District e Circle - Seamus Heaney

sabato 30 giugno 2012



Con questa silloge, District e Circle, edita nel 2006, cui per ora ha fatto seguito solo Human Chain nel 2010, Seamus Heaney conferma la vena della sua ispirazione, registrando i dati del suo passato in versi che hanno la freschezza della rievocazione, e che vincono la loro sfida con il tempo che sembra tutto cancellare. Il passato del poeta, la sua infanzia, sono raccontati, infatti,  con eleganza formale e diventano i luoghi di una ricerca di senso e di purezza, più forti del divenire e dell’oblio.

E’ una poesia realista questa, fatta di cose, di utensili, di lavoro umano, celebrato come un’attività colma di energie e di bellezza, in un panorama che è quello irlandese, che diventa mitico non in virtù  di qualche elegiaca rielaborazione ma nella sua oggettività anche scabra, nella sua essenza selvaggia sì ma umanamente domata.

Prendiamo la poesia Anahorish 1944: qui l’evento storico, lo sbarco in Normandia, cui il poeta assiste da bambino, è riportato alla sfera di evento imponderabile, così Heaney fa cozzare prepotentemente la Storia con la S maiuscola con quella individuale, raggiungendo effetti di straniamento. Gli oggetti del lavoro umano diventano emblematici: “la pompa di ghisa immobile come una pietra sacra”, dove con una felice intuizione il traduttore Luca Guerneri  traduce con “pietra sacra” l’inglese “herm”.

E’ significativo come per Heaney gli  strumenti privilegiati per indagare la realtà siano proprio i lavori più umili: quello di fabbro nella poesia Poeta a fabbro,  quello di muratore nell’epitaffio dedicato al suo amico  Mick Joyce, quello del  pompiere della poesia Casco.

Nostalgia del poeta borghese per la realtà dura del lavoro manuale? Mitica innocenza riconosciuta a queste figure? Pare piuttosto la fascinazione per ciò che è solido, duraturo, tradizionale.

Gli oggetti, dicevamo. Il coltello affilato dal fabbro, per esempio, o il dente d’erpice appeso nella stalla, diventano forse simboli di quella forza popolare, che sta alla base delle investigazioni nel reale del poeta irlandese.

Heaney in questa raccolta dà quindi voce alla realtà oggettiva, mescolando lirismo e vita quotidiana in un affresco intenso e al tempo stesso minimale, scevro da retorica e molto moderno. La modernità qui è data soprattutto dall’assenza di toni enfatici, tutto è misurato, la poesia è sintesi di un percorso nella memoria, e fra epitaffi e commemorazioni di zie morte, Heaney costruisce quest’autobiografia sui generis, non dimenticando le catastrofi della modernità. Nella poesia Tutto può accadere, infatti, c’è un riferimento alla caduta delle Torri Gemelle, occasione per meditare in chiave oraziana sulla volubilità della Fortuna.

“Tutto può accadere, le torri più alte/essere abbattute, chi sta in alto intimorito/ chi in basso riconsiderato. La Fortuna becco affilato/ s’avventa aria senza fiato strappando a uno la cresta/ posandola, sanguinante, su quello accanto.

La Storia qui pare un mezzo per comprendere la dimensione umana, per capirne le dinamiche e per denunciarne la fallibilità e le fragilità.

L’esperienza personale è rielaborata fino a farne questione universale, nella poesia eponima, per esempio, la metropolitana diventa il luogo principe della modernità, con le sue alienazioni e paure, luogo dove si fa ritorno però alla “sicurezza del branco”.  Nell’ultimo verso viene adombrato un possibile attentato terroristico, in maniera, in verità,  ambigua. Ci sono riscritture di Orazio, Rilke, Kavafis, una poesia è dedicata a Seferis, un’altra a Neruda, un’altra ancora a Milosz; il respiro di Heaney è internazionale, sebbene ben radicato nella nativa Irlanda. Heaney sembra considerare con venerazione la forza della tradizione, che innerva i suoi versi, tradizione che è la sorgente e la linfa vitale cui il poeta irlandese attinge costantemente. Heaney mostra un’umanità forse schiacciata dalla Storia, dedita comunque  al lavoro inteso come redenzione e ordinatore del caos naturale, simboleggiato dalla torbiera che fa capolino in una delle poesie della raccolta.

La sensazione finale,  che  la silloge ispira,  è  una sensazione di pace, fatti i conti con il proprio passato, Heaney tira un colpo di spugna su tutta la tematica dell’assurdità dell’esistenza, e sembra trovare senso e bellezza nella quotidianità, anche quando essa è squarciata dalle mattanze e dalle atrocità della Storia. Questa raccolta, figlia della maturità, mostra una voce pacificata, misurata, che sussurra il suo amore per l’esistenza, con versi intrisi di realismo, dove il poeta si traveste da cantastorie per narrare la sua adesione ai principi di una tradizione perenne. C’è come una superiore accettazione del destino, che anche se non è sempre benigno, è comunque umanamente comprensibile. Mi sembra così che, con gesto fondamentalmente affabile,  Heaney liquidi l’Assurdo, tema che così tanto ha impegnato il Novecento.

“ E benedii me stesso
in nome di quell’unica occasione
e di ciò che capita per caso,
i chi lo sa
e i che succederà
e i così sia. “


Il numero più bello

mercoledì 20 giugno 2012


I

Nera la notte in cui fu calata
l’ombra umana negli abissi
siderali del male infinito!

Sotto la luce- oh totem scolorito-
annunciami la felicità del bosco
quando viene la sera.
E tu vecchia carcassa, muovi le labbra
dì il tuo motto:

(parole a mucchi di silenzi
inespressivi sotto una pergola)

“Non c’è interiorità.
L’ha rubata il dio delle masse.
Gli ultimi barbagli dipinti
di un sé magico e infinito
annichiliti da un paese sotterrato,
il cui nome è l’ovunque. “

(parole uccise a scotimento
di polveri stellari laddove
tutto è segno di moneta
il vivere e il morire)

II

Imbattersi nella propria ombra
quando si guarda lo specchio
è tormentare il niente
col sopruso di una faccia:

“ Tutte le cose pagano il fio
d’essersi sottratte al nulla
(per offendere Schopenhauer
per intristire Leopardi)
pagano il fio con la morte
d’essersi al nulla sottratte”.

Ed è giusto che io sia solo un’ombra
che un volteggio d’aquila svanisce
che un battito dell’ala del corvo
restituisce  alla polvere d’essere stato
- mettiamo, ed è cosa molto moderna-
me stesso o una sua caricatura all’ultima moda.
In questo mondo che è tutt’uno con la tenebra
in questo bel mondo di non nati
in questa vertigine di non sapere,
e  lottare per infischiarsene.

III

Covo di funebri passioni
sotto la frusta e il canto del gallo
sotto il torpore e dentro la melma
io ricordo i fiori della sua bocca
strappavo lo stelo con la lingua
e questo è quanto. Dicevo:

“ La carcassa dei miei giorni di felicità
giace accanto al totem del dolore.
Il mio canto ha tre lingue
di fuoco e una d’acqua.
La mia lingua è in fuga de me stesso.

Vedo una tigre nell’atto
di fissare una bambola.
Mettiamo sia questo
che volevo dire. Oppure…

Il cespuglio poi ferirsi con i rovi
attraversare la chioma di un albero
per sentire vibrare i coltelli della luce
e accanto a quel corpo poi dentro di esso
stuprare l’universo “.

Vedo un pozzo dentro cui cade un infante gettato- non ho voglia di dir da sua madre, sarebbe troppo infame- e precipita, precipita. Non ho voglia di udire il tonfo. Non riesco a trovarci un nesso. La mia lingua è in fuga da me stesso.

La vecchia musica dell’adolescenza
è finita, non siamo fratelli che dell’ombra,
circuiamo l’inesprimibile per cavare un suono che dica
la felicità che si prova allo sbocciare di un ranuncolo
che mostri ciò che è durevole
oltre l’attimo dell’oblio.

IV

Ah, voglio una parola frantumata!
Intesso voragini, placo marosi,
sono il piccolo dio dei versi,
tendo tranelli, mostro
l’azzurro simmetrico
dentro il palpito del cielo
configuro stormi
dal moto acquatico.
Amo dire la mia
sulle questioni filosofiche.
Attacco bottone con l’infinito,
poi smetto e gioco a dadi con me stesso.
Peccato che sul dado manchi
la faccia dello zero.
E’ il numero più bello.

                                                                                                              Aprile 2009
Ettore Fobo


***
Disponibile anche in ebook su Amazon e sulle principali librerie on line.












Pizza, mandolino e reality show

martedì 12 giugno 2012




                                                          
“Il deserto cresce. Guai a colui che  cela deserti dentro di sé .”

Friedrich Nietzsche

In Italia accadono cose apparentemente incomprensibili: salgono sugli altari scrittori modesti, sono proiettati film impalpabili, o francamente brutti, politicamente è il regno della mediocrità istruita, o della corruzione acclamata, e, soprattutto, regna la televisione sul nulla incraniato dello spettatore medio.

Lo spettatore medio, quale carogna deve essere! Può darsi persino abbia studiato e legga i giornali, pieno zeppo di luoghi comuni più alla moda quindi, e simile all’orangutan linguisticamente. Crede in Dio, e nell’ultimo modello del telefonino, è un miscuglio micidiale di caverne e astronavi. Lo vedo sazio di sé mentre assume, guardando la televisione, quello sguardo a metà fra la cavia di laboratorio e lo zombie.

Ecco un sintomo che è anche la spiegazione del male.  A Cannes l’Italia si presenta con il film di Garrone, cioè si racconta così: con un film sui reality show. Questo è il modo in cui l’Italia è ormai nota all’estero: paese rimbecillito dalla televisione, dai giornali, e dallo stesso cinema, in fondo, oramai ridotto a poverume spiritato e macchiettistico - e penso al Nanni Moretti di Habemus Papam, per esempio, che la critica americana ha giustamente massacrato, film inconsistente e futile.

Dieci anni fa a un festival del cinema una ragazza tedesca mi disse che l’Italia sembrava un paese culturalmente fermo. Aveva ragione, lo era, fermo. Fermo davanti alla televisione, che ha regnato per vent’anni nella sua incarnazione più potente: paese fermo, immobile, ipnotizzato.  

 E' inutile farsi illusioni, aveva ragione Indro Montanelli: “ Un po’ di fascismo e un po’ di Sanremo e gli italiani son contenti”.  Sarà la fatalità di chi è abituato a chinare il capo, a vivere di sotterfugi in un mondo di soprusi, sarà che la mediocrità è ormai divenuta norma e allora va bene così, in tutto il mondo, e allora chissenefrega dell’Italia.” Chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio”.  Questa frase di Nietzsche è ormai divenuta un epitaffio della civiltà occidentale intera.

Negli anni settanta Debord e Pasolini avevano compreso l’inizio del processo che ha portato l’Italia a essere un paese culturalmente piegato e sconfitto. Essi chiamarono il mostro che stava per compiere questo genocidio culturale consumismo e società dello spettacolo. Sostennero entrambi che l’italia fosse all’avanguardia in questo processo di annichilimento della cultura popolare in favore del nulla e che questo fosse un processo globale. Eccolo, dunque,  il processo: da individuo  a consumatore, da consumatore a spettatore e in futuro magari  da spettatore direttamente a  sedia. “Produci, consuma, crepa” in tutte le sue varianti, ma stavolta assumere il ruolo degli schiavi con entusiasmo, e sapere che non c’è alternativa, perché è così  e bisogna stare muti.

Passati più di trent’anni, non ci rimane che un grido debole e un debole smarrirsi in questo oceano: la folla immemore che ci guarda dentro. E ci svuota. Non ci rimane che restare in un angolo a tessere la tela in attesa di un’Itaca che ormai si è infranta contro la vita quotidiana.

Ci hanno drogati con l’oppio della democrazia, illusione che le masse possano  governare qualcosa o addirittura se stesse, e non  delegare la spiacevole faccenda del potere  a qualche carnefice fatto a  loro immagine e somiglianza: bestie cieche  del desiderio di essere.



                                                                                                                                             Ettore Fobo

Chiude “Lo Specchio di Nigromontanus"

sabato 2 giugno 2012





“Noi viviamo di questa possibilità: sfuggire alle funzioni.”
Ernst Jünger, da “ Trattato del Ribelle

Qualche giorno fa Yanez ha posto fine al suo blog in progress, Lo Specchio di Nigromontanus, che è stata negli anni una delle letture più appassionanti  per me nel pur ricco materiale dei blog.  

Nigromontanus, parlando del nostro presente come fosse un mito o una memoria ormai sepolta, per me ha saputo incarnare una differenza, una resistenza, cercando di svelare il funzionamento delle nostre mitologie contemporanee, forse tentando di smascherare il reale nella tana del sogno, o più semplicemente mostrandoci che la gran desolazione avanza e che bisogna resistere; in qualche modo bisogna tenerle testa e farlo, possibilmente, da uomini liberi.
    
Quelli raccolti nel blog erano - e sono tuttora, perché il blog non è stato cancellato- scritti che mescolavano intuizioni filosofiche con l’evocazione poetica e con interessanti vertigini narrative.

 Quella di Yanez - che ha saputo dissimulare se stesso e la figura dell’autore- è parsa una voce fuori dal coro o meglio una voce che in pieno mercato, come quella di Epitteto, parla al proprio orecchio. Il personaggio di Nigromontanus gli è servito per portare i suoi lettori in un’atmosfera di meraviglia, come quando si percepisce qualcosa sostanzialmente fuori dal tempo.   Ne è venuta fuori un’idea di sapienza impossibile, una finzione di sapienza, perché la realtà è ambigua,  ne è  venuta fuori  la  consapevolezza che forse tutto è perduto per noi moderni,  arsi dalla Tecnica e dai suoi nuovi miti, divenuti ormai meri funzionari degli apparati della Tecnica.  Ma anche se forse  tutto è perduto,  fissando negli occhi l’orrore, non facendoci sommergere,  possiamo  resistere allo sfacelo,  recuperando  i  bagliori di un’antica bellezza.

Resa misteriosa da una prosa affascinante, decentrata rispetto al discorso comune, finzione capace di contenere verità scomode, ma letteralmente sotto gli occhi di tutti, questa raccolta di scritti sospesi fra filosofia e narrativa- nata come tributo a Ernst Jünger e al suo personaggio Nigromontanus- è stata, secondo me, una piccola scheggia di consapevolezza nel grigio dormiveglia che ci fa da sfondo: oso dire di una consapevolezza stranamente sottratta ai pericolosi sproloqui di quella cosa chiamata attualità.  

Una prosa evocativa ha messo il blog in una zona di pericolo e di mistero, che assomiglia tanto alla letteratura, a quella letteratura che noi cerchiamo come ossigeno per i nostri pensieri.

Sotto il segno di Jünger, ” la grande testa vulcanica”, maestro che dà speranza con il rigore e l’esattezza della sua prosa,   “ Lo Specchio di Nigromontanus”  è stata   per me l’ennesima  dimostrazione che grande è la potenza dello strumento blog,  quando è affidato, come nel caso di Yanez, a una persona di  talento, oltretutto abitata da una visione, capace di creare una mistificazione così efficace e coerente. 

Il suo talento è consistito, per sua scelta, soprattutto nell’onorare l’opera di un maestro-  parola antica e colma di risonanze- Jünger, appunto, del quale ricorrono tuttora nel blog aforismi e detti memorabili tratti dalle sue opere. Frammenti sempre illuminanti, scelti con cura, con quella cura che solo la passione può dare. Tra questi voglio citare, oltre a quella posta in esergo, almeno questa frase, anch’essa tratta da “Trattato del Ribelle”:

La poesia conferma che l’uomo è potuto penetrare nei giardini fuori del tempo.”

Il blog si chiude così, con queste parole, che ne sintetizzano il percorso:

Nel complesso, dunque, queste pagine rappresentano un miscuglio di invenzioni là dove dovrebbe esservi verità, e di verità là dove dovrebbe esservi invenzione.”

Così, attraverso il suo blog, Yanez ha mostrato ai suoi lettori qualcosa di sempre più raro: una visione del mondo, uno stile.