Una poesia di Kate Tempest

domenica 25 novembre 2018



Scuola

Entriamo a scuola, bambini felici;
gentili, svegli e interessati nelle cose.
Non sappiamo ancora niente degli orrori di quell’edificio.
L’odio che insegnerà. La noia che apporterà.

Ben presto impariamo a scomparire in pubblico.
Impariamo che cavarsela è già abbastanza.
Impariamo come ci si sente ad assistere a un’ingiustizia,
e tenere la bocca chiusa in caso toccasse a noi.

Impariamo a non pensare mai, ma  a copiare ciecamente.
Ad allearci con i cattivi e a tenerli a portata di mano.
Impariamo a non dimostrare talento o d’essere in gamba,
oltre alle lezioni della massima importanza
per avere successo e fare carriera:

come eseguire gli ordini quando si è sull’orlo
della nausea, annoiati e
insicuri e annichiliti dalla paura.
                                                                              ***

da Hold your own/Resta te stessa – Kate Tempest – traduzione Riccardo Duranti - edizioni e/o

Il Libro del dialogo - Edmond Jabès

domenica 18 novembre 2018






La parola della poesia è sempre una parola misteriosa, perché è indubbio che essa affondi in quel sostrato di noi, dove siamo colti dalla vertigine dello spaesamento e ci scopriamo soli,  esuli, sradicati, estranei perfino a noi stessi. Allora sorge, come testimonianza e mai come mera comunicazione, come generalmente si crede, questa voce altra, questa voce ombra che noi chiamiamo poesia. Testimonianza che più di un poeta, fra tutti ricordo Bonnefoy,  ha voluto immaginare affidata a una bottiglia fra le onde del mare, messaggio per nessuno che solo per caso arriva ad essere ascoltato talvolta da qualche naufrago. Quelle che sonda la poesia è una zona pericolosa in cui sorge enigmatica la figura di uno straniero, che Edmond Jabès ha così bene approfondito in tutta la sua opera.

Anche in questo Libro del dialogo, tradotto e curato, per la casa editrice Manni, da Antonio Prete, e uscito nell’ottobre del 2016, la scrittura approfondisce il tema dell’estraneità, meravigliandoci con una girandola di paradossi che hanno la naturalezza meravigliata di rivelazioni.

Libro più che meditato, dolorosamente scolpito in frasi brevi, aforismi o brani più lunghi ma sempre attraversati da quella passione per la sintesi estrema, la densità concettuale che fa di Jabès un grande interprete della poesia in prosa del Novecento.  Egli esplora il deserto della scrittura consapevole che noi, come esseri umani ”abitiamo solo la nostra perdita” e che ogni libro scritto naufraga nella sua stessa tragica ineffabilità di frammento di un più vasto Libro, che forse è solo il silenzio in cui tutto si cancella. Difficile scrivere di un libro così fortemente ellittico che fa del silenzio più che del dialogo il suo cuore pulsante, libro archetipico in sommo grado.

Sue figure oltre il dialogo e il silenzio, il libro, il deserto, l’oblio, la parola, l’interrogazione,  l’assenza e Dio, questa assenza al cubo, i quali con leggerezza vagamente ipnotica fluttuano in questo testo  per costituire l’ennesimo frammento di un’opera, quella di Jabès, che continua a interrogarci sui grandi temi dell’esistenza.

Ammiriamo così’, in questo libro originariamente uscito in Francia nel 1984, nitida e sorniona, la voce di un classico. Se il libro dura soprattutto nel momento in cui qualcuno tenta la via della sua decifrazione,  esso è un dialogo fra estranei che si richiude subito nella solitudine originaria, perché noi “siamo gli eredi di una parola orfana, errante, esiliata, una parola che invano abbiamo cercato di dominare[…]”

Lo stratagemma retorico è immaginare una terza persona che parla al posto dell’io, per preservare l’oggettività del dettato ed evitare le trappole del monologo, dunque voci anonime di saggi, di persone non identificate si affollano: “ Diceva anche<Forse si scrive soltanto per poter salvare qualche parola dall’incendio che cova in noi.  >”

Così Jabès diventa colui che, forse più di chiunque altro nel Novecento, indaga il mistero stesso della scrittura:” Abbiamo scritto, diremo un giorno, sull’ondeggiante superficie di un soffio”.

Si parla e si scrive sempre attraverso una ferita la cui causa ci rimane ignota ma che sappiamo essere all’origine stessa della nostra vita. Il paradosso è che più la scrittura si silenzia, diventa incomprensibile mormorio,  più riesce a esprimere al meglio il pensiero nascosto dell’autore, che forse coincide con un dichiarazione di vuoto fatta in faccia a un universo indifferente.
Storielle quasi  zen, un ricorso alla mistica della cabala, la persistente presenza di maestri il cui insegnamento è disimparare e la cui ambiguità è assoluta, fanno di questo libro una ricognizione nei territori di una poesia tanto più misteriosa tanto più pare  lapidaria. La scrittura buca il silenzio e proclama che la mancanza è origine.

Ecco dunque una poesia del vuoto come evento cosmico più che quotidiano, una poesia della ferita che parla e del deserto che chiude tutto in un inesplicabile silenzio, perché se la parola è un’onda che si frange sulla spiaggia,  noi ne decifriamo soltanto una piccola parte di schiuma. Così Il  Libro del dialogo è un libro del silenzio e dell’impossibilità di decifrare noi stessi e l’altro che siamo per noi stessi.