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I libri dell’anno (2023)

sabato 6 gennaio 2024

 



 

I

 

Fra i libri letti da me in quest’anno appena trascorso, alcuni spiccano per potenza filosofica, efficacia espressiva, intensità lirica di rivelazioni.

Fra i saggi, è un’esperienza immersiva totale nel pensiero puro, non disgiunto da un originario, dolcissimo e implacabile, lirismo, la lettura delle “Operette Morali” di Giacomo Leopardi, capace di toccare e far risuonare molte corde dell’esperienza vitale. Dal libero lirismo di Elogio degli uccelli, alla comicità allegorica del Dialogo di Copernico e molto altro.

Lucido atto poetico che diventa politico è il saggio di Angelo Tonelli, “I Greci in noi”, che recupera la relazione con il pensiero orfico dell’Unità originaria, in un saggio denso e leggero al tempo stesso, di una leggerezza profondamente pensata. È un excursus illuminante all’interno di una visione iniziatica dell’esistenza, visione che dobbiamo recuperare e preservare dall’assalto della pseudo filosofia transumanista. Attraverso l’intuizione noetica, come esseri viventi siamo chiamati a rinnovare l’adesione ai primordi del pensiero filosofico umano, come già aveva visto Giorgio Colli, pena l’esclusione da una dimensione realmente vitale.

Fra le opere di narrativa, tre romanzi in particolare mi hanno colpito, svegliato, destato.

“Guerra” di Céline dove il metodo demistificante dello humor nero diventa uno stile affilato come una maledizione, “Gli angeli dello sterminio” di Testori che in una Milano apocalittica vede dissolversi l’intero mondo e la sua personale esistenza e “Neve a primavera” di Yukio Mishima, primo romanzo della sua tetralogia “Il mare della fertilità”, in cui in uno stile di scrittura dalle impalpabili sottigliezze piscologiche, che allarga ogni orizzonte espressivo, esperendo le sue sfumature sommerse, Mishima canta insieme lo splendore raggelato e il declino raggiante di un mondo, quello dell’aristocrazia giapponese d’inizio novecento.

Un’ultima nota sul saggio di Angelo Giglia: “Perché dobbiamo abolire la scuola? “. Un pamphlet scritto con il fuoco, stilisticamente ineccepibile, sobrio e necessario, come non se ne vedevano dai tempi di Papini. In un secondo momento scriverò dei libri di poesia letti.

Ettore Fobo

In exitu – Giovanni Testori

giovedì 20 agosto 2020

 


 

Avevo vent’anni (lasciamo riecheggiare il celebre incipit di Paul Nizan) e vagavo nelle aule universitarie milanesi come un reduce ferito di qualche guerra psichica, stralunato leggevo, scrivevo, ai margini del tempo rubato agli studi che così placidamente si dissolvevano, quando un giorno in una libreria del centro di Milano mi imbattei in questo In exitu, che scoprii essere l’ultimo romanzo di Giovanni Testori, che ai tempi conoscevo soprattutto come il poeta di quel libro memorabile  che è Suite for Francis Bacon. Lo sfogliai, lessi qualcosa, mi colpii particolarmente essendo reduce dalla lettura dell’AntiEdipo di Deleuze- Guattari, dove, trasognato, leggevo della natura psicotica della grande letteratura.  Mi spaventò, anche, questo libro, perciò lo lasciai lì, optai per altre scelte. Ora quell’esperienza di lettura fuggevole in libreria (era il Libraccio vicino  via Larga, per chi conosce Milano) mi era rimasta dentro, In exitu si rivelò uno di quei libri magnetici cui si dedica un culto tutto sotterraneo ma è a distanza di più di vent’anni che lo leggo in questa edizione Feltrinelli del luglio 2020, impreziosita dalla splendida copertina di Riccardo Vecchio.

La grande letteratura è attraversata sempre da flussi psicotici, così suona il concetto di Deleuze- Guattari, frase utile per avvicinare questo magnifico e terribile canto, alterato, delirante, dove il linguaggio esplode, s’inceppa, cerca una via di fuga impossibile, diventa un flusso che disarticolando il parlato fin quasi sulle soglie della glossolalia, ce lo restituisce nuda e cruda esperienza epifanica ai limiti del dicibile, linguaggio che si squama come un serpente, s’inceppa, rivela la sua natura originaria di montaliano ”balbo parlare”.

Qui lo ”scrivano” Giovanni Testori accoglie le ultime parole, le invettive, i ricordi, le farneticazioni di un tossicodipendente oramai prossimo alla dose fatale, Riboldi Gino, in una Milano soffocata e soffocante assistiamo alla rottura dei codici linguistici normalizzanti, operata con precisione chirurgica dallo scrittore milanese.

Pastiche linguistico che, se sembra acclimatare fra le nebbie milanesi la lingua di Artaud, destruttura un intero mondo di conformismi linguistici. La trama è disseminata nel testo, s’intuisce in filigrana traverso un linguaggio sbriciolato, stordente, martirizzato, ibridato profondamente con il dialetto milanese a sua volta deformato dall’irruzione di altre lingue (soprattutto il latino e il francese).

Testori configura così una lingua altra, una lingua ombra per raccontare una vita marginale, la lingua dei bassifondi che oltre che sociali sono prima ancora psichici.

Qui tutto è condensato in questo stile scabro, duttile, fluttuante ma marmoreo quasi nel riprodurre il fragile balbettio vicino alla demenza di un ”nessuno” che scopriamo abitato da voci dell’infanzia (la mamma, il papà, la maestra…) abbandonato da una città moralista e assassina al proprio personale privato naufragio. Gino Riboldi è nelle sue stesse parole un “nessuno” ma anche un Cristo flagellato, aggredito da forze che sono linguistiche prima che materiali. Così scopriamo che ai margini della città, luogo psichico, l’essere umano, deviando dalla norma sociale, deraglia, delira, sprofondando in una trappola e denunciando la normalità come zona di una banale e brutale sopraffazione di tutto ciò che, diverso, non si allinea.

Questo linguaggio ombra è una caricatura blasfema, parodia allucinata di quello comune, mostra che fuor di mente, nella demenza brilla la luce di una ferita che il sociale infligge alla vita puramente e selvaggiamente umana. È la luce delle nostre profondità nascoste dal velo - muro dei luoghi comuni legiferanti. Qui il linguaggio di Riboldi Gino, eroinomane in fase terminale e omossessuale che si prostituisce per una dose, esplode dall’interno, spezzando con la forza della sua primordiale disperazione il diamante del Senso codificato che tiene unita la lingua.

Blasfemo, struggente, colmo di un desiderio deluso di sacralizzare la vita, melodioso canto infranto contro le scalinate della Stazione Centrale di Milano, dove tutto accade e dove nel 1988 si svolse una leggendaria rappresentazione teatrale del testo; il monologo del protagonista Riboldi Gino mette in crisi le nostre più elementari coordinate linguistiche mostrando che esse formano solo un illusorio senso laddove trema solo l’insensato della vita forse come epifania sacra ma è un sacro dirottato dalla sua solennità verso le regioni del grottesco.

Il grido di dolore di questo tossicodipendente unisce le bestemmie di chi crede ma non sa alle accuse contro un mondo feroce e indifferente e come una sotterranea, delirante, preghiera sembra confluire in questo fiume che trascina come detriti linguistici i pensieri di un giovane che sta per essere ucciso dall’eroina. Cortocircuitata da una forza tellurica interiore, la lingua spezzata di Riboldi Gino sembra testimoniare l’indicibile di un dolore germinato nel territorio dell’esclusione sociale.

Sono quelli di Testori i lacerti di una lingua perduta, dimenticata, faticosamente riaffiorante dalle nebbie milanesi. Lingua perduta nel suo sforzo di dire ciò che si deve tacere, questa diversità irriducibile, sessuale, sociale che fa di Riboldi Gino un Cristo crocifisso al nulla che sente emergere in sé. Lettura di una gioventù perduta che Testori conduce sul filo di una rigorosa follia sintattica che sembra fare luce sugli abissi che la parola sempre cela in sé.

Per dire il vuoto di questa generazione perduta, è necessario aggredire le fondamenta del linguaggio, mettere in discussione la dicibilità stessa del reale, finalmente tarpato nella sua pretesa di essere un dato assoluto, incontrovertibile, evidente.

Qui Milano, città matrigna e cannibale, è il luogo in cui si consuma la tragedia di Riboldi Gino, nell’indifferenza e nell’ombra. Tragedia di un ridicolo ”nessuno”, di un ego annientato da un male di vivere denso, melmoso come l’infida, la nemica, nebbia milanese che ne diventa il correlativo oggettivo.

Il corpo emerge: nelle sue secrezioni, nel sangue, nella materia celebrale, nel vomito. Noi umani siamo scagliati fuori dal sesso femminile, espulsi come scarti gettati fuori, dalla carne alla carne, alla vita malsana della metropoli, alla vita non vita dell’eroina, alla vita prigioniera degli stereotipi, che intasano la mente e soffocano il pensiero. È questo un linguaggio che tende a ripristinare il fascino grezzo dell’oralità, un’oralità sempre interrotta, spezzata,  come se ciò che si vuole dire fosse proprio l’interdizione sociale che ci induce precocemente al silenzio.

La parola trema di paura davanti allo specchio che Testori le porge e noi con lei. Chi siamo? Tumulto di significanti senza più alcun rassicurante significato.

La figura di Cristo emerge, s’inabissa, riemerge in questo flusso di parole come se egli stesso fosse chiamato in causa per testimoniare l’abisso del dolore umano, nel pieno di questo delirio che esonda potentemente intriso di una verità che, come scrive Sonia Bergamasco nell’introduzione, ”ci attrae e ci repelle” allo stesso tempo. Perché è come sollevare la pelle del linguaggio e vederne le nervature, il sangue, ciò che sta sotto.

“Narri chi era quest’indiziato. Lui. Quest’esecrato questo. ‘Sto giudicato. ‘Sto bollato, anca. Condannato, anca. Dagli. Dai. Libertari. Dalla coscienza-scienza-merda.”

 

Conversazione con la morte - Giovanni Testori

sabato 19 febbraio 2011

In Conversazione con la morte di Giovanni Testori si uniscono la fatica di dire e insieme di non dire, l’anelito a una parola impossibile si trova accanto al desiderio di purificare il linguaggio, ormai divenuto una scoria di luoghi comuni, ontologicamente corretti, e dunque corrotti.

Le parole sono morte, le parole della nostra classicità cristiana, tutto sembra essersi spento e “pietà”, “carità” , “amore”, sono divenute talmente caricaturali da essere inservibili come ”la spoglia di una cicala”. Un tempo c’era il canto, ma all’”illuminata demenza della Ragione” ciò non interessa, non interessano nemmeno le cicale, tutto deve essere sepolto sotto tonnellate di nichilismo, per non udire più l’antico linguaggio fremere sulla superficie della nostra pelle. Ma il poeta non si rassegna, le parole devono essere reinventate, esorcizzate, fatte risorgere, ed il colloquio con la “cara, dolce ed eterna ombra” deve necessariamente sostituire i monologhi della nostra solitudine.

Quest’ombra, che assume via via la forma di capretta, di cagna, di ragazzina, è la nostra unica amante, è la morte, è la madre (il testo fu composto dopo il decesso della madre stessa del poeta) madre dal “grembo assassino”, perché è la logica, aldilà di ogni retorica sulla maternità, chi dà la vita dà anche la morte. La saggezza sta nell’accettare la vicenda terrena, il terrore, la solitudine, la desolazione, ed anche il logoramento stesso del linguaggio, che cerca a tentoni una breccia in quel buio di cui in fondo l’anima consiste. Anima è un’altra di quelle parole naufragate, manchevoli, insufficienti, negli stessi anni di Conversazione con la morte, gli anni settanta del secolo scorso, Cioran andava ripetendo che la parola anima ormai era buona solo per sciocche canzonette; anche la parola “amore”, gravata della volgarità di troppe bocche che la pronunciano, finisce nella polvere, dalla quale il poeta cerca di trarla fuori, per farla nuovamente risplendere di tutte le cose non dette.

Ci vuole un’altra lingua ma questa lingua non è nuova, è antica come le catacombe, derisa, obliata, consegnata al gergo degli psichiatri e dei preti, scempiata. Viene da pensare alle glossolalie di Artaud, alla lingua dello spirito di San Paolo, alle feroci requisitorie di Rimbaud, Testori non può dirla questa lingua nella sua deformazione schizoide, almeno in questo testo, perché gli mancano le forze, non gli resta dunque che sussurrare come in un mantra senza significato parole come “perdono”, “pietà”, ”carità”, dopo aver gridato anche la sua rabbia, ed è uno dei sussulti migliori del testo: “ Vermi, che umilierete e deriderete anche i vostri padri!/ Tutto umilierete e deriderete/ . Versi violenti e crudeli che, a parte la pretesa di attribuire al verme voluttà puramente umane, testimoniano di quel grande terrore della carne di essere divorata e annientata. Ma dopo questi versi Testori si scusa, ahinoi, questa non è più terra di vivi, ma di fantasmi e i fantasmi si scusano se beccati in flagrante nel reato di respirare.

Qui non è più letteratura, non è più cultura, è” lo spirito che si confessa allo spirito” come nella celebre invocazione di Artaud, è lo spirito che, stanco di tutte le parole d’occidente, vuole ritrovare e riconoscere il suo babelico inno alla vita, ma fallisce perché ancora una volta si sente in colpa, glielo hanno insegnato i preti, cui evidentemente Testori, come tutti noi, ha dato troppo ascolto:

Pietà per la mia insipienza/ pietà per il mio povero incapace amore/ Pietà popolo che m’ascolti/pietà di me di voi, e poi luce, infinita dolcezza, carità /perdono…

Si rischia dunque nel finale di trasformare questo straordinario colloquio fra ombre, maschere, idiomi nascosti, in una un po’ patetica dichiarazione di resa, ma ciò che resta realmente sono versi caduti in tutti gli “ori della nostra polvere”, quando le quinte del teatro sono distrutte e riappare il tempio della divina presenza, muta come sempre a indicarci la via : ” Scende il bisogno di un pudore ancora più grande / e con esso il sipario muto, invincibile e sacro/ del silenzio.

Il testo poetico fu pensato per la recitazione teatrale e fu portato in scena più volte e con grande successo, sul finire degli anni settanta, optando per le chiese – e non per i teatri - come i luoghi più adatti a far risuonare questo discorso di avvincente modernità e insieme antico.

In sostanza Conversazione con la morte è un poemetto straordinario, anche abbastanza coraggioso, e tra le altre cose ci mostra – forse aldilà delle intenzioni di Testori stesso - che per ritrovare la gnosi delle antiche parole è necessario, e lo sarà sempre di più, ritornare a bere alla fonte del cristianesimo primigenio, sbarazzandoci di tutti i millenni di ontologia e teologia, di tutto quel cattolicesimo retrivo e corrotto in nuce. Se non si ha il coraggio di agire così, rimarranno morte le parole, morto Dio e per quel che più ci importa nessun canto si leverà dal deserto per farlo, misteriosamente, rifiorire.

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Conversazione con la morte si trova nella raccolta intitolata Trilogia degli oratori, edita da Bur Rizzoli nel novembre del 2010