Un aforisma di José Ortega y Gasset

lunedì 28 febbraio 2011

"L'unico modo per salvare i classici è smettere di riverirli e usarli per la nostra salvezza."

Intervista all'editore della Kipple

domenica 27 febbraio 2011

Lunedì 28 febbraio

su Radio24ore un’intervista a Lukha Kremo Baroncinij, editore della Kipple Officina Libraria (www.kipple.it), prima casa editrice italiana ad aver venduto più libri elettronici che cartacei in termini di unità vendute. Per saperne di più su questa imminente trasformazione del mercato editoriale, sintonizzatevi su Radio24ore alle 10,30 (http://www.radio24.ilsole24ore.com/popup/diretta.php).

Per riascoltare: http://www.radio24.ilsole24ore.com/popup/player.php?filename=110228-melog.mp3

Perché non leggo libri con la parola feeling nell’incipit

sabato 26 febbraio 2011


Mi piace nello scrittore la mancanza di ogni attitudine sociale, l’incapacità anche arrogante (me ne sto in un angolo a depensare) di arringare un pubblico con aria di conoscerlo, di avere domiciliato nello stesso letto che oggi è fatalmente letto televisivo.

Quindi poca o nulla visibilità televisiva(Debord, Ceronetti), libri che non nascono per intrattenere platee ma per esigenze anche compulsive, viscerali, brutali (Artaud, Sade), facce scavate dallo stile, che è il carattere, (Benn, Pasolini ). Carattere che è la ferita essenziale della psiche, la grande incisione del collettivo sulla pelle. E’ nell’urto fra individuo e mondo, nello shock che ne consegue, nel grande spargimento di sangue e parole, che si trova la grande letteratura, non nell’acquiescenza a modelli interpretativi a consumo delle folle. E niente consolazione per favore, niente linguaggio plastificato di matrice sociale, niente imitazione della sedicente Verità. Lo stile è la dura conquista della solitudine e dei solitari, il linguaggio si plasma nelle conversazioni interiori, è là che affiora quella bestia sacra chiamata pensiero. La letteratura sia dunque uno sguardo di demone sulle nostre consuetudini angeliche, o viceversa uno sguardo angelico sulle nostre ebrietudini demoniache.

Una poesia di Giacomo Leopardi

mercoledì 23 febbraio 2011


A SE STESSO

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.

Conversazione con la morte - Giovanni Testori

sabato 19 febbraio 2011

In Conversazione con la morte di Giovanni Testori si uniscono la fatica di dire e insieme di non dire, l’anelito a una parola impossibile si trova accanto al desiderio di purificare il linguaggio, ormai divenuto una scoria di luoghi comuni, ontologicamente corretti, e dunque corrotti.

Le parole sono morte, le parole della nostra classicità cristiana, tutto sembra essersi spento e “pietà”, “carità” , “amore”, sono divenute talmente caricaturali da essere inservibili come ”la spoglia di una cicala”. Un tempo c’era il canto, ma all’”illuminata demenza della Ragione” ciò non interessa, non interessano nemmeno le cicale, tutto deve essere sepolto sotto tonnellate di nichilismo, per non udire più l’antico linguaggio fremere sulla superficie della nostra pelle. Ma il poeta non si rassegna, le parole devono essere reinventate, esorcizzate, fatte risorgere, ed il colloquio con la “cara, dolce ed eterna ombra” deve necessariamente sostituire i monologhi della nostra solitudine.

Quest’ombra, che assume via via la forma di capretta, di cagna, di ragazzina, è la nostra unica amante, è la morte, è la madre (il testo fu composto dopo il decesso della madre stessa del poeta) madre dal “grembo assassino”, perché è la logica, aldilà di ogni retorica sulla maternità, chi dà la vita dà anche la morte. La saggezza sta nell’accettare la vicenda terrena, il terrore, la solitudine, la desolazione, ed anche il logoramento stesso del linguaggio, che cerca a tentoni una breccia in quel buio di cui in fondo l’anima consiste. Anima è un’altra di quelle parole naufragate, manchevoli, insufficienti, negli stessi anni di Conversazione con la morte, gli anni settanta del secolo scorso, Cioran andava ripetendo che la parola anima ormai era buona solo per sciocche canzonette; anche la parola “amore”, gravata della volgarità di troppe bocche che la pronunciano, finisce nella polvere, dalla quale il poeta cerca di trarla fuori, per farla nuovamente risplendere di tutte le cose non dette.

Ci vuole un’altra lingua ma questa lingua non è nuova, è antica come le catacombe, derisa, obliata, consegnata al gergo degli psichiatri e dei preti, scempiata. Viene da pensare alle glossolalie di Artaud, alla lingua dello spirito di San Paolo, alle feroci requisitorie di Rimbaud, Testori non può dirla questa lingua nella sua deformazione schizoide, almeno in questo testo, perché gli mancano le forze, non gli resta dunque che sussurrare come in un mantra senza significato parole come “perdono”, “pietà”, ”carità”, dopo aver gridato anche la sua rabbia, ed è uno dei sussulti migliori del testo: “ Vermi, che umilierete e deriderete anche i vostri padri!/ Tutto umilierete e deriderete/ . Versi violenti e crudeli che, a parte la pretesa di attribuire al verme voluttà puramente umane, testimoniano di quel grande terrore della carne di essere divorata e annientata. Ma dopo questi versi Testori si scusa, ahinoi, questa non è più terra di vivi, ma di fantasmi e i fantasmi si scusano se beccati in flagrante nel reato di respirare.

Qui non è più letteratura, non è più cultura, è” lo spirito che si confessa allo spirito” come nella celebre invocazione di Artaud, è lo spirito che, stanco di tutte le parole d’occidente, vuole ritrovare e riconoscere il suo babelico inno alla vita, ma fallisce perché ancora una volta si sente in colpa, glielo hanno insegnato i preti, cui evidentemente Testori, come tutti noi, ha dato troppo ascolto:

Pietà per la mia insipienza/ pietà per il mio povero incapace amore/ Pietà popolo che m’ascolti/pietà di me di voi, e poi luce, infinita dolcezza, carità /perdono…

Si rischia dunque nel finale di trasformare questo straordinario colloquio fra ombre, maschere, idiomi nascosti, in una un po’ patetica dichiarazione di resa, ma ciò che resta realmente sono versi caduti in tutti gli “ori della nostra polvere”, quando le quinte del teatro sono distrutte e riappare il tempio della divina presenza, muta come sempre a indicarci la via : ” Scende il bisogno di un pudore ancora più grande / e con esso il sipario muto, invincibile e sacro/ del silenzio.

Il testo poetico fu pensato per la recitazione teatrale e fu portato in scena più volte e con grande successo, sul finire degli anni settanta, optando per le chiese – e non per i teatri - come i luoghi più adatti a far risuonare questo discorso di avvincente modernità e insieme antico.

In sostanza Conversazione con la morte è un poemetto straordinario, anche abbastanza coraggioso, e tra le altre cose ci mostra – forse aldilà delle intenzioni di Testori stesso - che per ritrovare la gnosi delle antiche parole è necessario, e lo sarà sempre di più, ritornare a bere alla fonte del cristianesimo primigenio, sbarazzandoci di tutti i millenni di ontologia e teologia, di tutto quel cattolicesimo retrivo e corrotto in nuce. Se non si ha il coraggio di agire così, rimarranno morte le parole, morto Dio e per quel che più ci importa nessun canto si leverà dal deserto per farlo, misteriosamente, rifiorire.

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Conversazione con la morte si trova nella raccolta intitolata Trilogia degli oratori, edita da Bur Rizzoli nel novembre del 2010

La sete di ordini superiori- uno scritto di Jünger

mercoledì 16 febbraio 2011


“Il panico che oggi vediamo dilagare ovunque è già espressione di uno spirito intaccato, di un nichilismo passivo che stimola quello attivo. Niente di più semplice che intimorire un uomo già persuaso che tutto avrà fine nel momento in cui verrà meno la sua fugace presenza sulla terra. I nuovi padroni di schiavi lo sanno, e solo per questo danno tanta importanza alle teorie materialistiche. Nell’ora della rivolta queste teorie servono a sgretolare l’ordine costituito, e, dopo la conquista del potere, a rendere perenne il terrore. Non debbono più esserci bastioni su cui l’uomo possa sentirsi inattaccabile, e dunque libero dalla paura. E invece importante sapere che ogni uomo è immortale, che alberga in lui una vita eterna, terra inesplorata, e tuttavia abitata e che anche se lui stesso ne nega l’esistenza nessun potere temporale potrà mai strappargli. Per molti o addirittura quasi tutti, l’accesso somiglia a un pozzo dove per millenni sono stati scaricati rovine e detriti. Non appena essi vengono rimossi, riappaiono sul fondo non solo la sorgente, ma anche le antiche immagini. L’uomo è infinitamente più ricco di quanto supponga. E’ una ricchezza, la sua, di cui nessuno può spogliarlo, e che nel corso delle epoche riaffiora sempre, soprattutto quando il dolore ha messo allo scoperto le profondità. E’ questo ciò che l’uomo vuole sapere. Qui è il nucleo della sua inquietudine temporale, l’origine della sua sete che cresce nel deserto e questo deserto è il tempo. Quanto più il tempo si dilata, quanto più il tempo è consapevole e tirannico (…) tanto più ardente si fa le sete di ordini superiori.”

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Da Trattato del ribelle – Ernst Jünger - traduzione F. Bovoli – Adelphi

Anni zero - dopo Baudrillard

sabato 12 febbraio 2011

"Gli schiavi sono al potere, cani d'uomo e le loro donnacce."

James Douglas Morrison

Pare funzioni per decenni, il dieci è un bel numero: uno e zero, tondo tondo e al tempo stesso appuntito. Così ogni dieci anni vien la voglia di capire attraverso quale fessura del tempo siamo passati, cosa ci siamo lasciati alle spalle e verso dove stiamo andando.

Con questi primi dieci anni del secolo pare si sia avviata, anche grazie alla chimica, l’era del porno. Il viagra ha prolungato le possibilità del desiderio fino in tarda età, il web ha fatto da munifico gelataio per tutte le innocue goloserie, le più brutali alienazioni sessuali, le peggiori sporcaccionerie contemporanee e Baudrillard ha mostrato ancora una volta che l’essenza della nostra cultura è pornografica. Cos’altro? Bisogna porsi aldilà del bene e del male, per intendere la faccenda, è troppo facile demonizzare la pornografia ed esaltare invece ciò che questa indubbia dismisura ha reso possibile: il culto della Verità. Dentro la nostra cultura, infatti, c’è la riproduzione del reale ad alta fedeltà, la fine di ogni zona di segreto, l’iper-visibilità, l’esaltazione della luce a scapito dell’ombra, del maschile fallico (l’essere) a scapito della cavità femminea (il vuoto).

Abbiamo così i reality show, dove si cerca di riprodurre costantemente il fantomatico reale, con zoomate sul suo cadavere in costante putrefazione. Oppure l’orrenda esaltazione della vita sedicente vera, che si racconta in quelle sentine della pubblica opinione che sono le fiction televisive. Anche all’attore oggi si chiede ossessivamente di essere se stesso, tutt’al più di imitare la gente comune, il poliziotto, il magistrato, il cameriere. Tutto rigorosamente vero, reale, giammai l’illusione, il gioco delle apparenze, lo sconcerto di non sapere, vivaddio, cosa si è.

Come ha mostrato Baudrillard, soffocando ogni possibilità d’illusione, demonizzandola in nome di una fantomatica realtà, la nostra civiltà si è incamminata da un bel pezzo lungo la via della pornografia, che non ammette l’invisibile, il nascosto, l’incerto, l’indefinito.

E' chiaro che con la verità siamo arrivati a saturazione, il reale è diventato un tale fantasma mediatico, e tutte le più alte parole sono intrappolate sulla tela del ragno delle tv e su tutte sbava la nuova divinità contemporanea: la pubblica opinione il cui cerimoniale principale è rappresentato dal sondaggio, il cui massimo ludibrio è sempre stato e sempre sarà, ahinoi, il linciaggio (degli innocenti, ovviamente.)

Tv che parlano al posto delle masse, sono la loro voce e la loro coscienza e, tutto divorano, occhi, intelligenze, corpi. Ti sbattono in faccia tutti i giorni la fottuta realtà, invenzione di Lilliput.

Non puoi sfuggire a esse, perché esse sono l’occhio di medusa che ti guarda, ti rende reale, pietrificandoti.

Siamo in un’epoca in cui tutti vogliono essere se stessi, essere badate bene, non diventare, che è un’altra cosa, in un’epoca in cui, dopo la leopardiana strage delle illusioni, ci hanno piazzato in testa la bomba a orologeria della realtà e l’hanno fatta esplodere in nome della Verità. Probabilmente nei prossimi decenni assisteremo a una formidabile reazione a questo stato di cose, perché, fatalmente, tutto è giunto a compimento, o manca poco. Abbiamo già visto tutto, probabilmente chiuderemo gli occhi, per non diventare come il protagonista di Arancia meccanica, alla velocità con cui tutto si consuma, cosa consumeremo dopo aver consumato la realtà fino all’ultima fibra? Noi stessi? E se non ci fosse già più nulla da consumare? Dopo la repressione e la liberazione del desiderio, dopo il reale fotografato a caratteri cubitali, dopo tutte le gigantografie, e tutti i cloni fatti in serie, dopo il nichilismo venduto in saldo, compreremo le nostre illusioni direttamente sotto forma di microchip, in qualche gran bazar dell’ovvio, in una società sempre più totalizzante e totalitaria?