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La fine del mondo storto - Mauro Corona

sabato 26 aprile 2014





Qualcosa non torna in questo romanzo di Mauro Corona, La fine del mondo storto,  edito per la prima volta da Mondadori nel 2010, anzi, più di qualcosa non torna, nel contenuto e nella forma. La scrittura, infatti, pare debole, anonima, stanca, povera, certamente non all’ altezza di altre prove dello scrittore trentino,  dove invece appariva schietta e vivace. La storia è abbastanza banale e anche poco credibile nel modo in cui è raccontata:  il mondo si sveglia una mattina e il petrolio, il carbone e l’energia elettrica,   sono improvvisamente finiti e l’umanità vive una catastrofe energetica che la costringe prima alla fame e poi a un ritorno al passato, nel tentativo di sopravvivere,  infatti,  ciascuno riscopre l’agricoltura, un’agricoltura ovviamente di sussistenza, non meccanizzata.

Dopo un inverno tragico in cui moltissimi muoiono di freddo e di stenti e  i superstiti arrivano a praticare il cannibalismo, si forma una nuova società in cui scompaiono le differenza di classe, essendo diventato inutile il denaro, non ci sono più né ricchi né poveri ma tutti riscoprono la solidarietà, finiscono le liti, tutti lottano contro nemici comuni,  il freddo e la fame,  fino a che …  La storia, come si vede, è superficiale,  semplicistica, confusa  e serve essenzialmente a Mauro Corona, per sviluppare un noioso,  ridondante e sostanzialmente inutile,  pamphlet moralistico contro la società meccanizzata, contro il consumismo che riempie il mondo di cianfrusaglie, cui si contrappongono ingenuamente i  valori antichi della montagna e della campagna, esaltando il buon tempo antico quando si sapevano “usare le mani”. 

Ingenuo e a tratti anche pedante e sciocco,  il romanzo  (o finto romanzo perché  in realtà si tratta di un pamphlet polemico ma dirlo avrebbe condizionato negativamente le vendite)   si segnala per essere un atto di accusa al progresso tecnologico, svalutato in nome di una fantomatica adesione all’essenza naturale che lascia il tempo che trova. Corona esalta il lavoro manuale, depreca quello intellettuale, spandendo a piene mani luoghi comuni anche beceri e dispotici, come quando scrive che l’arte, la letteratura, e simili, sono attività che si fanno a stomaco pieno. Lo vada a dire a Dostoevskij, che scrisse i suoi capolavori al freddo, in una stanza senza stufa e malnutrito.

La fine del mondo rurale diventa l’alibi per scrivere una storia in fondo crudele contro l’umanità, in cui vengono replicati a sfinimento refrain retrogradi, qualunquistici,  e fondamentalmente nichilistici. Il succo è questo: benedetta la fame che garantisce la solidarietà, sia maledetta l’abbondanza che mette gli uomini  gli uni contro gli altri. Tesi discutibile e semplicistica che Corona replica con una certa, fastidiosa e moralistica arroganza. Patetica e fuori dal tempo la condanna della meccanizzazione, come quando per esempio, lo scrittore deplora i tagliaerba perché rumorosi o definisce mostri i trattori.  Il fatto è che Corona, nel suo odio, è cieco, non vede, o finge di non vedere, ciò che la tecnica ha portato di positivo, ne demonizza istericamente i lati negativi. Il che fa di Corona, suo malgrado, un misto di ecologista alla moda (che tra l’altro tanto critica),  di antiquato luddista e di utopista in fondo ipocrita.

Nel romanzo muoiono 2/3 dell’umanità, ma poco importa se questo massacro, sembra dirci Corona, permette all’umanità di riscoprire i ritmi naturali del buon vecchio tempo antico.  La fame è meglio di una dieta dimagrante, la fatica dell’agricoltura non ti massacra come accadeva in passato, nella realtà dura dei campi, al contrario, nell’irrealistico mondo di Corona, ti conserva in salute. C’è qualcosa di luciferino, di veramente perverso, nel piacere che lo scrittore prova raccontando che libri, opere d’arte immortali, mobili,  e addirittura un crocifisso, finiscono per essere soltanto legna da ardere, per alimentare il fuoco che serve ai superstiti per sopravvivere. Davvero macabra poi la soddisfazione darwinistica che Corona prova nel raccontare come i forti sopravvivano mentre i deboli (in genere vecchi e bambini) crepano.

Trovo che il  qualunquismo che fa dire a Corona che davanti alla fame tutto perde di senso,  sia frutto di un nichilismo che sarebbe ridicolo se non fosse pericoloso. Tutto l’insieme del pamphlet - romanzo, scialbo anche stilisticamente, gronda cattivo gusto, risentimento vacuo  e orrende semplificazioni. Davvero un pessimo libro,  davvero una caduta di stile. Ha però vinto il premio Bancarella nel 2011, a dimostrazione che i premi letterari  rispondono troppo spesso a ben altre logiche che la qualità.

Nel legno e nella pietra - Mauro Corona

sabato 5 gennaio 2013





La montagna è la vera protagonista di queste storie, che Mauro Corona ha raccolto e strutturato come romanzo sui generis, intitolato Nel legno e nella pietra, dove racconta della sua vita,  anche turbolenta, dei suoi molti mestieri (da operaio in una cava di marmo a cameriere in una gelateria tedesca, a scultore del legno), sempre tenendo presente le antiche tradizioni della valle del Vajont, con i suoi spettri, le sue volpi, i suoi cervi,  le sue genti.

Si configura così un racconto epico, dove l’epos è quello semplice della pietra e del legno, della montagna che sembra raccontare essa stessa queste storie, in un mondo che forse ha perso l’anima inseguendo sogni vani, la montagna rimane luogo di calma e di silenzio, di magia e di mistero, di realismo anche spietato.

Alcune storie sono commoventi, altre divertenti, altre ancora entrambe le cose insieme, nella sostanza Mauro Corona ci racconta della sua vita con onestà, ci racconta dei suoi successi come rocciatore e, soprattutto, delle sue sconfitte, perché la montagna è amara e difficile, sempre lasciando trapelare le pulsazioni di un cuore indomito.

Narratore e protagonista così si confondono, e la letteratura si rivela luogo della memoria, che fa rivivere i morti, rammemorando il loro percorso, nella consapevolezza, comunque, che una volta svanito il ricordo, nulla resta su questa terra del nostro passaggio. Mauro Corona però racconta anche con umiltà della sua fede nell’”amico di lassù”, come lo chiama, presenza che si oggettiva nella natura, nei suoi usignoli inondati di luce, per esempio, o nei miracolosi salvataggi che chi frequenta la montagna con i suoi pericoli ben conosce.  Questa fede è antica, popolare, forse consapevolmente ingenua ma connessa con le terre montane, fusa con le sue rocce e con le sue vette.

Nel legno e nella pietra, originariamente uscito per Mondadori nel 2003, è un romanzo misteriosamente compatto, nonostante la frammentazione, dove le varie storie sono ben cucite insieme dalla voce del narratore, che è a tratti rocciosa come la montagna, a tratti commossa, sempre molto umana, vivace, vitale. I personaggi di queste valli, che siano alpinisti, bracconieri, spaccapietre, o ubriaconi senza arte né parte, sono per lo più espressioni di un’Italia che non c’è più, da qui la nostalgia che permea molti brani di questo romanzo a episodi.  

E’ un’Italia semplice, non ancora drogata e narcotizzata dalla televisione, che Corona racconta nei suoi splendori e nelle sue meschinità.  Su tutto svetta, comprensiva, materna ma anche terribile, la montagna, che non può essere addomesticata, presenza selvaggia che ama e si lascia amare.

Il romanzo si legge volentieri, tutto di un fiato, come si dice, perché è animato dalla voce lucida, fluida e commossa, di Corona, che ha creato un affresco di storie affascinanti, sospese fra un passato mitico ormai evaporato e un presente tecnologico forse incomprensibile, narrando di una vita, la sua, avventurosa e quasi d’altri tempi, che sono in fondo i tempi della montagna, quieti e solenni.  Così la montagna pare un luogo sacro o meglio un luogo in cui il sacro si può dispiegare in tutto il suo mistero, luogo magico in cui la vita e la morte appaiono nella loro pacificata naturalezza e l’uomo non è solo con i suoi fantasmi,  come nella città, ma condivide l’aria con capre, camosci, caprioli, cervi, etc.

Nel panorama italiano, fatto spesso d’intellettuali esangui, la prosa, insieme rocciosa e sanguigna di Corona, è dunque una novità; autentico uomo delle montagne, arrampicatore, alpinista, cavatore, scultore,  con mille storie da raccontare, egli ricorda a noi, cittadini di metropoli ostili, la natura selvaggia da dove proveniamo. In sostanza Corona è però consapevole che il mondo che racconta è ormai scomparso, inghiottito dal progresso tecnologico, da queste storie così emerge prepotente la nostalgia,  che tanto caratterizza la sua prosa, altrimenti vigorosa, semplice e schietta, come un piatto di polenta o come un bicchiere di Cabernet.

“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne.  Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando fra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.”