L'impuro folle - Roberto Calasso

sabato 20 novembre 2010


L’impuro folle è un libro stranissimo- già è complessa la sua definizione, romanzo? saggio? parodia?- Calasso ultimamente per alcuni suoi lavori ha usato il termine”narrazione”- e si configura come un’operazione di destrutturazione dei generi, con inserti poetici, che fanno da coro a quella che è un’immersione dentro uno dei deliri più discussi nel secolo scorso: quello del presidente di corte d’appello Schreber. Scrivere sull’orlo di una psicosi, per vederla attraverso la lente della letteratura e non solo quella della psichiatria, attraverso la lente della mitologia e non esclusivamente con quella della psicologia, ecco cosa fa Calasso in questo testo pubblicato originariamente nel 1974.

La mitologia dello psicotico passa per essere una questione personale, Calasso mostra invece i profondi echi universali che sono alla base di quelle che potrebbero parere solo farneticazioni, da qui le stranezze della sua prosa, ricca di riferimenti culturali quasi esoterici, per iniziati. E’ di tipo iniziatico pare la follia del presidente Schreber, che sul finire dell’Ottocento si trovò ad assistere alla “lacerazione dell’Ordine del Mondo”, vale a dire all’irruzione di un principio femminile nell’ ordito della mente. Freud ne studiò il caso e a partire da esso fondò la sua teoria sulla paranoia. E Freud è uno dei personaggi del romanzo, insieme allo psichiatra Flechsig, che si occupò del presidente, il cui delirio lo porta ad avvertire in sé la progressiva trasformazione in donna, “donna fottuta”, dentro una complessa architettura di significanti religiosi, in una insensata proliferazione di doppi, per cui anche Dio si sdoppia- come nella religione di Zoroastro - , in Ormuzd, principio positivo e Ariman principio negativo. Dio che per secoli nella mente di Schreber ha avuto contatto solo coi cadaveri e successivamente ha scontato una terribile attrazione per il vivente, Dio che viene assassinato come nella profezia nicciana, ma che non smette da morto di subire la sua fascinazione per il vivente.

La prosa di Calasso registra le pulsazioni dell’insondabile, operando una costante contaminazione fra i linguaggi, mescolando citazioni di Rimbaud e Nietzsche a considerazioni di anatomia, mitologia, esoterismo, mischiando le lingue, latino, greco antico, francese, tedesco, inglese.

La materia è oscura come la mente, colta all’apice della sua disintegrazione, se il mistero della follia è il terreno in cui germoglia la letteratura, Calasso non è una guida dentro il labirinto, ma il labirinto stesso, lo smarrimento e lo sgomento sembrano essere i suoi messaggi.

Romanzo metafisico, L’impuro folle è un’avventura dentro il segreto della mente, sembra nascondere in sé spazi di ermeneutica non soggetti ad alcuna disciplina; così lo psichiatra Flechsig, pur essendo forte della sua scienza, non può che fare un oscuro riferimento all’anima, Freud delira quanto il presidente Schreber, ma il suo delirio non si chiama follia, si chiama verità scientifica, per cui l’analista sembra essere il doppio del paziente, e la sua scienza caricatura del delirio. Assistiamo così agli “ultimi giorni dell’Io”, al dispiegarsi di forze occulte, mentre il “malato di nervi”assume la forma di Sophia Gnostica, divenendo un essere mitologico che vaga per il mondo incontrando esseri femminili stravaganti, schizofrenici riuniti in pittoreschi club, e addirittura Tiresia, condannato come lui per aver rivelato un frammento del grande segreto del femminile.

Il testo è una variazione esoterica sul tema di Dio, degli dei, dell’eterno femminino, un volontario ensemble caotico di misticismo, follia, razionalità, dove però tutto sembra precipitare in farsa, a tratti gioiosa, a tratti cupa, sempre indecifrabile, perché se tutto si sfalda, se l’ordine del Mondo si è lacerato, non rimane che una materia vischiosa e forse avvelenata: la letteratura, che smette di interpretare la follia e si confonde con essa.

Sulla poesia come trascendenza e mistificazione

domenica 14 novembre 2010

“Il compito dell’arte è mettere caos nell’ordine”.

Theodor Adorno

1

Questa minuta accozzaglia di pensieri che si affollano, nubi su un precipizio, rettili in preda all’ozio, esiti di scatenamento, intraducibili si sottraggono alla scrittura, che vuole mistificarli, renderli opera, illusione degli autori, essere artefici e non semplicemente e più modestamente veicoli di un’altra voce che dice: Libera il tuo caos.

2

C’è un suggeritore occulto dentro l’orecchio di ogni poeta, direi di ogni artista, forse un diavolo che si finge angelo per ammaliare, un sicuro mentitore per diletto. Questo suggeritore, spesso inascoltato, è l’interprete privilegiato dei nostri labirinti, ma essendo un grande mistificatore, un mitomane, cioè un raccontatore di storie, è un pericolo, perché in realtà non è che una messe di voci, le quali nel profondo ci svelano la nostra originaria frantumazione. Bisognerebbe dare voce a una tale moltitudine che l’autore deve proprio essere sommerso, sparire, come ha mostrato Andrea Zanzotto, per esempio, ne Gli sguardi i fatti e Senhal , dove un florilegio di voci irrompe per mostrarci il collasso di ogni soggettività. Insomma il centro non tiene più, la struttura barcolla, forze inaudite sorgono dall’inconscio, per destabilizzare e incantare.

3

Al poeta, questa creatura votata all’oblio, piace intavolare discorsi col mostro supremo, con lo specchio, in cui si vede moltiplicato e immensamente colmo di moltitudine. Prendiamo Whitman, nello specchio come Dioniso egli non vede sé, ma il mondo, come uno spettacolo estetico ed estatico. Ma per il poeta l’estasi è preclusa, può solo farne caricatura. Ebbro della sua adolescenza, e del suo divenire credo che questo strano genere di artista sia davanti a un tempio in cui non può entrare, in cui intravede forme, intuisce gemiti, avverte musiche. Vuole la trascendenza, vorrebbe creare dei, mitologie, e al tempo stesso dilaniarle, farle a brandelli, sì, oggi è più portato a sfondare religioni e cha a fondarle. Ma storicamente sono i poeti che creano gli dei, di cui poi si impadronisce la burocrazia sacerdotale.

4

Bisogno aver conosciuto il dolore e l’annientamento, per preservare l’intuizione vitale del caos di forze che si volle sottomettere a un io. Bisogna avere sofferto e trasformato il dolore in eco della nostalgia. Perché quando comincia ad apparire all’orizzonte la maturità, con il suo “infame buon senso”, l’ottusa maturità che da giovani avevamo, eroici e ridicoli, disprezzato, si finisce per rimpiangere l’acutezza di certe angosce, la sensazione di essere in risonanza con malinconie astrali, e soprattutto l’esaltante, e al tempo stesso crudelmente disperata, indeterminazione dell’adolescenza, sorgente e zampillo di tutte le ispirazioni e di tutte le grandi tragedie, alimenti di quel mito di se stessi che volenti o nolenti la nostra epoca ci chiede di elaborare.

Siamo tutti chiamati a un grottesco quarto d’ora di celebrità, come ha visto Wharol, ma la vita leggendaria è per pochi. Delle leggende di cui parlo si sa sempre poco, in genere hanno dato troppo, forse tutto e così in loro ci si perde. Sono labirinti con cui non si può familiarizzare come con il personaggio di una fiction, sono da sempre i grandi assenti di cui si può solo favoleggiare. La loro esistenza è incerta come quella della poesia che è più un miraggio dello spirito che altro, un vagabondaggio in cerca di un naufragio leopardiano, davanti a qualche siepe dell’eterno ritorno.

Infine, bisogna essere sempre sconcertati dall’inganno delle parole. Questo sgomento davanti e dentro il linguaggio è il segno che un po’ lo si è compreso, si è compresa la sua profonda natura trascendentale di voragine.