Bar marino- Antonin Artaud da" Poesie della crudeltà"

giovedì 26 febbraio 2009


a Roland Tual

L’ora in cui il nocchiero picchia sul suo bastardo
Marinai perduti in un sogno di bruma
Fanno rosseggiare la loro pipa sulla soglia del piccolo bar.
I panettieri stanno infornando pani di luna
E io sotto la rugiada che cade dalla coffa,
Dal grande soffitto imbottito di onischi aspiro
Tutto un carico di stelle in ritardo.
E quella di Gaspard,
Gaspard che si è installato sul fondo della conchiglia,
Ha preso l’ultimo treno, dormito fino al mattino
E tutto il porto è vagato fra le sue mani.
La regina che voleva salvarmi dal naufragio
Tendeva le sue orecchie al canto di una conchiglia
Quando il brigantino cannoneggiò di primo mattino.

(traduzione di Pasquale Di Palmo)

College all'angolo della via- Kenneth Patchen

domenica 22 febbraio 2009

L’anno venturo ci ricoprirà l’erba della tomba.
Adesso stiamo verticali, e ridiamo;
lumando le ragazze di passaggio;
puntando su cavalli bolsi; trincando gin scadente.
Da fare, non c’è niente; da andare, in nessun posto; niente gente.

L’anno scorso era un anno fa; nient’altro.
Non eravamo più giovani allora; né ora siamo invecchiati.

Riusciamo mantenerci un’aria giovanile;
dietro le facce non sentiamo niente, in nessun modo.
Probabilmente non saremo davvero morti quando moriamo.
E comunque non siamo mai stati niente; neanche soldati.

Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati.
Sonnambuli per una terra buia e terribile,
dove la solitudine è un coltello sporco alla nostra gola.
Stelle fredde ci guardano, socio
Stelle fredde e le puttane

(traduzione di Massimo Bocchiola)

Presagi d'innocenza- Patti Smith

C’è un’energia notevole in questo libro di poesie, scritte con il fiato rock da una Patti Smith spesso in stato di grazia. I riferimenti più ovvi sono William Blake, Arthur Rimbaud , Allen Ginsberg, ma la poetessa americana trova una sua originalità e la potenza dei suoi versi rimane nella memoria. C’è un afflato che si riverbera in strane volute, la forza atavica di un misticismo spesso accompagnato ad un’ironia che apparenta per esempio il romanticismo alle feci di un pidocchio, raggiungendo così la cifra di una contemporaneità in cui l’aspetto più elegiaco deve contenere il suo contrario e il sentimento fondere la nostalgia della purezza con il fango. In questi versi l’ombra di un albero, arbusti, rocce, sono racchiusi in un’ atmosfera magica in cui la presenza umana è dolcemente fusa alle cose , come se non ci fosse estraneità fra uomo e natura ,ma una profonda compenetrazione panica. Presagi d’innocenza sono appunto il contenuto esatto di una ricerca sulla realtà che permette a Patti Smith di indossare la maschera di Sibilla, lasciando scorrere nella pagina i suoi enigmi. Anche la presenza di Dio è evocata con la nostalgia di chi cerca nella banalità dell’esistenza la trascendenza che dia valore“alla volta celeste del nostro agire”, agire che in Patti Smith è sempre colmo di una consapevolezza che non viene mai abbandonata, nemmeno nel pieno della visione. La tensione sarcastica unita a una dimensione oracolare, la condanna della guerra, le immagini intense sono il dono di questi versi, in cui un intelligente controllo della scrittura si mescola con la spontaneità di molta narrativa e poesia americana. Il tema del vagabondaggio, del vagare in boschi trasfigurati , conferisce al libro un ulteriore fascino, sostenuto da una scrittura che sa essere materica e impalpabile, sfuggendo ogni pesantezza ideologica, e delineando un mondo affascinante e segreto in cui qualcosa di sacro e insieme profondamente animalesco, ma forse sacro proprio per questo, si dispiega sotto i nostri occhi. Il vento che muove le foglie dei platani ricorda che “ In qualche luogo sei buono “e anche il dolore “germoglierà come uno stelo”. L’accettazione della vita anche nei suoi aspetti più desolanti si sprigiona in versi come questi e il libro ne è tutto impregnato e anche se talvolta l’erba è” maledetta e priva di magia”, e gli orrori della guerra impediscono al poeta di cantare, e la” bellezza del sole non è immortale” , il sudore è in grado di battezzare luoghi aridi, la rugiada cola dai nostri stessi nasi e le nuvole dell’infanzia offrono la loro dissoluzione in “ un linguaggio di cifre”, che misteriosamente donano al cielo i colori di un’eternità, che si è vestita di tutti gli attimi della vita . Per diventare noi stessi occorre “spezzare il cuore delle nostre madri,”cercare la propria voce aldilà delle imposizioni della famiglia, e in questo ardere tutte le convenzioni Patti Smith ritrova la semplicità incantata dell’infanzia, unita alla”manciata di sofferenze” dell’età adulta,ma anche queste sono benedette da un’intensità vitale ,che trasmette loro tutta l’ arsione di una rinnovata consapevolezza. C è dunque una straordinaria vitalità in questi versi , la Smith allude costantemente al risveglio di sensi dimenticati, che lottano sotto la soglia della coscienza, per lasciare la loro impronta di lode, per cui le poesie della rocker americana si configurano come un canto di esaltazione e ringraziamento e si esce dal libro con la sensazione di aver partecipato a un rito iniziatico, guidati dalla poesia a trovare il fuoco di un mondo rivelato nella sua luce quasi estatica, nella sua fragile innocenza.

Minima moralia- Theodor W. Adorno

venerdì 20 febbraio 2009

“Ma il nuovo barbaro non è un rozzo/Abitante del deserto; non emerge/Da foreste d’abeti: è un prodotto di fabbrica;/Università, compagnie, società,/Furono madri alla sua mente, e molti giornali/Ne hanno rafforzato le opinioni. E’ nato qui./La bravate dei revolvers ora in voga/E il culto della morte sono a casa loro /In città”.
Wystan H. Auden

Minima moralia è indubbiamente un testo fondamentale per capire i disagi della nostra epoca e a me è sempre parso uno di quei libri che insegnano a pensare, soprattutto a pensare alla contemporaneità, su uno sfondo di pura negatività, rappresentato dallo scenario inquietante della seconda guerra mondiale, da poco conclusa al momento della pubblicazione del libro. Mi colpisce da sempre lo stile di scrittura, serrato, lucido, complesso, che sembra porre Adorno sempre al di sopra dei suoi avversari, siano i seguaci del neo positivismo, siano semplicemente gli uomini medi, con la loro normalità malata. Il sottotitolo del libro Meditazioni della vita offesa, già dà un senso alle multiformi riflessioni che Adorno lascia scivolare nel suo testo, optando come già Nietzsche per una scrittura aforistica, forse l’unica in grado di tastare il polso della contemporaneità, ormai orfana di sistemi, per coglierne le pulsazioni più inquietanti. Lo scopo è ambizioso, scrivere un libro di etica, che riconduca al senso di una retta via classicamente intesa; così Adorno, come un filosofo del passato, si propone di guidare il lettore verso una visione morale dell’esistenza, affinché agli orrori che egli denuncia nel testo, si opponga il tenace desiderio di capire, perché non c’è bellezza e conforto se non “ nello sguardo che fissa l’orrore, gli tiene testa”.Nonostante la frammentazione aforistica il libro mantiene una sua profonda unità, se non altro nella sua ricerca inesausta di una verità che sfugga al “ cerchio magico dell’esistenza”.Se la vita è offesa bisogna interrogarsi su cosa l’abbia ferita così gravemente, e le risposte che Adorno offre sono diverse: la strenua difesa di un aberrante status quo promossa dalle classi dominanti, la cecità delle masse asservite al dominio, la voluttà delle stesse di essere conformi a modelli stantii di puro asservimento, la logica della produzione, vero idolo contemporaneo, cui la vita è sottomessa, fino a divenire caricaturale, fantasma di se stessa, con la progressiva riduzione dell’individuo alla semplice e barbarica sfera del consumo. Così il pessimismo di Adorno, la sua triste scienza, è radicale e nulla sfugge alla sua critica lucida: la psicoanalisi, il cinema, i giornali, la politica, le università, sono tutti agenti di un'alienazione, sintomi di una malattia, che già Nietzsche aveva individuato, ma le soluzioni del filosofo di Rocken spesso non piacciono ad Adorno, la cui visione nasce direttamente dall’abominio dei lager, che sembrano proiettare la loro luce sinistra fin dentro il cuore di ogni sua parola. E’ l’ordine della società che rende alienato l’uomo, che non può sfuggire alla pressione del conformismo, la prospettiva è umiliante: rimanere bambini o diventare uomini come tutti gli altri, abbruttiti dalla cultura stessa, dalla scienza che si propone di salvarli, dalla religione che li ha sempre inchiodati al loro nulla e, per recuperare la potenza vitale,non c’è amor fati che tenga, la libertà si riduce al lumicino in un mondo sempre più standardizzato, e nessuno può sfuggire ai condizionamenti subdoli che la società contemporanea impone a quelli che Adorno chiama i suoi sudditi. Tutti sono vittime di una mutilazione, e anche la cosiddetta normalità è solo una pletora di ferite, castrazioni, violenze, operate in nome dell’ideologia di un capitalismo sempre più feroce, che permea tutto, per cui diventa quasi preferibile rinunciare a essere portatori di messaggi, di valori, di propositi se questi sono soltanto i segni impressi nella coscienza da condizionamenti che essa non può che subire. Il lavoro intellettuale stesso è ormai svolto da lacchè la cui autonomia di pensiero è azzerata in nome di una, scrive Adorno, mal compresa oggettività, che depaupera il singolo, inconsapevolmente complice dello stato di cose che lo schiaccia. Anche la psicoanalisi, che in quel periodo celebrava il suo trionfo, è complice del sistema economico di cui vent’anni dopo Deleuze mostrerà essere una diretta emanazione. La tesi di Adorno è questa: laddove una volta una verità su se stessi faticosamente conquistata era il risultato di uno sforzo conoscitivo, con la psicoanalisi tutto diventa preconfezionato, e invece di pensieri abbiamo una sorta di concetti passepartout, che si possono applicare a tutti, permettendo loro di evitare la fatica di pensare se stessi e provocatoriamente Adorno scrive che il problema dell’umanità non è tanto avere troppe inibizioni, ma averne troppo poche. A Freud Adorno rimprovera anche di non essere andato fino in fondo nel liberare il desiderio e di averlo nuovamente incatenato a delle razionalizzazioni, dal sapore nettamente reazionario, dando ragione alla società borghese, che desidera sempre la sublimazione,per nascondere i segni della sua violenza repressiva. Anche la psicoanalisi sostiene così le ingiustizie che affliggono il mondo e che Adorno, sulla scia di Marx, individua nei rapporti di produzione, nella natura alienante del sistema capitalistico coll’individuo condotto per mano da una società paternalistica e crudele ad essere mero consumatore. Ma il desiderio della salvezza, della redenzione, attraversa tutto il libro più come una nostalgia, che come una vera e propria speranza. Nostalgia che in un più aforisma diventa desiderio di una riconciliazione della falsa coscienza , prodotta dal movimento della storia, con la nostra sostanza più antica, la nostra natura arcaica, non ancora alienata, e in questo sembra consistere il compito profondo della cultura, nel recupero di un’infanzia in cui brilli ancora il fascino dell’intuizione e la possibilità della sorpresa.
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Altre considerazioni su Hermitage di Carmelo Bene

sabato 14 febbraio 2009



Hermitage, a mio avviso, si configura come un’assoluta contestazione di qualsiasi velleità di stile di vita. Qui tutto viene da Carmelo Bene spappolato e deriso. Tu credi di vivere? Sei solo un burattino macchinato dalle forze telluriche delle psicosi, come Bene stesso scrive nel romanzo Nostra signora dei Turchi, da significanti dissolti, che sono la forma di un delirio da cui si è parlati, che ci domina, di cui non esiste chiave interpretativa, e se esiste è da gettare, meglio scorgere questo delirante insieme di macchine desideranti inceppate, anzi talmente guaste da girare a vuoto. Così si creano dei vortici, la voce gioca sul superamento, non vuol essere voce di un personaggio, desidera diventare la melodia che sfuggendo al sentimento, al cuore, ci scaglia dritto in un nulla originario, per un’ebbrezza di moltiplicazione, non solo di annientamento. E’ il non umano, ciò che noi non sappiamo di noi stessi, il daimon che ci abita. Così il personaggio di Hermitage mormora acqua, blatera fiamma, si perde in discorsi poetici, che lungi dal mitizzare la sua condizione di esiliato, preparano il terreno per una rivelazione taciuta, sono una specie di farmaco per il male di dire e l’afasia che ne consegue. Vorrei insistere sull’antichità classica che sembra incoronare questo personaggio che pure possiede quella che Cioran chiamava tentazione d’esistere, nonostante l’evidente nichilismo sprigionato anche nelle sue posture; la classicità come condizione di uno che vive fuori dal tempo, dal mondo della produzione e vive una dolcissima e straniante esperienza estetica, nel suo eremo minacciato da voci estranee, che vengono anche da dentro, probabilmente per raggiungere, come in Nostra signora dei turchi, la condizione dell’idiota, del folle, del santo, figure che in Carmelo Bene si intersecano misteriosamente. Ambizione provocatoria questa che io penso nasca dal rifiuto di quell’intelligenza che vuole misurare tutto, capire tutto, e quindi mentire. In questo piccolo film c’è un pensiero che si auto-elide, si dà scacco matto da solo, non vuole emergere come storia, cioè confezione consolatoria ad uso dei consumatori, non di un cinema assoluto, ma delle sue forme più socialmente conformi all’idea che si ha della vita. Questa misteriosa che solo gli artisti come Carmelo Bene mostrano nella loro forma purificata dalla socialità, restituita all’unico stirneriano, che non vuole mondo ed è il gioco. Gli ideali dissolti, le speranze abiurate, un fantasma che si agita sulla scena, stanco della sua anima. E’ davvero l’uomo assurdo, di cui scrive Camus, nella sua forma più pura e interessante. E se la rivelazione che prima definivo taciuta può essere detta per me suonerebbe: ”Bisogna sottrarsi a storia, contesto, principium individuationis, e ritrovare così l’abbandono". Qui, in questo film, il mondo della produzione, del lavoro, del divertimento, è spernacchiato costantemente , in maniera segreta: “Il sessantotto è una bega da cortile, fosse pure la Rivoluzione di Ottobre “, ebbe a dire Carmelo Bene. Tutti gli eventi della storia sono disprezzati, il poeta è estraneo alla Storia, e mi colpisce il coraggio di essere antidemocratici, perché innanzitutto si è diffidato abbastanza di se stessi. E così in questo ‘67 , ecco che vien fuori Hermitage, apologo della solitudine minacciata da interiorità derisoria, misterioso bagliore di un cinema impossibile, anti storico e parodistico. Per me Hermitage è un geniale girare a vuoto, il misterioso apologo di un attore che vorrebbe essere un idiota per ritrovare una fantomatica leggerezza, che acchiappando frasi qua e là come mosche, nel miele di un abbandono che ci circonda tutti, ritrova la banalità assoluta della disfatta, come condizione umana antieroica. Né dei né maestri, né Dio e nemmeno io, “questo vecchio parruccone” lo chiamava Nietzsche, ecco l’assenza, il vuoto, felicità maniaca. Noi non siamo al mondo. C’è anche una straordinaria autodifesa del teatrante puro, insofferente al tutto che lo anima. Ma in questo c’è la terribile comicità di chi sfondato da un riso feroce non ha quasi più viso umano. Per questo si diventa maschere. In ciò la grandezza di Bene, al cui nome , io penso,nonostante tutto l’odio che egli ha saputo garantirsi in vita, l’oblio destinerà qualche sussulto imprevisto.

Hermitage- Carmelo Bene

venerdì 6 febbraio 2009

"La vera evasione ,la ripugnanza fatta immagini, verso il tutto fin nei suoi costituenti formali, potrebbe capovolgersi in messaggio senza bisogno di esprimerlo, anzi in un'ascesi ostinata verso ogni proposito " Theodor W. Adorno

La situazione che si delinea in Hermitage è quella di una volontaria segregazione per l’unico personaggio del film, che si rinchiude in un albergo, che presto diventa animato da figure fantasmatiche,deliri davanti allo specchio, contorsioni nel bagno, lettere spedite a se stesso, frasi fulminanti. Quella di Bene è anzitutto una grande prova di attore e la dimostrazione che esiste una musicalità dei gesti, che solo la sua grande capacità di registrare e segmentare i propri movimenti può rendere presente all’occhio- orecchio dello spettatore. Si tratta di un cortometraggio, in cui apparentemente non accade nulla, come nell’estetica surrealista de “La storia è per i gonzi.”, ed invece è colmo di una tensione inesplicabile, quasi il protagonista fosse sull’orlo di una follia ricercata, di una solitudine che lo apparenta al Des Esseintes di Huysmans. Considerato da Carmelo Bene poco più di una prova di luci in vista del lungometraggio Nostra Signora dei Turchi,Hermitage conserva a distanza di quarant’anni intatta la sua potenza di visione assoluta dell’assurdità che circonda l’esistenza. Come riconoscere un senso, una storia, un progetto, in quelle contorsioni vocali e fisiche, in quei vaneggiamenti terribili e comici ? Quale il senso di quella lettera, scritta per un’amata forse immaginaria, la solita Lydia Mancinelli, che poi con un semplice tratto di penna che modifica tuo in tua diventa la lettera dell’amata al protagonista stesso,che, eroe del suo autismo comico, provvede a infilarla sotto la sua stessa porta ? Se, come sostiene qualcuno, il bagno è il luogo dell’inconscio, il fatto che gran parte del film si svolga proprio in quel luogo può fornirci una chiave di interpretazione: l’albergo è innanzitutto un topos mentale, un prolungamento dell’interiorità del protagonista, quasi a prefigurare il più sinistro Overlook Hotel di Kubrick. Il dramma del personaggio oscilla fra la mancanza della donna amata, fantasma di un passato che non vuol passare, e l’impossibilità di un’adesione a valori spirituali, forse sentiti con nostalgia, nell’incapacità di accettare il suo antico cristianesimo giacché “ non sapeva più peccare “. Fra lavandini trasformati in fantomatiche buche di suggeritore, vasche da bagno diventati palcoscenici, paradossi inquietanti, letti in cui si raggiunge a fatica una posizione, fra spasmi quasi epilettici, la non storia d’amore ha una sorta di epilogo, il personaggio interpretato da Bene getta una fotografia di donna nel water e dice : “Basta, è finita con chi mi vuole bene.”lasciando intendere di voler andare ben aldilà di sentimento e sentimentalismo,benché il suo viso, contratto in una maschera, racconti della sua grande inquietudine. L’acqua domina il film, come elemento fluido in cui le parole possono liberamente scorrere verso la foce di una teatralità capace di potenziarle e drammatizzarle in sommo grado. C’è tutto Carmelo Bene in questo piccolo film di prova, il suo disgusto per ogni progettualità volta a garantire volontà, identità, storia, psicologia, rappresentazione di un senso. E’ la stupenda tabula rasa di un Bene trentenne, che cerca la fenomenale psicosi in grado di far saltare i codici attraverso cui la vita diventa comprensibile, e dunque menzognera. Tutto avviene nel corpo dell’attore, nei suoi movimenti oculari, nelle sue smorfie, nelle sue cadenze vocali; l’assurdo diventa carne e sangue, lasciando sgomenti e stupefatti. La tensione di ogni gesto anche banale (muoversi nel letto, lavarsi nella vasca, bere un bicchiere di vino) è mostrata come segno di qualcosa che perennemente sfugge, tramonto dell’idea stessa di poter raccontare qualcosa, tutto è perduto, la scena restituita vuota, un nessuno si agita ancora ,ma è solo un fantasma, finché pietoso cala il sipario. E’ l’estetica di Bene, restituire bianca la pagina scritta, con il poema 'L mal dè fiori , rendere fulminea e quasi invisibile l’immagine cinematografica con la moltiplicazione delirante dei fotogrammi in Salomè, e a teatro smarginare il linguaggio, fino a trasformarlo, come ne La storia di Sawney Bean, in un soffio di parole incomprensibili, che non vengono più da un attore, ma dal vuoto stesso, a creare un evento teatrale assolutamente non umano. E’ la crisi del soggetto che ancora una volta Bene mette in scena in Hermitage, soggetto orami spappolato da una tensione interiore che non trova esito, isolato nelle sue smorfie, nei suoi gesti apotropaici, che sembrano le vestigia di un rito ormai perduto.


Hermitage- Carmelo Bene

Il mito di Sisifo- Albert Camus

martedì 3 febbraio 2009

Con Il mito di Sisifo Camus affronta i temi più dibattuti della filosofia degli anni trenta-quaranta, in particolare il tema dell’assurdità dell’esistenza ma questa assurdità risulta essere l’esito di un processo interno all’uomo per l' acquisizione di una consapevolezza nuova, che ride di tutte le metafisiche precedenti e della pretesa di trovare un senso laddove solo il caos domina sovrano.

 Non esiste nessuna realtà trascendente ? Non esistono dei e anche il senso della vita è solo l’ipocrita alibi di chi,profondamente, senza saperlo, conduce un’esistenza assurda ? Bene, si configura allora un uomo nuovo, l’uomo assurdo, che vivendo senza speranza, indifferente a felicità e infelicità, ha un solo movente: acquisire il più grande numero di esperienze, secondo la propria vocazione interiore. L’evento dell’irruzione dell’assurdo nella vita è però, secondo Camus, assolutamente salutare, saltano le gerarchie di senso e valore e l’uomo si trova davanti la realtà nuda e cruda, in un mondo spogliato di ogni dimensione metafisica o escatologica, senza più scopi, senza futuro, l’unica salvezza è immergersi nel tempo, nel suo fluire senza senso, perdendosi in un vortice di situazioni e sensazioni. E’ la quantità che conta, il proliferare insensato di occasioni di vita, con la consapevolezza che tutto è destinato all’autodistruzione e non ci sono valori superiori a cui aggrapparsi, sono stati spazzati via dell’emergere di una coscienza che non sa che farsene dell’eternità e vuole l’immediato, l’hic et nunc, accentandone la caducità.

Camus si profonde in decine di pagine con uno sforzo dialettico notevole, nel tentativo di dimostrare che una vita consacrata all’assurdo racchiude ricchezze insospettabili e possibilità di vita maggiori di quelle di un’esistenza regolata dell’ordine e dal senso. Mi pare che questo sia un buon modo di consolarsi di una perdita ma il lutto rimane e l’angoscia non è risolta, anche se c’è da dire che trovare una soluzione a questo problema sarebbe chiedere troppo a un libro che soprattutto pone interrogativi.

Ma un bagliore di soluzione al conflitto fra l’uomo e il mondo, che Camus incarna nella parola assurdo, si intuisce nei capitoli finali e sarebbe alla fine la stessa soluzione prospettata da Nietzsche, una sorta di amor fati, per cui Sisifo, eroe assurdo per eccellenza, può persino arrivare ad amare il macigno che senza posa rotola a valle e che egli costantemente deve riportare in cima , in una assurda fatica senza speranza. Ma se la prospettiva nicciana era già stata criticata d a Adorno che parlava della triste sorte di un prigioniero costretto ad amare le proprie sbarre , questo vale sicuramente anche per Camus. Non capisco bene, in virtù di quale ascesi assurda (il termine è di Camus stesso) Sisifo dovrebbe amare nel macigno la totalità della sua esperienza di alienato.

 I ragionamenti dello scrittore francese mi sembrano essere dunque deboli davanti a un‘angoscia che già Heidegger ha individuato essere la sostanza più profonda dell’essere umano e non c’è da banchettare sui resti dilaniati della parola speranza. Deboli nel senso che denotano una certa inconsistenza, e la scrittura fatica a reggere il gioco, risultando a volte addirittura pedante. Il saggio dunque, a mio avviso, non centra il bersaglio, filosoficamente mi è sembrato incerto, perché troppo apodittico, e anche il tema dell’assurdo non è sviscerato con la stessa crudeltà che affascina ne Lo straniero, ne Il mito di Sisifo invece Camus si perde per strada in una ridda a volte inconcludente di frasi che faticano a delineare in maniera precisa la validità del pensiero assurdo, propugnato dall’autore francese. Qualche sussulto qua e là ma la prosa di Camus scivola nell’indifferenza, solo nel tratteggiare la figura di Don Giovanni ritrova un po’ di vitalità o ancora nell’interessante saggio su Kafka, contenuto in appendice alla seconda edizione del testo.

Ma anche se in sostanza il libro dà l’impressione di essere un’opera giovanile, acerba, è però sostenuta da una passione e da un impeto che impedisce di considerarla del tutto un fallimento, perché in ogni modo si configura come un’operazione coraggiosa; Camus si getta nel fermento delle filosofie della sua epoca, cercando qua e là appigli per il suo pensiero e mostrando come la filosofia dell’età contemporanea sia invischiata in una crisi dalla quale ancora oggi ,a distanza di quasi settanta anni dalla pubblicazione de Il mito di Sisifo, non sembra poter uscire.