Il riecheggiar del dire oltre il concetto

sabato 20 novembre 2021



Da lettore di poesia conosco ormai la sensazione di restare, leggendola, sempre con il fiato sospeso, in attesa che un pensiero squarci il velo del chiacchiericcio interiore e si riveli rivelatorio di una dimensione del reale a me fino allora preclusa. Questo accade davanti alla vera poesia e non alle sue molte falsificazioni o semplificazioni sentimentali o presunte tali. Benché l’espressione vera poesia sia forse un po’ fatua essa stessa, se dietro di essa si cela qualche professorone con il ditone alzato.

In poesia il “cosa accade?” ha risonanze dentro le vertigini di un’alchimia profonda delle parole, sostanziale, originaria, vediamo lo schiudersi di pensiero dal contatto fra energie semantiche differenti e spesso opposte ma in un modo così segreto ed enigmatico che la confusione e l’ambiguità sono massime, e la logica stessa viene incendiata dalla sua profanazione più rigorosa. La poesia, violando il principio di non contraddizione sistematicamente, esplora una dimensione più ampia dello spettro dell’esperienza, ben oltre gli opprimenti dualismi del Significato Unico Dio, nelle regioni di una polifonia musicale che si fa beffe di ogni teologia dell’ego, di quell’ego cartesiano che si crede separato dal mondo, mondo di monadi tra l’altro, che il capitalismo vuole in lotta fra loro.

Nessuna empatia, nessuna risonanza, quindi nessuna musica perché empatia significa risuonare con l’altrui musica interiore. Si tratta di finirla con quella che Fondane chiama “la tutela del luogo comune” che tanto peso ha nelle umane vicende e che ha fatto scrivere a Nietzsche “Ogni parola è pregiudizio”.

Il fatto che il luogo comune ci tuteli e in un certo senso ci conservi è vera. Chi è per la dissipazione, la depense, è per un’altra economia che quella regolata dal tragico e molesto buon senso che è un modo diverso di chiamare il luogo comune che,  se ci conserva,  lo fa a danno delle nostre potenzialità di esploratori psichici. La pazzia? È un rischio. Che questa vitale follia degeneri in malattia mentale è una possibilità. Già Platone “il poeta non sa quel che dice”. È l’ispirato folle che sa fingersi sapiente ma non appartiene alla schiera dei saggi dei forti dei giusti. Ma non appartiene neanche alla schiera di chi ha smarrito ogni chance comunicativa, intrappolato in se stesso e solitario fra  le mura del carcere che è il suo cranio dove solo rimbomba il suono delle sue catene: l’alienato classico. Tuttavia il poeta, scrive Adorno, ha ormai come suo interlocutore privilegiato solo Dio, purché morto. E questo è un fatto.

La poesia è quella musica che sa intercettare le profondità del silenzio originario dove le parole dell’essere si dischiudono. La poesia non parla ma dice. Che cosa dice? L’infinita rotazione semantica dei significanti non è dissimile dal nulla. La poesia dice il nulla ma perché questo accada il poeta deve scomparire in questo nulla e lasciare che forze impersonali sgorghino nel canto che egli non conosce e che  lo trascendono. Da qui l’universalità della poesia. Se l’ego vien meno, se Dio, il suo garante ontologico, si dissolve, emergono sotto il segno che, ci ricorda Sini, è un residuo teologico, tutte le potenze numinose e oscure che preesistono a ogni concettualizzazione.

Così  Carmelo Bene può dare della poesia questa definizione tranchant: ”La poesia è  il riecheggiar del dire oltre il concetto.“ Benissimo. E dunque? Ogni concetto esploso è un’infinità di frammenti con cui eliotianamente puntellare le nostre rovine? O piuttosto la materia per una riformulazione, per nuove cristallizzazioni, nuovi eternoritornanti valori? Le parole non sono isole sono piuttosto ponti. Verso l’ignoto? E sia.