Il Web, il tempo, l’oblio

martedì 24 luglio 2012



Mi rendo conto che il blog impone la sua cadenza, e che scrivere  o pubblicare un post risponda a un proprio orologio interno, attraverso il blog si dà un ritmo al proprio tempo. Ogni blog ha la sua pulsazione, come quella di una stella, che annuncia la dissoluzione del tempo stesso, perché su internet tutto si svolge più veloce e “ Il mezzo è il messaggio”.  

 Attraverso un blog, piccolo strumento, partecipare all’impresa collettiva di costruire una memoria, o addirittura una mente universale,  che sembra lo scopo della nostra nascente epoca. Tutto procede però a ritmo di dissoluzioni, e ho il sospetto che di tutto questo sforzo fra un secolo non resterà  nulla. Penso che qualcosa esisterà a livello di frammento. Ma Internet dà l’idea, spossante ed esaltante al tempo stesso,  di un’espansione illimitata delle possibilità di essere in contatto  e che tutto sia memorizzato. Sembra aver sconfitto l’oblio ma io ho sempre avuto la sensazione che lavori  per esso.

La molteplicità e la velocità della rete sono affascinanti come un gioco. E’ bello essere connessi, è una sensazione di unità e insieme  di massima dispersione.  Ritengo che internet abbia reso la televisione come passatempo assolutamente obsoleta.  Ho la sensazione però che tutto svanirà, che altre tecnologie renderanno il Web stesso obsoleto. Per il momento il Web è il massimo come multidisciplinarietà, come simultaneità, come  accesso immediato. Inoltre,  sento che dietro c’è un’illusione. E mi piace.

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 Strani giorni  ha la sua chiusura estiva. Ci risentiamo  a fine agosto, inizio  settembre.  Buone vacanze a tutti.

La moglie del mondo - Carol Ann Duffy

sabato 14 luglio 2012





La comicità in poesia è un grande lusso e si esprime sempre con estrema crudeltà. Perché una poesia realmente comica è davvero fredda, spietata. Così con humor britannico in questa splendida raccolta, La moglie del mondo, pubblicata nel 2002 da Le Lettere, Carol Ann Duffy affila il suo sarcasmo, gioca la carta di una critica alla Storia e al Mito, sempre maschile, rovesciati però dallo sguardo di queste mogli, che vanno dalla moglie di Pilato alla moglie di Darwin, dalla moglie di Freud a quella di Shakespeare, colte nei loro monologhi demistificanti.

Ci sono figure ambigue: la gemella di Elvis Presley, un Erode e una King Kong femmina, ci sono i personaggi delle favole totalmente rivisitate in chiave moderna (Cappuccetto rosso qui tradotto misteriosamente Berrettino rosso), dove il personaggio della favola diventa una ragazzina amante del lupo – ma “qual ragazzina non ama  teneramente un lupo? – si chiede Duffy.

Ci sono i personaggi del mito (Euridice, la moglie di Mida, Circe, la signora Tiresia, Demetra), dove sembra quasi sempre che la figura maschile sia un’ombra fastidiosa. Tranne il caso di Shakespeare, cui è dedicato un inno d’amore da Anne Hathaway, sua moglie, e vedova, tranne certi accenni a un turbamento erotico verso il maschio. Ne La Moglie di Mida, per esempio,  si  legge questo:

Più di tutto/ anche ora mi mancano le sue mani,  le sue mani calde sulla/ mia pelle, il suo tocco.”

 Quello di Duffy è soprattutto però uno sguardo di grande irrisione.  Lo sintetizza magistralmente questo epigramma dedicato a Darwin da sua moglie:

Siamo andati allo zoo. / Gli ho detto/ C’è qualcosa in quello scimmione che mi fa pensare a te.”

Oppure si vede in questi versi in cui parla la signora Icaro, dove il mito stesso è ridimensionato, annullato, cancellato:

“Non sarò la prima né l’ultima/ che se ne sta su un costone/ a guardare il marito/ che dimostra al mondo/ di essere un totale,  perfetto, emerito,  assoluto coglione. “

Tuttavia ci sono grandi slanci amorosi verso il maschio come nel monologo di Penelope che si rivela, però, una donna che desidera emancipazione, il suo ruolo di altra metà del cielo le sta stretto:

“Mi stavo disegnando/ il sorriso di una donna al centro/del mondo, indipendente, intenta, soddisfatta/ e certamente non in attesa. “

Penelope è donna ancora combattuta fra il desiderio  di Ulisse e quello dell’indipendenza,  mentre Euridice non ne può più di Orfeo,  non tollera più di essere imprigionata da lui  nelle sue “ immagini, metafore, similitudini/ottave e sestine, quartine e distici/ elegie, limerick, villanelle, / storie, miti…” preferisce a lui la morte.
Orfeo è semplicemente ridotto a un fanatico,  vanitoso come forse lo sanno essere solo i poeti, ridicolizzato come Big O.

Una parola per la bella traduzione di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti che riescono con eleganza a disseminare nel testo quelle assonanze e quelle rime che costellano l’originale, ricreandone la nervatura e il tessuto. I due traduttori sono stati bravi anche nel rendere il ritmo di questa poesia che pare così sonora nell’originale inglese. Es:

“ I powered with a shaking hand/ a fragrant, bon dry white from Italy, then watched/ as he picked up the glass, goblet, golden chalice,  drank”   

diventa:

“Versai col tremor della mano/ un bianco, secco, fragrante, italiano; lo guardai/alzare il bicchiere, una coppa, un calice d’oro, bere. “

Duffy sembra inizialmente combattere la guerra per l’affermazione del proprio sesso, e le sue armi sono ironia, humor freddo, e un occhio fondamentalmente disincantato. Così anche Cristo risulta sminuito nella splendida poesia La moglie di Pilato,  dove appare così:

alzai gli occhi /e lo vidi. La faccia? Brutta. Ispirata.

O ancora nell’emozionante  finale, destituito di ogni divinità, con una battuta secca:

“Presero il profeta e lo trascinarono via, / Sul Golgota. La mia cameriera sa tutto il resto/ Era Dio? Certo che no. Pilato credeva si sì."

L’operazione è eminentemente poetica, restituire voce a ciò che voce non aveva nei secoli della Storia maschile: l’universo femminile.  Attraverso questo sguardo i grandi uomini risultano sminuiti nella loro quotidianità di chiacchieroni, per esempio nel caso di Esopo, costretti a vedersi in uno specchio nella loro piccolezza. In questo senso Frau Freud pur lodando “il serpente nei calzoni” definito “ grande  amico delle donne” nel suo monologo dove utilizza moltissimi sinonimi di pene, infine dice “ ciò che voglio indicare, / signore mie care, è il pene comune - per niente grazioso…/ Che senso di pena… quell’occhio solitario strabico invidioso”.

 Di contro le donne incarnano una saggezza sbrigativa, immediata, senza tante cerimonie, taoista, senza filosofia occidentale, attributo maschile. Un aspetto però da non sottovalutare, l’amore sessuale per il maschio che rende le donnea volte folli e criminali,  come nel caso de La moglie del diavolo o de La signora Quasimodo. Non bisogna dimenticare le tante figure inquietanti, le gemelle Kray, la signora Faust.  Il femminile è colto anche nella figura di Circe che cucina  un maiale, e intanto sogna un uomo, poesia straordinaria, come molte di questa raccolta. C’è ambiguità, questa  è poesia che sa cogliere la brutalità e insieme trasfigurare poeticamente questa percezione. Qui tutto si fa canto e narrazione, avvistamento di nuovi modi di pensare, grande capacità di stupire.

 Leggendo poeti come Duffy, in questa notevole traduzione, non si capisce come la poesia non attiri il pubblico dei lettori, essendo avvincente quanto e più di un romanzo. Quante trame, sotto trame, si intuiscono fra un verso e l’altro,  quanta dissolvenza in bianco c’è in queste poesie, fra un personaggio e l’altro,  fra un’idea che saetta e un’idea che dispare.

Stupisce l’assenza di filosofi fra questi uomini, e insieme non stupisce affatto, considerando il rapporto difficile che alcuni filosofi hanno intrattenuto con le donne (il prototipo è Socrate). Dov’è Santippe, in questa raccolta, è la moglie necessaria, bisogna conoscerne l’opinione.  Santippe manca così come manca la moglie di Schopenhauer, personaggio che sarebbe stato micidiale. Colpisce,  come del resto anche ne La  donna sulla luna,  l’altra antologia di Carol Ann Duffy, edita più recentemente in questa collana Il nuovo melograno-  la grande duplicità, ambiguità, stranezza di questi personaggi, la grande  capacità che ha Duffy di toccare molte corde facendo vibrare nitido il suono del proprio stile.

Parole, parole vive  sulla lingua, vive nella testa,
calde, palpitanti, convulse, alate; musica e sangue”

Il gioco di Duffy è risultato così  affascinante che se ne vorrebbe di più, per continuare a costruire veramente attraverso la parola delle donne quella storia- Ombra, che ci segue come un ‘onda.

L’idea di affidarsi al monologo, che caratterizza molta sue poesie, e tutte quelle di questa raccolta, è semplicemente geniale.  Sul solco di Pound di Personae, percependo l’estetica di Eliot, indossando anche un ghigno perverso fra Ubu Roy e Sharon Olds,  la poetessa scozzese si esprime indirettamente, cammina sul filo di un autoritratto che si rivela uno specchio,  e ci racconta che le donne hanno vissuto sempre nell’ombra.  Restituire voce a quest’ombra significa compiere una profanazione.
Sono violati i valori patriarcali, in nome di una saggezza tutta femminile, è violata la civiltà in nome di qualcosa di pericoloso e selvaggio simboleggiato dal lupo di Cappuccetto rosso. E’ forse il fascino femminile per il Diavolo, l’affinità segreta fra la femmina e gli umori della terra e della luna.

In questa raccolta di Carol Ann Duffy, c’è comicità, c’è sarcasmo, a tratti c’è anche la sensazione di un’infinita dolcezza, affiora più spesso una voce spietata, c’è in sostanza una sicurezza stilistica che mette i brividi.  C’è una voce altra che ci rivela qualcosa di noi stessi, ci mette a nudo, quasi sembra aggredirci, ma la sua  è un’aggressione leggera. I personaggi di Duffy sono abnormi, conoscono amori spaventosi, penso alla poesia Queen Kong, e sono fondamentalmente entità potenti. Hanno l’aspetto delle dominatrici. Non c’è traccia dunque di un piangersi addosso della donna sfruttata nei secoli dall’uomo, c’è la certezza che uomo e donna si siano fronteggiati entrambi  nella loro potenza. Questa potenza innesca anche la follia, la brutalità, la violenza. La realtà è dura, indubbiamente, e in questa durezza Duffy si colloca con un grande desiderio di decodifica del reale.

Grande guida Duffy nel labirinto della contemporaneità, nell’essenza stessa della vita contemporanea, paradossalmente ricreata dalle macerie del Mito e della Storia, realtà che, forse, sembra dirci Carol Ann Duffy, sono ormai da considerarsi identiche. A noi tocca profanarle, nel senso che intende Agamben, cioè di giocare con esse, sconsacrarle e restituirle così all’uso comune.

Nel monologo della moglie della Bestia si capisce qual è il messaggio della poetessa scozzese: rifiutare l’ipocrita leggenda patriarcale del principe azzurro perché “senti tesoro lo so bene/quanti son bastardi i principi”  e abbracciare la Bestia, il lupo. Con la sensazione che sia sempre la donna, l’elemento forte della diade uomo – donna. Non dimenticando però il suo potenziale di devozione all’uomo, sua intima passione, non dimenticando che forse è meglio essere il diavolo che la moglie del diavolo, personaggio che la società trova ancora più esecrabile.

In definitiva La moglie del mondo di Carol Ann Duffy è semplicemente uno dei libri di poesia più belli usciti in Italia negli ultimi dieci anni, e ci mostra una voce di grande spessore nel panorama mondiale contemporaneo.

Maestri e no – un viaggio nella poesia dell’era industriale

sabato 7 luglio 2012


Bisogna essere assolutamente moderni”

Arthur Rimbaud

Lo aveva intuito Ezra Pound: in letteratura c’è un’infinita distanza tra le cose che ci piacciono e ciò che prendiamo per modello. Ciò che ci piace tocca troppo spesso soltanto la superficie, ciò che prendiamo per modello  invece opera nel profondo, inizialmente a nostra insaputa.

 Può piacermi un libro di poesie di Alda Merini, ma non prendo (o meglio il mio es non sceglie) Alda Merini come modello per la mia scrittura, essendo lei troppo radicata nella propria avventura umana per servirmi cinicamente da specchio o da alimento. Può piacermi la poesia di Mario Luzi ma ugualmente la signorilità dei suoi versi mi pare antiquata e inutilizzabile, troppo bon ton non mi è congeniale. Posso amare Leopardi ma il nitore nichilista della sua poesia, l’analisi lucida e straziante sono per nature angeliche diverse dalla mia. La sua lingua viene dal passato per offrirci la consolazione della bellezza, e la consapevolezza della vanità e del lutto - e là rimane, inattingibile.

 Mi piace Marina Cvetaeva ma la sua assenza di metafore è un crinale difficile, e la sua lingua pressoché un gioco di prestigio inimitabile, come la sua sofferenza senza rimedio, il suo grido di dolore assolutamente straordinario. Amo Emily Dickinson, ma non può essere un modello perché sarebbe troppo evidente la falsificazione dell’originale, c’è troppa vita privata, cioè interiore sua personale, nei suoi versi, la cui intensità è pareggiata nel Novecento da Sylvia Plath, che nella mia percezione rimane però un gradino sotto.

Mi piace Pessoa ma io  non posso essere quel tipo di moltitudine, troppe maschere, troppe contraffazioni di un se stesso impossibile. Posso aver apprezzato la poesia scabra di Ungaretti- anche se non sempre in verità- ma come per Petrarca trovo pernicioso l’eccesso d’imitazioni che ne sono scaturite.

Apprezzo la poesia di Bukowski ma l’autenticità del suo percorso lo rende inimitabile, seguire le sue orme di anti maestro sarebbe un po’ patetico. Tutta quella affascinante letteratura beat, così legata alla strada, la sento vicina e i versi di Ginsberg sono architravi della mia visione apocalittica della città industriale contemporanea. Tutto filtrato attraverso una lettura di Rimbaud, che quella visione l’ha universalmente creata-, insieme naturalmente al Baudelaire de Lo spleen di Parigi.

 E non dimentico le folle anonime sciamanti nelle strade nel capolavoro di Eliot La terra desolata, libro da meditare ancora oggi, da leggere e rileggere, libro del secolo ventesimo. C’è la poesia folle e aggressiva di Artaud, inimitabile fascio linguistico di nervi tesissimi. Esplosione scatologica della civiltà occidentale, delirio chirurgico.
La modernità per me ha oggi il nome di Mark Strand, di Charles Simic, di Carol  Ann Duffy, di Derek Walcott, per citare solo i poeti viventi di lingua inglese. Può chiamarsi Iosif  Brodskij, Nicanor Parra, Ernesto Cardenal, Tomas Tranströmer, Wislawa Szymborska, se guardiamo oltre l’orizzonte.

Se allarghiamo ulteriormente  il ventaglio tutto ciò che è  fondamentalmente uscito dal cilindro di Baudelaire, Eliot, Auden, Pound, Laforgue,  da una parte e poeti come Rimbaud,  Majakovskij, Whitman, Saint John Perse, dall’altra.  

Considero Gottfried Benn una delle figure centrali della poesia del Novecento ma non posso prenderlo come modello,  lo stesso vale per Rilke e, soprattutto,  Georg Trakl, uno dei massimi lirici del secolo,  troppo legati alla loro epoca, o meglio ancora inventori della propria epoca irripetibile. 

  Mi piacerebbe avere il ghigno di Corbiére, la lucidità trasognata di Lautremont, la serenità solare e apollinea di Odisseo Elitis, vorrei fondermi con i paesaggi di Machado, ma la mia sarebbe solo imitazione e posa.  Poi ci sono i maestri che vengono col tempo un po’ dimenticati, Garcia Lorca, William Blake, nel mio caso. L’uno troppo legato alla passione per la sua terra, a certi sognanti panorami che pure m’incantarono,   l’altro creatore di mitologie oniriche sue proprie. Ci sono poi i maestri della lingua italiana: Gozzano, Campana, Quasimodo, Montale, Pasolini, e più recentemente Elsa Morante, con il suo straordinario Il mondo salvato dai ragazzini, Bigongiari, soprattutto quello di Moses, Testori, Gualtieri, sentinelle sull’abisso del dire. Ci sono poi i maestri del futuro, quei poeti che abbiamo solo sfiorato e mai realmente incontrato ma verso cui ci guida l’istinto. Uno di questi maestri del futuro sento essere sempre di più Paul  Celan.  E’ una sorta di premonizione.

Oppure ci sono le operazioni monstre di Carmelo Bene sulla lingua ne "‘l mal de’ fiori”,   a indicarmi la via dell’impossibile, bagliori da un mondo lontano e irraggiungibile.  Ho inoltre una predilezione per il creazionismo di Vicente Huidobro, credo che la poesia sia l’invenzione di altri mondi, mondi- ombra. In adolescenza ebbi una passione per Edgar Allan Poe, che ruppe per primo certe mie concezioni desuete sulla poesia, attività di contemplazione di un pericolo imminente.

 Non posso dimenticare, in questo florilegio di nomi, Edgar Lee Masters, che realizza un’idea straordinaria di poema del Novecento, realizzando con L’antologia di Spoon River una delle critiche più esatte della civiltà contemporanea, e insieme una delle sue esaltazioni più accorate.
 Non posso dimenticare l’impatto che ebbero su me le poesie di Bertolt Brecht, per  la loro intelligenza, per la loro potenza.

Infine c’è il più importante di tutti, Baudelaire, che mi ha cambiato il cervello ed è tanto consustanziale all’atto della scrittura per me da diventare una citazione obbligata, penso per chiunque. Baudelaire, come Nietzsche, cambia la storia del pensiero occidentale e più in piccolo la mia esistenza.  Insieme con Arthur Rimbaud è anche il poeta che mi ispira maggiore simpatia umana.

Se dovessi scegliere un poeta del Novecento, che possa prenderne lo scettro, forse attualmente sceglierei Borges, che inventa o trae dall’ombra il linguaggio segreto del labirinto. Per il suo ruolo di outsider sceglierei il cinico Gottfried Benn, che attraverso versi chirurgici ha saputo fare della macelleria sublime, ci ha mostrato la carnalità come forse nel secolo ha fatto solo in pittura Francis Bacon. Per aver ricreato, e persino affinato, le atmosfere di Rimbaud,  potrei eleggere Saint John Perse e,  per la visione dell’esistenza come un viaggio misterioso,  Blaise Cendrars.   Come potenza critica, come visione, la più forte e persuasiva rimane però quella di Eliot. Colpisce oltretutto di queste figure- soprattutto Borges, Eliot e Saint John Perse, maggiormente pacificati dalla consacrazione universale rispetto a Benn, per esempio-  quell’umiltà che io attribuisco sempre all’autorevolezza e al genio.