Parole nomadi - Umberto Galimberti

venerdì 30 ottobre 2015







Anche nelle sue opere meno esaltanti s’impara sempre qualcosa da Umberto Galimberti; così  in questo Parole nomadi, edito per la prima volta da Feltrinelli nel 1994,  leggiamo  una scrittura al solito elegante che sembra però dispendersi a volte in sofisticati ma un po’ esangui sofismi. Ciò nonostante abbiamo comunque modo di vivere un’avventura nel pensiero, il che non è poco in questi decenni di deriva culturale.

Constatando che l’uomo non può che abitare  non tanto  il mondo  quanto la “descrizione che di volta in volta la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo”,  Galimberti descrive alcune espressioni da Adolescenza a Visione, passando per Corpo, Linguaggio, Passione, Religione, etc. Un percorso di nomadismo psichico che parte da Nietzsche, citato in esergo, nella differenza fra viaggiatore, diretto a una meta e viandante che non ha altra meta che quella del suo andare, e che si propone di raggiungere la consapevolezza quasi estatica di quella che il filosofo tedesco soprannomina “filosofia del mattino”.

Fra riflessioni sulla psicologia, criticata nella sua adesione al modello scientifico, pensieri intorno alla filosofia, orizzonte in cui si deve recuperare il senso reale del profondo sradicamento contemporaneo, il filosofo propone una raggiera vasta di interpretazioni, citazioni, riscritture, che,  anche se non  sempre  paiono veramente efficaci, sono comunque testimonianza dello sforzo di raccontare la modernità nelle sue sfumature e ambiguità.

 Non è questo,  a dire il vero,  uno dei libri più felici del filosofo, i concetti espressi in questo testo infatti  paiono a volte  vacui se non contorti; dietro il fumo dei fuochi d’artificio linguistici s’indovina in qualche caso  una mancanza d’ispirazione che trova nell’ossessivo ricorso all’etimologia una stampella fin troppo facile per evitare di accasciarsi nel nulla.

Ciò nonostante,  alcune riflessioni ci sono preziose,  soprattutto nel momento in cui cercano,  anche con fatica,  di divincolarsi dalla presa del pensiero occidentale, nella sua dualità corpo e anima, nella differenziazione cartesiana fra res cogitans  e res extensa, così fondamentale per il pensiero scientifico e così mortale per quella con-fusione simbolica che rappresenta, secondo Galimberti, il vero sostrato dell’esperienza umana.

Si nota una certa ripetitività dei temi, a riprova che i filosofi pensano in sostanza  un unico pensiero di cui esplorano ossessivamente le varianti;  Galimberti non fa eccezione. Il testo così è una costante oscillazione del linguaggio  a volte faticosamente impenetrabile e specialistico, a volte illuminante e chiarificatore. Come nell’excursus su Lacan, dove Galimberti ci regala una sintetica lezione di psicoanalisi contemporanea, un’ immersione nel pensiero di uno degli intellettuali più abissali e vertiginosi del Novecento. Altrove   il filosofo sostiene che  la psicologia dovrebbe riconoscere come propria matrice  l’ attività filosofica e  forse abbandonare  l’alleanza con la scienza tradizionale, o quanto meno allentare il legame con essa;  tesi che però,   non  convince del tutto.

Anche la scuola dovrebbe rinnovarsi, rinunciando allo sterile e opprimente nozionismo per  diventare luogo in cui si educano soprattutto  le emozioni dei giovani  e non s’ingozzano soltanto  le loro menti fino a costringerle all’apatia e al disinteresse verso la conoscenza reale. Qui Galimberti,  nella denuncia dell’oppressione scolastica,  ha il coraggio di andare in controtendenza,  in una società che invoca scuole migliori  solo perché venera l’ubbidienza e il conformismo e per avere alibi culturali  per il suo desiderio di sopraffare ogni originalità e di soffocare,  possibilmente sul nascere, ogni accenno di creatività. Tutto questo per conto del sistema produttivo che esalta la performance e il “profitto”, termine quest’ultimo che la scuola ha mutuato proprio, nota Galimberti, dall’economia.

 “Ciò spiega perché a scuola vanno bene e prendono bei voti quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività, scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche, perché libera da questi inconvenienti, la mente può  disporsi più agevolmente a immagazzinare tutte quelle nozioni che si ordinano con rigore e precisione più sono disanimate, meno coinvolgono l’anima, all’insegna di quel risparmio emotivo che rende l’incasellamento delle informazioni molto più agevole.”

In questa prima edizione del 1994, colpisce anche la copertina,  rielaborazione grafica di un bel dipinto del fratello del filosofo,  Carlo Adelio Galimberti, intitolato Cognitio matutina.
In sintesi in questo testo Galimberti affronta una vasta congerie di temi, col rischio di smarrire la bussola e farla smarrire al lettore, proponendo contenuti che,  se non brillano sempre per originalità, sono comunque traccia di una riflessione sul nostro tempo fra le più significative.  Bisogna riconoscere ad ogni modo che  il filosofo è risultato più convincente in altri libri, Psiche e Techne, La terra senza il male, I miti del nostro tempo, Cristianesimo, solo per citarne alcuni.

 Un’ultima considerazione: il saggio è un insieme di articoli pubblicati negli anni Novanta su un supplemento de “Il  Sole - 24 ore”  e appartiene all’era precedente all’avvento di Internet che ha ridisegnato completamente le prospettive del vivere contemporaneo, cosa che fa apparire il libro,  inevitabilmente e  certo non per colpa di Galimberti,  un po’ datato.


Presentazione ”Diario di Casoli” a Lucca

lunedì 26 ottobre 2015





Mercoledì 28 ottobre 2015 alle ore 17:00 alla Casermetta di PORTA SANTA MARIA
Circolo del Bridge (MURA URBANE DI LUCCA)


Martino De Vita presenta:  “DIARIO DI CASOLI”
POESIE DI ETTORE FOBO –  Una riflessione sul concetto  di “Altrove”

Con la partecipazione di Ettore Fobo, Giovanni Agnoloni,  Lukha B. Kremo.






Il desiderio di essere come tutti – Francesco Piccolo

sabato 17 ottobre 2015





Leggo Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi,  2013), romanzo - pamphlet  vincitore del premio Strega nel 2014 e non ne ricavo un’impressione positiva, anzi direi che il mio giudizio è totalmente negativo. Si tratta   innanzitutto,  più che del "matrimonio (burrascoso) fra la vita privata e la vita pubblica”, come recita la quarta di copertina, di  un miscuglio piuttosto indigeribile di romanzo di formazione e  saggio socio -  politico sull’Italia degli ultimi trentacinque anni, un’insulsa brodaglia di menefreghismo qualunquista  e opportunismo mascherati dall’impegno politico. Inizialmente l’autore   un’importanza eccessiva alle sue paturnie adolescenziali (con l’aggravante che la sua micromegalomania è stemperata dal tono modesto e politicamente corretto)  e  il suo desiderio di conformismo (denunciato nel titolo e confermato dalla scialba citazione in esergo di Natalia Ginzburg) è  la nota più autentica del romanzo. 

Insomma, non mi commuove la sorte di  un adolescente borghese che sul finire degli anni Settanta aderisce   al comunismo, sentendosi, povero lui, escluso dalla famiglia per questa scelta estrema (?), e contestato dai suoi compagni più radicali per le sue origini  altolocate.  Doppia esclusione che costituisce il suo dramma, scissione comune a molti e francamente poco interessante dal punto di vista narrativo.   Insomma,  mi pare la solita storia del rivoluzionario per conformismo, del rivoluzionario con la paghetta di papà che,  però,  stoicamente,  soffre in silenzio per questa contraddizione e, stracolmo di narcisismo,  ci scrive pure sopra un romanzo. 

In copertina  il “tutti” del titolo è graficamente quello della prima pagina dell’Unità all’indomani dei funerali di Berlinguer, che segnano per l’autore l’ingresso nella vita adulta. Così il romanzo annaspa inizialmente  fra noiose  e a tratti pedanti (ahi,  il politichese di ritorno) considerazioni saggistiche sul compromesso storico e sul rapimento Moro - quest’ultime gravate oltretutto da un senso di tragicità secondo me artefatto, ipocrita e  fittizio -  e narrazioni di vicende personali; mi sembra manchi di autenticità anche se la simula bene,  anche se  in fondo ci restituisce,  forse aldilà delle intenzioni di Piccolo,  il clima di irrespirabile pesantezza ideologica di quegli anni che,  nonostante le bombe, a volte  vengono contrapposti spesso miticamente al vuoto consumistico di quelli successivi. Non si sa fra i due quale sia peggio, se l’adolescente desiderio di una fantomatica rivoluzione, (mostruosa l’immagine dei suoi compagni estremisti  che si abbracciano felici all’indomani del rapimento di Moro) o   l’acquiescenza bovina ai miti del successo, dell’apparire, del consumo totale.  

Per Piccolo la scelta è già nel titolo della prima parte del romanzo,  La vita pura: io e Berlinguer  e della seconda,  La vita impura: io e Berlusconi. Troppo facile, mi viene da pensare, contrapporre Berlinguer,  santo laico e altruista,  a Berlusconi,  miliardario vorace ed egoista.  Il primo votato alla causa della giustizia, del rigore etico,  il secondo alla propria causa, al mantenimento del proprio potere. Contrapposizione furba,   che fa stare  il borghese Piccolo piccolo  con la coscienza in pace ma non del tutto perché egli ancora più  furbescamente riconosce uno dei mali della sinistra intellettuale italiana,  quella di sentirsi superiore e soprattutto diversa,  mi riferisco a quella sinistra radical chic che lo scrittore  incarna così bene. Ecco  Francesco Piccolo ci convince del contrario di quello che proclama: egli è succube del vuoto edonismo anni Ottanta,  solo che non gli conviene ammetterlo. Un’altra stonatura: Piccolo è di Caserta, non dice una parola sulla terra dei Fuochi, sulla camorra, sui problemi della sua città, solo banalissime  tirate moralistiche sulla nobiltà della sconfitta. Tutto questo giocando a tennis con il suo amico democristiano, amando perdere e arrancare eroicamente per ogni punto conquistato, metafora questa, secondo Piccolo,  della sinistra in Italia. 

L’autore descrive  il suo ingresso nella società (borghese) delle lettere,  di come i giornali richiedano la sua opinione (che lui stesso definisce scontata ) sui grandi temi del momento (immigrazione, violenza contro le donne).  Firma petizioni contro la fame nel mondo. Lo fa per conformismo, al solito, insieme agli  altri intellettuali suoi sodali. Per sentirsi più buoni, per digerire meglio.  Più le opinioni sono scontate più la coscienza di coloro che le producono e dei loro lettori è rassicurata. Non sono sarcastico,   questa è l’incredibile confessione di Piccolo: grottescamente vera. Il romanzo diventa un’involontaria apologia di quella che dovrebbe essere l’élite culturale del paese: cinica, vuota, ipocrita, disillusa, contenta di aver perso contatto con la realtà ripugnante nella sua bella torre d’avorio. Imbellettata dalla nobiltà della sconfitta. Felice della propria dolorosa conquista: la “superficialità”. La superficialità che  fa dire a Piccolo che gli anni del terremoto in Irpinia sono stati ”i più belli della sua vita” e che la vittoria di Berlusconi gli avrebbe comunque permesso di condonare quei due soppalchi in casa. Piccolo narra una generazione di opportunisti finto impegnati,    con la sua edificante storia di fallimenti politici,  con le sue elitarie sconfitte, con i suoi ghirigori mentali, con  le sue  molto domestiche angosce metafisiche.  Conformisti contenti di sé, che hanno faticato (?) una vita per arrivare a stabilirsi trionfalmente nella loro mediocrità ben remunerata e che non paghi di ciò hanno coltivato insoddisfazione, indignazione, voglia di cambiare il mondo, tutta la consolante retorica che fa di loro dei piazzisti del progressismo più alla moda.  Rivoluzionari da salotto buono, “rivoluzionari con la mutua” li definiva Flaiano, con l’aggravante dell’autocritica (molto recitata) che li rende nevrotiche  e patetiche macchiette. Sintomatico l’uso ossessivo della prima persona plurale, l’autore non si sente un individuo ma parte di un gregge, il gregge dei buoni. 

Leggiamo testualmente: “C’erano perfino delle feste […] alle quali si andava e ci si lamentava di essere a quella festa; cene alle quali si andava e ci si lamentava di essere a quella cena”. Così è la perenne “dolce vita” romana : grottesche lamentele sul bel tempo che fu,  sorseggiando Martini in compagnia dei loro pari.  La confessione di Piccolo non è un “J’accuse” ma un’autoassoluzione;  da qui il fastidio crescente che si prova leggendolo.

Non mi stupisce affatto che un romanzo così mediocre,  noiosissimo oltretutto, che mescola noiosamente aspetti narrativi e saggistici,  abbia vinto il più importante  premio letterario italiano. Esso è,  infatti,  uno specchio perfetto per l’intellettuale medio, in cui questi può vedersi in tutta la sua insignificanza e mediocrità e applaudirsi. Contento lui.

La moneta vivente - Pierre Klossowski

domenica 11 ottobre 2015







Confrontarsi con l’anomalo saggio  La moneta vivente di Pierre Klossowski significa affrontare una delle scritture filosofiche insieme più profonde e perigliose della modernità; Klossowski è nato in Francia, a Parigi  nel    1905   e    è  morto nel 2001. Non posso dire di aver compreso tutto del libro, probabilmente  solo  una parte, ma anche quello che non ho compreso sfolgora di luce propria. Il lavoro del traduttore e curatore Aldo Marroni è stato immenso,  in questa bella edizione Mimesis del 2008, e ci permette di affrontare un pensiero labirintico, abissale, spaventosamente attuale. Scrittura diamantina e di incomparabile difficoltà quella di Klossowski, fa baluginare profondità e complessità da capogiro, la sua scrittura è filosofica proprio nella misura in cui recupera il thauma platonico, la meraviglia. Meraviglia per una scrittura all’altezza delle difficoltà cui ci pone innanzi la contemporaneità tardo industriale; oggi noi posteri  di Klossowski potremmo quasi usare l’aggettivo post industriale.

Punto primo a favore di Klossowski: egli riconosce l’importanza della figura di Sade, nella formazione di un pensiero filosofico sulla modernità. Il pensiero di Sade, il suo estremismo in seno a una economia dei corpi, si vede  in filigrana in tutto il libro che va letto proprio  a partire da Sade, su cui Klossowski ha scritto anche un saggio, Sade mon prochain.

Riflessione sull’arte, sull’industria, sulla tecnica in quanto fabbricatrice di oggetti e di simulacri, sull’erotismo, sul fondo impulsionale che presiede anche l’economia, sul fantasma come prodotto e produttore di alienazione, sulla perversione come sovvertitrice dell’ordine economico fondato sull’utilità,   sulle vedette dei media definite “schiave industriali; il libro di Klossowski è un enigma di cui forse solo il futuro sarà all’altezza. Ogni mio compendio sarebbe insufficiente a darne conto. Il rischio di tradire il pensiero di Klossowski, anche semplicemente banalizzandolo, è molto forte.  

È un libro su cui bisogna meditare  per anni se non decenni. Libro che come tutti i classici ti scava dentro prima un’immagine confusa poi via via  più nitida. Pozzo senza fondo di sensibilità filosofica, è  il  saggio più complesso  che ho letto negli ultimi anni, probabilmente dai tempi in cui veleggiavo nei mari di Baudrillard. Qui si parla in sostanza, nota Marroni nella bella prefazione, di una economia sessuale, come in Bataille.  Si  ruota intorno ad alcuni concetti ma quello che mi ha  colpito di più   è  racchiuso  in questa frase : “Niente nella vita impulsionale sembra veramente  gratuito.”  Capirla sembra semplice ma dietro di essa si agita un discorso tutt’altro che scontato ed espresso con un linguaggio di grande potenza filosofica. Date le difficoltà,  ogni  lettura non può che essere, giocoforza,  parziale. Anche rileggendolo,  il libro come uno scrigno custodisce i suoi segreti. Su tutte scelgo quest’altra citazione perché esprime sinteticamente uno dei temi del saggio: ”[… ] le norme economiche sono, allo stesso titolo delle arti e delle istituzioni morali e religiose, allo stesso titolo delle forme della conoscenza, un modo di espressione e di rappresentazioni delle forze impulsionali.” Il limite di quest’operazione è il rischio,  non dico del solipsismo, ma che Klossowski si rivolga solo a quegli happy few in grado di  sintonizzarsi sul suo pensiero.

Klossowski cerca di rovesciare le consuetudini delle nostre idee  e ci mostra il  processo in atto  di disgregazione della famiglia,  delle istituzioni di senso, dello stesso soggetto. Tutti danno per scontato in certa misura  il pensiero economico che invece è  sottilmente  forgiato,  dimostra Klossowski,  dal fondo caotico delle emozioni umane.

 Libro di culto, La moneta vivente. Irradia pensiero.  Non resta che meditarlo.