
Avevo vent’anni (lasciamo
riecheggiare il celebre incipit di Paul Nizan) e vagavo nelle aule
universitarie milanesi come un reduce ferito di qualche guerra psichica,
stralunato leggevo, scrivevo, ai margini del tempo rubato agli studi che così
placidamente si dissolvevano, quando un giorno in una libreria del centro di
Milano mi imbattei in questo In exitu,
che scoprii essere l’ultimo romanzo di Giovanni Testori, che ai tempi conoscevo
soprattutto come il poeta di quel libro memorabile che è Suite
for Francis Bacon. Lo sfogliai, lessi qualcosa, mi colpii particolarmente essendo
reduce dalla lettura dell’AntiEdipo di Deleuze- Guattari, dove, trasognato,
leggevo della natura psicotica della grande letteratura. Mi spaventò, anche, questo libro, perciò lo
lasciai lì, optai per altre scelte. Ora quell’esperienza di lettura fuggevole
in libreria (era il Libraccio vicino via
Larga, per chi conosce Milano) mi era rimasta dentro, In exitu si rivelò uno di quei libri magnetici cui si dedica un
culto tutto sotterraneo ma è a distanza di più di vent’anni che lo leggo in
questa edizione Feltrinelli del luglio 2020, impreziosita dalla splendida
copertina di Riccardo Vecchio.
La grande letteratura è
attraversata sempre da flussi psicotici, così suona il concetto di Deleuze-
Guattari, frase utile per avvicinare questo magnifico e terribile canto,
alterato, delirante, dove il linguaggio esplode, s’inceppa, cerca una via di
fuga impossibile, diventa un flusso che disarticolando il parlato fin quasi
sulle soglie della glossolalia, ce lo restituisce nuda e cruda esperienza epifanica
ai limiti del dicibile, linguaggio che si squama come un serpente, s’inceppa,
rivela la sua natura originaria di montaliano ”balbo parlare”.
Qui lo ”scrivano” Giovanni
Testori accoglie le ultime parole, le invettive, i ricordi, le farneticazioni
di un tossicodipendente oramai prossimo alla dose fatale, Riboldi Gino, in una
Milano soffocata e soffocante assistiamo alla rottura dei codici linguistici
normalizzanti, operata con precisione chirurgica dallo scrittore milanese.
Pastiche linguistico che, se sembra acclimatare fra le nebbie
milanesi la lingua di Artaud, destruttura un intero mondo di conformismi
linguistici. La trama è disseminata nel testo, s’intuisce in filigrana traverso
un linguaggio sbriciolato, stordente, martirizzato, ibridato profondamente con
il dialetto milanese a sua volta deformato dall’irruzione di altre lingue (soprattutto
il latino e il francese).
Testori configura così una lingua
altra, una lingua ombra per raccontare una vita marginale, la lingua dei
bassifondi che oltre che sociali sono prima ancora psichici.
Qui tutto è condensato in questo
stile scabro, duttile, fluttuante ma marmoreo quasi nel riprodurre il fragile
balbettio vicino alla demenza di un ”nessuno” che scopriamo abitato da voci
dell’infanzia (la mamma, il papà, la maestra…) abbandonato da una città moralista
e assassina al proprio personale privato naufragio. Gino Riboldi è nelle sue
stesse parole un “nessuno” ma anche un Cristo flagellato, aggredito da forze
che sono linguistiche prima che materiali. Così scopriamo che ai margini della
città, luogo psichico, l’essere umano, deviando dalla norma sociale, deraglia,
delira, sprofondando in una trappola e denunciando la normalità come zona di una
banale e brutale sopraffazione di tutto ciò che, diverso, non si allinea.
Questo linguaggio ombra è una
caricatura blasfema, parodia allucinata di quello comune, mostra che fuor di
mente, nella demenza brilla la luce di una ferita che il sociale infligge alla
vita puramente e selvaggiamente umana. È la luce delle nostre profondità
nascoste dal velo - muro dei luoghi comuni legiferanti. Qui il linguaggio di
Riboldi Gino, eroinomane in fase terminale e omossessuale che si prostituisce per
una dose, esplode dall’interno, spezzando con la forza della sua primordiale disperazione
il diamante del Senso codificato che tiene unita la lingua.
Blasfemo, struggente, colmo di un
desiderio deluso di sacralizzare la vita, melodioso canto infranto contro le
scalinate della Stazione Centrale di Milano, dove tutto accade e dove nel 1988
si svolse una leggendaria rappresentazione teatrale del testo; il monologo del
protagonista Riboldi Gino mette in crisi le nostre più elementari coordinate linguistiche
mostrando che esse formano solo un illusorio senso laddove trema solo l’insensato
della vita forse come epifania sacra ma è un sacro dirottato dalla sua
solennità verso le regioni del grottesco.
Il grido di dolore di questo
tossicodipendente unisce le bestemmie di chi crede ma non sa alle accuse contro
un mondo feroce e indifferente e come una sotterranea, delirante, preghiera
sembra confluire in questo fiume che trascina come detriti linguistici i
pensieri di un giovane che sta per essere ucciso dall’eroina. Cortocircuitata
da una forza tellurica interiore, la lingua spezzata di Riboldi Gino sembra
testimoniare l’indicibile di un dolore germinato nel territorio dell’esclusione
sociale.
Sono quelli di Testori i lacerti
di una lingua perduta, dimenticata, faticosamente riaffiorante dalle nebbie
milanesi. Lingua perduta nel suo sforzo di dire ciò che si deve tacere, questa
diversità irriducibile, sessuale, sociale che fa di Riboldi Gino un Cristo
crocifisso al nulla che sente emergere in sé. Lettura di una gioventù perduta
che Testori conduce sul filo di una rigorosa follia sintattica che sembra fare
luce sugli abissi che la parola sempre cela in sé.
Per dire il vuoto di questa
generazione perduta, è necessario aggredire le fondamenta del linguaggio, mettere
in discussione la dicibilità stessa del reale, finalmente tarpato nella sua
pretesa di essere un dato assoluto, incontrovertibile, evidente.
Qui Milano, città matrigna e
cannibale, è il luogo in cui si consuma la tragedia di Riboldi Gino, nell’indifferenza
e nell’ombra. Tragedia di un ridicolo ”nessuno”, di un ego annientato da un
male di vivere denso, melmoso come l’infida, la nemica, nebbia milanese che ne
diventa il correlativo oggettivo.
Il corpo emerge: nelle sue secrezioni,
nel sangue, nella materia celebrale, nel vomito. Noi umani siamo scagliati
fuori dal sesso femminile, espulsi come scarti gettati fuori, dalla carne alla
carne, alla vita malsana della metropoli, alla vita non vita dell’eroina, alla
vita prigioniera degli stereotipi, che intasano la mente e soffocano il
pensiero. È questo un linguaggio che tende a ripristinare il fascino grezzo dell’oralità,
un’oralità sempre interrotta, spezzata,
come se ciò che si vuole dire fosse proprio l’interdizione sociale che
ci induce precocemente al silenzio.
La parola trema di paura davanti
allo specchio che Testori le porge e noi con lei. Chi siamo? Tumulto di significanti
senza più alcun rassicurante significato.
La figura di Cristo emerge, s’inabissa,
riemerge in questo flusso di parole come se egli stesso fosse chiamato in causa
per testimoniare l’abisso del dolore umano, nel pieno di questo delirio che
esonda potentemente intriso di una verità che, come scrive Sonia Bergamasco
nell’introduzione, ”ci attrae e ci repelle” allo stesso tempo. Perché è come
sollevare la pelle del linguaggio e vederne le nervature, il sangue, ciò che sta sotto.
“Narri chi era quest’indiziato. Lui.
Quest’esecrato questo. ‘Sto giudicato. ‘Sto bollato, anca. Condannato, anca.
Dagli. Dai. Libertari. Dalla coscienza-scienza-merda.”