Satana dice- Sharon Olds

domenica 21 marzo 2010

Si rimprovera a Sharon Olds la crudezza cronachistica di alcune sue poesie, ma chi lo fa ignora che questa crudezza è sempre al servizio di un dato interiore, dall’alto di una visione dell’esistenza che sa fondere l’anelito alla bellezza con la durezza dell’orrore. Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, Satana dice, l’amore è una gabbia, infrangerla è un atto demoniaco, ci vuole proprio l’intervento di Satana, ma la prigionia dell’amore si rivela infine preferibile alla libertà promessa dall’infrazione. Bataille forse inorridirebbe davanti a questa conclusione, io ne amo la fredda e amara consapevolezza. L’amore? Bah, è quel carcere da cui evadere è morire. Straordinaria poesia che apre la raccolta, Satana dice è una meditazione profonda sul tema dell’amore verso i genitori, “bara” da cui non si può uscire, pena la perdita di se stessi, probabilmente nella negazione della nostra affettività infantile. “La consapevolezza dell’amore” è atroce: siamo sigillati dalla saliva di Satana nella nostra scatola di cedro, come bambole annichilite.

Il tema della famiglia è centrale, il sostrato autobiografico evidente, la fascinazione per il male abbozzata dolorosamente, in poesie in cui il dettaglio anatomico su crani sfondati e simili a qualcuno ricorda solo un frusto sensazionalismo, a me sembra riecheggiare l’efficacia chirurgica di Gottfried Benn in Morgue. Altrove è il corpo malato, ferito, brutalizzato, della sorella a suscitare parole definitive, nella consapevolezza che vivere può significare affrontare una guerra” senza addestramento/o un’arma”. Bisogna spendere qualche parola anche per la traduzione di Elisa Biagini, poetessa ella stessa, che inventa questa musicalità trascinante, restituendoci l’oralità a volte impetuosa della Olds.

A tratti violenta e cupa, in fondo come la realtà, affascinata dagli abissi della malvagità- forse ella stessa amerebbe apparire inquietante come i suoi assassini- la Olds riempie di corpo i suoi versi, nel suo massacro estetico ed estatico della poesia tradizionale, e il dolore dell’anima altro non è che una sensazione molto fisica di nausea. Il sesso è raccontato con accenni anche brutali, in cui però si intuisce una partecipazione emotiva profonda, a tratti con notazioni commoventi, a tratti con inserti pornografici; così vien fuori la rapacità erotica della femmina, il suo desiderio non filtrato e annacquato dalle convenzioni, da quella larvata ipocrisia che ancora oggi chiude a volte il desiderio femminile nel mutismo.

Se il compito di un artista è superare sentimento e sentimentalismo, come scrive, fra i tanti, Henry Miller, la Olds ci regala la sua fredda lama, fatta di versi in cui l’angoscia è tenuta al guinzaglio di un’esattezza cattiva e a volte senza pietà, o meglio senza la sua patetica ostentazione, perché nei versi dedicati ad Auschwitz invece la poetessa è colma di uno sgomento profondamente etico, nella scoperta infantile di un orrore storico appena consumato. Più deboli mi sembrano le poesie dedicate all’amore materno, in cui la poetessa americana, smessi i panni di figlia in conflitto, assume quelli meno interessanti di madre solerte. I temi autobiografici raccontano di un’urgenza, sono narrazioni di vita, che sembrano sfuggire anche al pudore, per cui la poesia della Olds è stata considerata spesso confessional poetry.

Profondamente violato il padre, paragonato a un brontosauro, descritto mentre consuma una cena vegetariana a base di “alghe e bourbon”, mentre la poetessa carnivora vorrebbe divorarlo, mossa dall’odio, e da una vertigine tutta femminile di assorbimento e divorazione. Versi inquietanti che riecheggiano la losca figura eliotiana di Sweneey, e ancor di più la loro rappresentazione pittorica in Bacon. Molto onestamente la Olds ci parla dell’odio verso la figura paterna, oltraggiata, e destituita di valore, ma al tempo stesso desiderata fino al cannibalismo. E in queste poesie, specie nella prima parte che considero la più interessante e viva, è ricorrente il tema dell’odio fra figli e genitori, che arriva anche all’omicidio; la poetessa americana così può descrivere in maniera minuziosa l’interno in cui è avvenuto un fatto di sangue, analizzare i cadaveri, le loro ferite, per poi concludere “Solo una figlia poteva aver fatto questo”, facendo emergere improvvisa e raggelante la verità di quest’odio parentale.

Freddezza, gran controllo di nervi, occhio sicuro nel fotografare gli orrori, con un iperrealismo che è veramente uno schiaffo all’ipocrisia di chi sostanzialmente non vuol vedere l’orrore del corpo, questo però in sostanza mi sembra il lascito migliore della poetessa americana, in questo che è il suo primo libro pubblicato nel 1980, quando la Olds aveva già 38 anni.

In questi versi c’è molta carne, molto corpo, la poesia stessa è “selvaggina”. La dimensione cinematografica di una poesia come I salotti repubblicani inizialmente ricorda certe atmosfere di Eliot, ma un Eliot finalmente libero anche di artigliare le profondità marine. Un improbabile Eliot che finalmente si concede il lusso dell’impoetico, entra nella palude, dopo aver sconfitto il “serpente del guado” di cui scrive Auden, e ne esce annientato dai versi finali in cui si profila una dimensione alla Bret Easton Ellis, in cui il sadismo diventa l’antidoto alla noia.

Affrontare l’impoetico è per un poeta la sfida più difficile e affascinante, e mi piace il modo anche strafottente, arrogante, con cui la Olds l’ affronta. Solo in poetesse come la Loca, oppure la Duffy, ho colto gli stessi accenti profanatori, oppure in Ginsberg che però, in questo senso, rispetto alle poetesse citate può apparire- è un paradosso- perfino un po’ scialbo. La carnalità più pura e al tempo stesso sporca e angosciante, nella terribile duplicità del femminile, è appannaggio delle poetesse in un modo speciale, vado pensando da un po’. Credo che sia questa l’origine dell’inquietudine che inevitabilmente un maschio prova davanti a una poesia del genere, in cui finalmente l’Altro gli appare nella sua forma più cruda, senza infingimenti.

Satana dice è forse il libro di una strega contemporanea, una baccante che accanto al silenzio ha deposto l’urlo delle strade, che con la stessa lucidità indaga le dinamiche di un assassinio e la paranoie delle madri; libro intenso, scaturito da chissà dove, come da viscere ebbre, terribile nella sua complessa vicenda stilistica, che vuole mostrare all’uomo la sua ferocia, ma al tempo stesso non può dimenticare la trappola inquietante dell’amore.

La scelta in amore- José Ortega y Gasset

sabato 13 marzo 2010

Cose’è l’amore? Cosa ci spinge verso un’altra persona? Quale forza sotterranea è in atto?A queste e altre domande tenta di rispondere José Ortega y Gasset in questo breve e affascinate saggio, che si rivela sin dall’inizio un viaggio nell’interiorità, alla ricerca dell’essenza stessa dell’uomo che, secondo il filosofo spagnolo, si rivela propriamente soprattutto nell’amore.
Ciò che noi scegliamo di amare rivela la nostra natura, in quell’inclinazione risiede il nostro segreto più vitale; questa forza, soggetta ai mutamenti storici, in eterno divenire, ha questo di costante: la scelta. Perché tra le mille fascinazioni noi diamo seguito solo ad una di esse, focalizzandoci su un'unica persona, che sintetizza qualcosa che in noi profondamente cerca la sua verità. Ma la scelta è pericolosa, la realtà ambigua, la felicità amorosa forse un’utopia, e non è l’istinto che ci guida - esso, infatti, va in più direzioni - piuttosto la fantasia, che è la principale componente per un idillio amoroso. Su come l’istinto sia insufficiente come spiegazione Ortega y Gasset scrive pagine definitive; “il sottosuolo dell’anima” ci sfugge, nessuno conosce pienamente se stesso, la volontà cosciente ha solo un compito correttivo, e forse per questo noi siamo trascinati verso amori infelici; ma non è l’istinto la bussola infallibile, piuttosto un intuito segreto, che spesso nella persona amata individua ciò che in noi è inespresso. Ci si innamora non tanto della bellezza di un viso o di un corpo, ma di ciò che esso significa, di ciò che rappresenta a livello fisiognomico, l’eredità platonica in questo senso è superata: “ L’amore implica un’intima adesione a un certo tipo di vita umana che ci sembra il migliore e che troviamo già formato, incarnato in un altro essere”. Quel tanto di innato che c’è in noi è più importante delle modificazioni dell’ambiente, il carattere è ciò che ci guida, spesso andando aldilà della nostra volontà cosciente, ma il carattere stesso è qualcosa di transitorio,che si modifica anche sensibilmente nel corso degli anni.
“Se l’uomo non possedesse un’immaginazione così generosa, non riuscirebbe ad 'amare’ sessualmente, come invece fa, ogni volta che se ne presenta l’occasione.” Ed ecco che l’immaginazione è alla base delle nostre pulsioni, l’istinto solo una cosa in balia delle nostre fantasie, la lussuria stessa, affidata al nostro “magnifico potere di immaginazione”, non è dunque un istinto ma una vera e propria “creazione”. Amore è dunque una forza che si serve del desiderio ma non è ad esso assoggettato, come molti credono.
“L’amore è fuori moda” scrive provocatoriamente il filosofo, per poi aggiungere che ciò che appare una moda è in realtà il segno del divenire storico. Così abbiamo l’amore platonico, l’amore cortese, quello romantico, e ogni generazione inventa il suo stile, proprio e irrinunciabile. Bisogna distinguere così fra amore e capriccio, perché specialmente il sesso maschile è trascinato verso tutte le donne, per poi sceglierne una sola- tre o quattro nel corso di una vita- e in questa scelta si rivela il carattere di ciascuno, la sua indole profonda. Il darwinismo ci porta a pensare che nella scelta d’amore sia in atto la selezione della specie, ma Ortega y Gasset ci mette in guardia anche da questa idea, giacché la donna, per esempio, sembra prediligere all’eccellenza la mediocrità, cosicché tutta la storia umana si configura come tirannia dell’uomo medio, o mediocre, discorso che Ortega y Gasset ha sviluppato più a fondo nel suo capolavoro, La ribellione delle masse.
Certo le tesi del filosofo spagnolo non sono sempre originali, ma il suo stile di scrittura, semplice e chiaro, è efficace nell’affrontare un tema così abusato, lasciandoci però la sensazione che molti altri libri debbano essere scritti sull’amore, sulle sue estasi e sulle sue trappole, ma questo c’è di definitivo in questo libro: l’amore è una creazione e come in tutte le creazioni la fantasia ha il ruolo principale, a scapito dell’istinto, il cui apporto è minimo, se confrontato con quello dell’immaginazione, vera”regina delle facoltà”, come scriveva Baudelaire.

Le interviste impossibili- Giorgio Manganelli

sabato 6 marzo 2010


Fedro è un filosofo cinico, indifferente alla sua opera e alla sua fama postuma, affascinato dagli animali per il loro anonimato, sui tratti umani ravvisa la loro presenza; Tutankhamon è colui che ha acquistato con la morte il diritto ad esistere e la morte stessa è stata la sua compagna di giochi fin dall’infanzia; il segno distintivo di Casanova è la fuga, dalla repubblica veneziana, dai sicari, dalle donne; Dickens è uno scrittore “condannato a morte”dalla nascita e il riso e il pianto si confondono nella sua opera; il califfo di Baghdad delle mille e una notte un attore che vive la duplicità della sua esistenza storica e letteraria.
Così Manganelli registra le loro confessioni immaginarie in questo libro, scritto per la radio negli anni settanta, a tratti efficace nel descrivere la grande malinconia che tutti pervade, a tratti prevedibile nell’individuare le piaghe e le pieghe dell’interiorità analizzata. Se nell’intervista a Fedro vien fuori una figura di scrittore scontroso, solitario, con un interessante bagliore sinistro nel sorriso di sapiente, quelle di Dickens o De Amicis invece mi sembrano saggi critici mancati, manca loro la verve di una narrazione che smonti realmente le banalità storiografiche. Anche nell’intervista a Tutankhamon Manganelli fatica a restituirci l’immagine del faraone, sembra inciampare nella sua retorica, non offre scorci di una realtà veramente misteriosa, pur provandoci.
Secondo me, in questo libro pubblicato da Adelphi, quella di Manganelli è una scrittura a tratti troppo debolmente ironica, che qua e là lascia filtrare la gran desolazione del tutto, ma lo fa in modo molto, troppo educato. Ci sono però dei begli slanci lirici, degli echi shakespeariani nella prosa sul califfo di Baghdad; ci sono nell’intervista a Tutankhamon dei momenti di potenza espressiva, anche se un po’ ridondante, ma in sostanza troppo spesso la prosa di Manganelli per me scorre via inavvertita. Questo strizzare l’occhio alla Storia, usando un timido stile divulgativo, mi sembra il limite di queste interviste che raggiungono solo di rado un’efficacia sintetica e gnomica. Queste rare perle navigano in un tessuto che troppo spesso appare di maniera, un tentativo non molto ispirato di mischiare storia e mito. E’ sicuramente un’interessante lettura moderna di personaggi storici, un libro a tratti anche piacevole, scritto evidentemente con lo scopo di intrattenerci. Ci riesce, non ci riesce ma l’intento per me sminuisce l’operazione letteraria, perché invece in radio, affidate alla voce di Carmelo Bene, queste interviste erano interessanti, ma questo è dovuto unicamente alla grandezza di Bene. Sulla carta, duole dirlo, funzionano meno. Molto meglio a mio avviso l’intervista ad Attila scritta da Guido Ceronetti, per fare un esempio tratto dal medesimo progetto radiofonico- nel complesso un esito straordinario per quel mezzo- che negli anni settanta vide coinvolti fra gli altri anche Calvino, Arbasino, Sanguineti, Eco.
Ceronetti, lui sì, raggiunge la ferocia della vera comicità, la prosa in fondo bonaria di Manganelli, specie nell’intervista su Nostradamus, è stucchevole e talvolta inutilmente labirintica, le riflessioni dei personaggi poco interessanti o addirittura, come nel caso dell’intervista a Gaudì, forzatamente bizzarre. Anche se proprio nell’intervista su Gaudì viene fuori il tocco geniale di Manganelli, nella Sagrada Familia vista come chiesa puttana, luogo equivoco, postribolo fetido che la fantasia allucinata dell’architetto spagnolo elabora dal suo rapporto ossessivo con le pietre. Però poi Manganelli ci riduce a zero ogni fascino facendo apparire Gaudì sostanzialmente come un mezzo scemo. Satira? Non fa ridere. Irrisione? Non è abbastanza crudele. E allora? Semplice evasione nel buffo, nel caricaturale (ah, la buona vecchia risata di una volta). In sostanza mi convince pienamente solo la raffigurazione del Re Desiderio, emblema della razza estinta, che non lascia tracce, se non il ricordo di un fantasma. Qui Manganelli fa risuonare qualcosa di grande, e realizza una figura memorabile. Per il resto le sue medium, i suoi Fregoli, i filosofemi sul tempo di un Nostradamus rimbambito, mi sono tristemente indifferenti.
In questo libro, che in origine faceva parte di un’altra opera più vasta intitolata A e B, il tono umile dell’intervistatore molto spesso pare una forzatura ipocrita, la sua presenza fastidiosa, il suo discorso è adulatorio e grottesco e la sua voce ridondante, didascalica. Certo il tono colloquiale del testo è un esito voluto, e perlopiù Manganelli evita di essere giornalistico, ma mi sembra manchi a volte lo scarto demoniaco della vera e propria scrittura letteraria, l’efficacia sintetica di un aforisma ben calibrato. Lo ci si attende da questi personaggi, raramente arriva. Le interviste impossibili sono dunque palesemente, nelle intenzioni di Manganelli, una piccola cosa, un divertissement forse fatto per ragioni di lucro. Certo ci sono qua e là schegge straordinarie, ma sotto sotto manca a questo libro il giusto pathos; il tono ironico e distaccato è certo molto moderno, ma comodo, e oltretutto il sorriso sornione di Manganelli, il sorriso di chi ha ben digerito la Storia e la Letteratura, mi sembra un po’ ipocrita.
Le interviste impossibili sono evidentemente un libro scritto a tavolino che non nasce da una necessità dell’autore, qui l’impressione è che Manganelli, più che essere un grande scrittore, ne imiti l’aplomb. E’ sicuramente un libro intelligente, non lo nego, sofisticato nella sua semplicità, a tratti elegante, ma di un’eleganza convenzionale, in alcuni momenti anche affascinante, ma in fondo statico, freddo esercizio di stile che lascia flebili tracce, e tutte le smorza l’ironia. Mi vien in mente un verso di Quasimodo: “Per un po’ di ironia si perde tutto.”, il tono bonario e ironico è in certe interviste una fastidiosa e scomoda presenza, meglio quando Manganelli scava nella latinità regalandoci questo straordinario Fedro, poeta cane, ma anche lì il tono eccessivamente sommesso annega talvolta le bellezze del testo, e la fastidiosa voce dell’intervistatore spegne la fiamma dello stile.