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I sonetti a Orfeo - Rainer Maria Rilke

sabato 14 aprile 2012


I sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke furono completati nel 1922, anno capitale nella storia della letteratura, poiché in quell’anno videro la luce anche La terra desolata di Thomas Stearns Eliot e Ulisse di James Joyce. E’ un testo dedicato a una ragazza morta, e dunque si configura come un monumento funebre in versi, un complesso e affascinante scritto in cui il poeta si commisura con il mito di Orfeo e cerca con lucidità di mostrarne l’attualità extratemporale e metastorica.

Lo sforzo di Rilke è quello di recuperare una dimensione di pura trascendenza, dopo l’eclissi del paganesimo e la morte di Dio, egli si propone di creare una realtà in cui il divino si presenta sotto le forme del canto, della poesia, della danza.

Afflitto dalla caducità, Rilke tenta la via dell’inno, in cui la consapevolezza della morte e dell’umana fragilità davanti ad essa è superata dall’irruzione di qualcosa di superiore, che il poeta identifica con la figura di Orfeo e con la dimensione del canto che egli incarna.

Rilke si muove in questi versi come in una calcolata ebbrezza, con una tranquilla estasi, restituendo al lettore la fascinazione per tutto ciò che diviene e scorre e pure permane come residuo di sacralità incontaminata, più forte della morte.

” Siamo in corsa incessante./Ma il tempo che avanza,/vedete, è solo un breve passo/ in ciò che eterno resta.”

E’ un tentativo importante, decisivo, uno degli esiti più alti del Novecento, che colpisce soprattutto per la potenza del dettato, colmo di stupefazione e di sensibilità filosofica, in cui le riflessioni sono rese attraverso immagini efficaci, dense di presagi e di echi, in cui l’orizzonte estatico del canto è avvertito come il luogo di una vera palingenesi, giacché qui sin dal primo sonetto tutto è “inizio, cenno, mutamento”. Sebbene effimera, l’esistenza pare essere uno scrigno di straordinari tesori, che il poeta ha il compito di illuminare per un momento, con procedimento simile quello della mantica apollinea, attraverso fulminanti intuizioni, la cui ambiguità rende il testo ricco di sfumature, e ne esalta la tensione all’indicibile, a una dimensione di pura contemplazione. Bella la traduzione di Sabrina Mori Carmignani, nonostante non ci restituisca l’ordito delle rime, rimane come traccia di questa straordinaria tensione al sublime.

Quello di Rilke fu un percorso angoscioso, egli sentiva acutamente il dolore per la caducità- celebre a proposito uno scritto di Freud in cui il padre della psicanalisi narrava di un suo incontro con il poeta e della tristezza di questi davanti alla precarietà delle bellezze primaverili- nei Sonetti a Orfeo Rilke formula uno straordinario superamento, mettendo al centro della sua scena interiore la potenza salvifica del canto, come luogo in cui l’esistenza risplende, oltre e a dispetto della morte.

Rilke mostra “la natura pulsante dell’essere”, e loda “lo spirito che ci sa unire” la sua è un’ebbra celebrazione di forme e figure, in una dimensione in cui anche “il legame tra le stelle è inganno” egli cerca la parola che sappia fondere la frantumazione dell’esperienza umana in unità.

La conclusione è positiva, lo sforzo del poeta è premiato, anche se tutto è congedo e partenza, il fondo immutabile dell’essere continua a pulsare nel canto.

Orfeo è la figura che tiene insieme i frammenti sparsi dell’universo e li redime poiché “Tutto ciò che accade si fa puro/ quando sereno lo spirito lo accoglie.”

Ed è proprio la serenità apollinea di questi sonetti a dar ragione a Rilke, nel suo tentativo di superare l’angoscia della caducità e mostrarci anzi la potenza del divenire e della trasformazione, giacché “noi ora siamo creature in ascolto, una bocca della natura”, il canto si configura come la realtà suprema in grado di riscattare l’essere umano ed elevarlo alle altezze della divinità. “Solo il canto sul nostro orizzonte/ è festa e salvezza.”

Non ci resta che ammirare il sublime congedo, con questi versi definitivi, Rilke compie il suo periplo intorno alla figura di Orfeo:

"E se il mondo ti dimentica,
tu dì alla terra immobile: io scorro.
Alla rapida corrente: io sono. "

Perché il regno di Orfeo è duplice: scorrere e restare, divenire ed essere, canto e ascolto, diventano un tutt’uno.