Shakespeare non l’ha mai fatto- Charles Bukowski

sabato 26 giugno 2010



Bukowski è uno scrittore sporco, una canaglia per nulla politicamente corretta, nella scrittura ha messo tutto se stesso, con la sincerità e la schiettezza tipica di molta letteratura americana, puntando tutta la sua anima sul cavallo della prosa e della poesia, e uscendone vincitore dopo anni di gavetta, isolamento e delusioni.

Privo di valori, era forse un nichilista della peggior specie, del tipo” meglio di tutto un sonno briaco sul greto”; la sua prosa tende a quello che gli inglesi chiamano”indecent exposure”, con una tendenza a un grottesco iperrealismo, con i suoi libri ha raccontato un’America di emarginati, di diseredati, di ubriaconi, mescolando la disperazione con un’allegria e una vitalità che l’hanno fatto amare in tutto il mondo. Bukowski ha saputo scavare nella gran desolazione, con ricercata strafottenza: cos’è la volontaria sciatteria della sua pagina, se non un’arrogante dichiarazione di menefreghismo? Cos’è la sua prosa aggressiva e animalesca, se non la prova che il letterato al suo meglio altro non è che un delinquente mancato? Penso sia uno degli scrittori più antiborghesi che mi sia capitato di leggere, ha dato veramente quello”sputo in faccia all’Arte” di cui scriveva Henry Miller, consegnando alle stampe libri maleducati, male odorosi, a volte stracolmi di una dolcezza antica, pagana, di una consapevolezza incapace di divenire saccente, ponendosi molto onestamente sulla via de vizio, ostentando la sua mancanza di bon ton, con la certezza che nessuna maschera di sociale convenienza ha tanta nobiltà quanto un cuore messo a nudo.

Ha insegnato suo malgrado- nessuno è meno maestro di vita e di stile di Bukowski - che non si può fare letteratura con i buoni sentimenti, con le buone intenzioni, bisogna scendere nella fogna, a maggior ragione se si aspira al paradiso. Ha saputo anche raccontare il lavoro, la sua tragica ineluttabilità, la sua violenta imposizione, cantando la scioperataggine più efferata, di contro il mito tutto contemporaneo e borghese dell’efficienza. Sebbene abbia sempre lavorato, di lui si può dire che fosse nato per l’ozio, la lussuria, la deboscia, e molto onestamente ci ha mostrato che la letteratura non è per le anime pie, è una sporca guerra in cui si può rischiare di perdere la faccia, per preservare l’anima.

Da lui ci viene l’immagine di un perdente di successo, che a cinquant’anni suonati ha raggiunto notorietà internazionale, riuscendo a essere più amato in Europa che in patria, realizzando da reprobo il sogno americano, ironia della sorte, senza farsi schiacciare dai riconoscimenti, ha mantenuto fino all’ultimo la sua aria di dannato per scherzo.

Così in questo Shakespeare non l’ha mai fatto veniamo a sapere del suo viaggio in Francia e Germania, sul finire degli anni settanta, delle sue sconce e degradanti apparizioni televisive, che ne hanno fatto un caso, del rapporto con la sua giovane moglie, e, al solito, delle sue voglie per nulla segrete, del suo anticonformismo pigro e scandaloso. Essere se stessi è, infatti, lo scandalo che nessuna buona società ti perdona, così Bukowski da ingranaggio della pubblica amministrazione è diventato consapevolmente ingranaggio dell’industria culturale, senza però perdere la sua vocazione all’isolamento, alla strafottenza, senza recedere per un attimo dalla sua attitudine a una vita scostumata.

E’ un testo piacevole, un libro di viaggio scritto da uno che non amava viaggiare, che con la consueta avidità di vita lascia pulsare con semplicità alcune verità desolanti, che pure non appesantiscono mai il romanzo, che rimane una testimonianza biografica interessante. La naturalezza calcolata della scrittura di Bukowski, il suo umorismo crudele ma giusto, la sua saggezza di escluso, sono ancora una volta capaci di trasmetterci come un senso di liberazione: allora è vero, la vita è questa, un lavoro monotono, un’anima stanca, una via crucis in cui si smarrisce la propria anima, in cui non si ottiene nulla se non l’avvilita constatazione dell’umana indegnità.

Tuttavia, Shakespeare non l’ha mai fatto è un libro leggero, come sempre in Bukowski s’intrecciano ilarità e disperazione, un libro scritto forse da un uomo appagato e stanco, che con consueto mestiere ci tiene attaccati alla pagina, raggelandoci ogni tanto con le sue considerazioni amare sull’esistenza, verità dette di sfuggita, senza darci peso, che hanno la potenza di aforismi ben calibrati. Le poesie finali sono dei divertissement senza molta sostanza, dei giochi per ingannare il tedio, ma non importa, la voce di Bukowski nella sua autenticità incrina ancora le nostre certezze, ci salva da noi stessi , dalle nostre granitiche illusioni di uomini- massa, così la grande truffa della letteratura, con il suo “profumo di immortalità", ancora una volta può realizzarsi; Bukowski infatti in ci ha preso in giro, era un “bacchettone” travestito da satiro, e proprio in virtù di questa contraddizione la sua pagina è così vitale, o forse anche questa confessione è un altro imbroglio, destinato a confonderci ulteriormente, per far trionfare quella menzogna chiamata letteratura.

Club Midnight- Charles Simic

domenica 20 giugno 2010


Simic esplora la quotidianità più banale, nelle sue poesie si manifesta la realtà, con i suoi sottintesi metafisici messi lì per depistare, o ironicamente esibiti per mostrarne l’inconsistenza. E’ la modernità di uno sguardo disincantato: tavole aperte tutta la notte/sale da biliardo/ e bar bui/ fanno da sfondo a quella che si configura come un’immersione in una realtà desacralizzata, in cui solo il fato riesce a mantenere una certa aria solenne, mentre il resto dell’apparato metafisico appare svuotato dall’interno da una formidabile inerzia. Il sottofondo di questi versi è uno “spettrale sussurro”, la voce di Simic è sommessa, attenta a registrare le piccole inezie che fanno comunque la vita misteriosa.

Ma è la noia il meccanismo che trita le anime costrette a “leggere le stelle”,”pensare alla propria solitudine”, per vincere la sconcertante monotonia di una vita standardizzata. I personaggi di queste poesie hanno su di sé come una stanchezza invincibile, una tristezza ancestrale che li domina e gli oggetti di cui si servono non hanno quasi più funzione, sono relitti privi di senso in un mondo in cui la “benigna indifferenza delle stelle” splende su “piccole delusioni “, “insignificanti gioie”. Come recita il titolo di una poesia “Il mondo vive di sciocchezze”, così ironicamente il poeta legge negli oroscopi il lutto della propria insignificanza.

E’ un mondo opaco, scialbo, consumato, quello che Simic racconta, una realtà di agghiacciante tedio, su cui aleggia sempre la violenza, fra “stupide speculazioni” da ridurre al più presto al silenzio. Atterrito da un mondo senza ambiguità, il poeta ama le ombre, gli specchi che danno “un tremolio come la boccia dei pesci”, e la sua voce affonda nella stessa monotonia del fiume che scorre.

Fra “ segni illeggibili” le “ notizie del mondo esterno” ci stordiscono e ci lasciano “confusi”, per Simic non sembra esserci una via di fuga, se anche i sogni della mitologia si rivelano inquietanti incubi postmoderni. E’ dunque una dimensione priva di trascendenza, dove sembra riecheggiare l’amara constatazione di Cioran, “tutto è vuoto di dei”, e anche la poesia è lo stupido latrato di un cane alla luna. C’è una disperazione raggelata, un grido costantemente trattenuto, che non esplode mai e sembra soffocarci. Ecco, la poetica di Simic è minimalista, se in Hotel Insonnia gli oggetti conservavano comunque un certo fascino simbolico, qui in Club Midnight perdono sempre più consistenza; talvolta il vento con la sua “oratoria” o gli alberi sembrano avere una storia da raccontare, ma deve essere un’illusione perché il silenzio è uno scrigno dal quale il gemito dell’umana disperazione non può uscire e se c’è felicità è cinicamente data dall’assistere”alla tragedia di un altro”.

“Abbandonato dalla provvidenza”, l’uomo non può far altro che emettere il suo sospiro verso un cielo indifferente, in mezzo a una “ grandiosa parata di fantasmi” ad ombre che sembrano” una compagnia di attori girovaghi vestiti per l’Amleto”, contemplando la propria miseria e la propria solitudine, da “rinnegato,segregato, appartato”. Non sembra esserci nessun riscatto, tutto è incolore, liso, consunto e l’esistenza, mediocre, è un silenzioso naufragio senza testimoni, il suo enigma non può essere risolto nemmeno da Dio, sotto una luna che pare “un macellaio di carne suina” si consuma una vita di apatia e indifferenza, senza nemmeno l’ombra di una gioia.

Col suo amaro iperrealismo Simic ci restituisce un’esatta radiografia del silenzio, in cui affonda la sua “città fantasma”, raccontando di un’America sciatta, abbandonata da Dio, dove come nel verso di Patchen”la solitudine è un coltello sporco alla nostra gola”, il sospetto di non avere un’anima ci sconcerta, rimane l’ironia, che il poeta usa come estrema difesa dalle sue stesse scoperte. Su tutto, infatti, sfavilla come un ghigno farsesco, la stessa tragicità non è da prendere troppo sul serio, l’uomo è una caricatura, i suoi dei ombre della grande vacuità, il fato “più reale di Dio” parla soprattutto attraverso le cose apparentemente più insignificanti: “un distributore di cicche colorate”, “un mazzo di carte” abbandonate, “una vecchia porta scricchiolante”, ricordandoci la nostra inconsistenza, con il suo implacabile e gelido mistero.

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Club Midnight- Charles Simic- traduzione Nicola Gardini- Adelphi

Da Il libro dell'inquietudine- Fernando Pessoa

sabato 12 giugno 2010

Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi. Preferisco essere preso seriamente per quello che non sono, ignorato umanamente, con decenza e naturalezza.
Niente mi farebbe indignare di più del fatto che in ufficio mi considerassero diverso. Voglio godere con me stesso l'ironia del fatto che non mi trovino diverso. Voglio questo cilicio: che mi credano uguale a loro. Voglio questa crocifissione: che non mi ritengano differente. Ci sono sacrifici più sottili di quelli che conosciamo sui santi e sugli eremiti. Ci sono supplizi dell'intelligenza come ce ne sono del corpo e della volontà. E in questi supplizi, come per altri, c'è una voluttà.

(traduzione Antonio Tabucchi)

La letteratura secondo Giorgio Manganelli

mercoledì 2 giugno 2010

Asociale, vagamente losca, cinica, da sempre la letteratura rilutta alla storia, alla patria, alla famiglia; a quelle anime oneste che tentano di mettere assieme il bello ed il buono, risponde con sconce empietà. Un fondamentale elemento di disubbidienza governa gli impulsi della letteratura. Vedete come rilutta, come accetta anche di morire, quando la si vuole fabbricare onesta. E' ascetica e puttana. Possiamo forse vedere la letteratura come una satira totale, una pura irrisione, anarchica e felicemente deforme; una modulazione del blasfemo.Nel cuore della letteratura sta chiuso un riso tra olimpico e demente, qualcosa di cui molti hanno paura. E' uno scandalo, lo scandalo irreparabile, da sempre.

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Da Il rumore sottile della prosa- Giorgio Manganelli- Adelphi

I Signori. Le Nuove Creature- Jim Morrison

martedì 1 giugno 2010

“La poesia è il risuonar del dire oltre il concetto”
Carmelo Bene

I

Sono qui raccolte le uniche opere che Morrison pubblicò in vita e per chi abbia letto Tempesta elettrica uscendone deluso (è un’operazione di sciacallaggio sul mito, hanno pubblicato anche dei foglietti sparsi) può risultare una rivelazione. Quando oscilla fra verso e aforisma Morrison riesce a raggiungere quella zona della psiche in cui il mistero signoreggia, a scapito del reale, quella zona pericolosa in cui la visione si materializza e sembra avere più consistenza della stessa coscienza.

I Signori ha l’eloquente sottotitolo di Note sulla visione, ed è appunto, fra le altre cose, una riflessione sulla potenza dello sguardo, sul voyeurismo, sul cinema, capace di regalarci emozionanti excursus fra “alberghi da poco, pensioni economiche, bar, banchi dei pegni …” E’ anche un curioso poema sulla città, luogo magico, cerchio mentale con al centro il sesso, luogo equivoco in cui si consumano notti di strana follia, perché la “vita notturna”,” la vita di strada” è “l’unica vera vita collettiva della nostra specie”.

Se siamo tutti attori o spettatori, voyeur di un mondo di delirio e delitto, Morrison ci guida in un percorso fra allucinazioni aforistiche blasfeme” la cecità guarita con lo sputo di una puttana”, strane epifanie di misteriose figure archetipiche, “nell’utero siamo pesci ciechi di caverna”, fra la paura di essere inghiottiti e “idiomi letture, giochi musiche”, cercando di mostrarci che il linguaggio è quella dimensione in cui tutto è possibile, anche una trascendenza legata al potere incantatorio delle parole, al flusso magico dei significanti in balia del caos.

Il potere dello sguardo è anche una maledizione, il voyeur che siamo soccombe sotto il peso della sua stessa missione, se l’occhio che guarda è un’arma, noi tutti sogniamo di costruire “ un universo dentro il cranio che rivaleggi con la realtà”. Per Morrison, nell’immagine il mondo trova la sua folgorante epifania, si rivela, si nasconde, strana mescolanza di verità e menzogna, e colui che guarda, il voyeur, è un vampiro evanescente che cerca di succhiare un po’ di realtà ai fantasmi delle sue visioni. “Fantasmagorie, show di lanterne magiche … Teatri del tempo” tutto ruota intorno all’immagine, ossessivamente evocata, invocata, sorta d’incunabolo di tutte le mitologie contemporanee, sintesi dell’universo, sua catarsi. Il cinema è un formidabile gioco d’ombre che nasce dalla magia, dal sabba, è “un’evocazione di fantasmi” il cui fine è creare un’alternativa al “mondo sensoriale”.

Per Morrison è centrale la figura dello sciamano, che con le sue convulsioni, i suoi linguaggi segreti, la sua “psicosi” rispettata, era il centro della vita della tribù; attraverso la sua figura sembra raccontare “le regioni sepolte della mente” che tanto lo affascinano, e, come un vortice, lo attraggono. Sconfiggere la noia, riconnetterci con “il flusso della vita” sono eventi strettamente legati alla capacità di suggestione della parola e soprattutto del cinema, “erede del’alchimia”, e in definitiva i Signori del titolo sono gli artisti, esseri fantomatici che placano la nostra angoscia regalandoci “libri, concerti, mostre, cinema” . Sono esseri oscuri e selvaggi, chiare reminescenze nicciane, il cui potere è soprattutto quella speciale negromanzia chiamata Arte.

II

Le Nuove Creature è più chiaramente un testo poetico, e sebbene la prima impressione sia di disordine, si intuisce a una lettura più approfondita la capacità ritmica di Morrison, che la traduzione di Lorenzo Ruggiero restituisce con buona approssimazione. Tutto sommato, Morrison ha uno stile poetico molto educato, direi classicheggiante, nella sua scrittura irrompono immagini e personaggi di un mondo colto nella sua evanescenza lisergica, nel suo svaporare. In una “città impazzita dalla febbre” si registrano settecentesche reminescenze di “sorelle dell’Unicorno”la poesia deve tradurre “l’antico latrato dei cani” e inondarci con le sue promesse d’incantesimo.

E’ una poesia che procede per balzi immaginifici, traverso un processo di accumulazione d’impressioni, a volte slegate fra loro, con un’attitudine al dadaismo, altre volte legate da un sottile filo di analogia da poeta metafisico: un paio d’ali/caduta/ alti venti di Karma/. Il momento del perdono è cruciale”il mio benedetto castigo”aleggia sinistro ed è forse”la morte di tutta la gioia”, ma quale sia la colpa non è mai chiarito nel testo; la mia supposizione è che si tratti proprio della poesia, attività sovversiva e inquietante rivolta linguistica.

La natura è davvero quel tempio di oracoli e nella sua visione del cosmo Morrison arriva ad elaborare involontari haiku come questo: “consulta l’oracolo/amaro ruscello, striscia/essi esistono nell’acqua piovana/. Immagini ricorrenti di tortura, soprattutto di figure femminili, richiamano la sotterranea idea di sacrificio, ricordano i roghi delle streghe. Solo manca unità, si percepisce Le Nuove Creature come un poema, ma quale sia il suo senso è un po’ oscuro, non s’intravede la filigrana evidente di quello che era nella mente dell’autore, il nocciolo duro di un’idea fissa.

C’è l’idea ricorrente del sacrificio, la città deve delirare, per purificarsi, per far riemergere ciò che è selvaggio e primigenio, e per ricevere i “ sogni proibiti di un dio azteco” è necessario uscire dalla ” desolazione”, dalla “ tristezza animale” in poltrona. Così la sintesi finale del processo creativo di Morrison sembra essere la rielaborazione del mondo in chiave di enigma ma la decifrazione dell’enigma è rimandata, conta cercare di ritornare nella segreta dimensione da cui fummo scacciati, l’infanzia forse, quando le catene messe al linguaggio erano più deboli. Paradiso perduto nel momento in cui la consapevolezza ci ha schiacciato con le sue “ombre di ubbidienza”. E allora abbiamo la rivolta, che per il poeta è soprattutto linguistica, e il rigoglio dei versi migliori, la loro aggressività ritmica, preludono ossessivamente all’omicidio, spesso evocato in queste poesie, che pure non sono mai granguignolesche e mantengono la tensione solo su un piano magico, perché l’omicidio e il sacrificio ad esso sottinteso sono chiaramente atti magici, di trasformazione.

In questi versi emerge non tanto il desiderio di rinnovare il mondo, ma di vederlo attraverso la rimboldiana e irritata pupilla di Satana, dove Satana è l’ipostasi dell’attività creativa e del caos.

I Signori. Le Nuove Creature- Jim Morrison – traduzione Lorenzo Ruggiero- Blues Brothers