro, visionario e lucido nel suo gridare nel deserto francese, nel deserto europeo, radicale nella sua condanna di un certo mondo borghese. Il tipo Rimbaud, però,  cova l’ombra della sua metamorfosi. Così Arthur Rimbaud è ancora più folle e sinistro perché ci ricorda che nel profondo di noi stessi si trova qualcosa  come la nostra negazione, la nostra nemesi, la maschera che non vogliamo indossare e che talvolta inspiegabilmente ci troviamo sulla faccia. Auden lo chiama “antitipo”, Wiliam Butler Yeats l’”anti sé”. E’ il nostro doppio, l’angelo che veglia sui nostri atti demoniaci, il demone che sovraintende le nostre pulsioni angeliche.

Rimbaud e il suo doppio, l’altro, come nel suo enigmatico verso: ” Io è un altro”. Ecco è così: si diventa un mito a forza di esalare enigmi. Che cosa triste se Rimbaud si fosse spiegato, chiosa Cioran. Lautréamont è stato ancora più radicale: è svanito. Della sua morte in giovane età non si sa nulla.  Rimane qualche lettera, il suo capolavoro Canti di Maldoror, il certificato di morte, e un altro libro stranissimo, intitolato laconicamente Poesie. Sia per Rimbaud sia per Lautréamont a vincere è il mistero, la sfinge dalla lingua molto più che biforcuta che è la loro poesia.

Venere privata - Giorgio Scerbanenco

giovedì 5 dicembre 2013






Ultimamente il Corriere della Sera ha un’intensa, ricca, a tratti stupefacente,  congerie di attività collaterali al giornale. C’è stata la splendida collana di poesia,  curata da  Nicola Crocetti, la bella iniziativa di graphic journalism, l’interessante collana di autrici femminili, curata da   Dacia Maraini,  e ora approda nelle edicole una riedizione di trenta romanzi di uno scrittore che a suo modo ha segnato un’ epoca, soprattutto come autore  di gialli e di noir: Giorgio Scerbanenco. E’ un autore che desidero leggere da tempo e che non ho affrontato ancora, perché non ho trovato mai suoi libri in giro, pur cercandoli,  l’iniziativa del  Corriere colma così un vuoto.

Il primo romanzo pubblicato  è “Venere privata”  che risale al 1966. E’  anche il primo in cui compare il personaggio simbolo di  Duca Lamberti, medico radiato dall’albo per aver compiuto un’eutanasia con un’ iniezione su una paziente terminale.

Duca Lamberti è  per quei tempi un personaggio innovativo in ambito della letteratura noir ma a suo modo  è il classico antieroe,  in questo romanzo si trova a indagare, suo malgrado, nell’oscuro mondo della prostituzione milanese.

E’ un romanzo interessante  con una scrittura limpida, con la sua durezza di testimonianza della Milano anni ‘60. Non vorrei svilirlo definendolo solo  interessante, si tratta di un bel romanzo, che funziona abbastanza bene ma che denuncia alcuni limiti. Se i personaggi sono credibili e affascinanti, alcuni aspetti della trama mi hanno lasciato perplesso. Trovo che le motivazioni con cui alcuni personaggi (oltre a Duca Lamberti, penso a Livia Ussaro) si gettano sulle tracce degli assassini  e degli sfruttatori sessuali, siano  un po’ vaghe, sembra che non valgano il rischio.  E’ che,  in fondo,  Venere privata, anche se lo dissimula,   è un romanzo di eroi ed eroine, di atti di sacrificio, di dedizione alla causa della giustizia, in cui viene iniziato un ciclo e si ha la sensazione che in sé sia  come una prova generale, un preludio. I romanzi dedicati a Duca Lamberti sono,  infatti, quattro. La fama internazionale arrivò per Scerbanenco proprio grazie a questi romanzi.

Quella che emerge prepotentemente è Milano, la  Milano degli anni ‘60,  nella topografia delle sue strade, nella crudeltà del suo anonimato, nella durezza ferita dello stesso personaggio principale, Duca Lamberti, che viene coinvolto nella vicenda perché deve,  da medico, sebbene radiato dall’Ordine,  aiutare un ragazzo a smettere di bere. Lamberti ci metterà poco a capire che questo ragazzo,  Davide Auseri,  nasconde dentro di sé l’ombra di un segreto.

La sensazione,  però,  è che la trama scorra via in un lampo, dietro “Venere privata”  si intuisce la necessità  di un romanzo più corposo,  che sviluppasse più in profondità i personaggi. E’ il capitolo primo di una quadrilogia e in quanto tale è fisiologicamente monco.

I luoghi sono emblematici, dalla periferia di Rogoredo a piazza Piola, da via Verdi a piazza della Scala, Milano è fotografata con una minuzia quasi ossessiva e pare in fondo un luogo spettrale, notturno, gelido, perché Scerbanenco indaga dentro l’oscurità della prostituzione, dove si muovono personaggi che fondono la più mostruosa crudeltà alla perversione sadica, mettendo la propria psicopatologia  al servizio della Mafia, che organizza lo sfruttamento della prostitute con precisione scientifica.  

La Venere privata del titolo in fondo non può esistere: cioè la figura di una prostituta occasionale, che agisce da sola, senza essere cooptata da un struttura organizzativa delinquenziale.

Il romanzo si esalta nella  ricostruzione di una Milano di notte che ha una  notevole profondità onirica. Oltretutto“ Venere privata”  viene letto con avidità perché la storia funziona, lascia gioco forza nella mente come l’impressione di qualcosa di incompiuto ma anche la sensazione che Giorgio Scerbanenco sia un autore da leggere e che la sua idea di realismo sia una visione della letteratura che può essere ancora attuale e,  per quel che più conta,  raccontarci l’umanità nelle sue lacerazioni.  A suo modo, egli è sicuramente un classico e  questa collana del Corriere, ben curata  anche graficamente,  con una bella copertina a firma di Iacopo Bruno, può essere vista come la sua consacrazione postuma a più di quarant’anni dalla morte avvenuta nel 1969. Unica nota negativa, almeno per il momento: la mancanza di un apparato critico, che contestualizzi l’opera di Scerbanenco, e ne cristallizzi  le linee guida. C’è in questa prima uscita, però,  oltre al romanzo, un scritto autobiografico molto interessante dello scrittore e in fondo  è più giusto iniziare così.