Grazie, Nebbia - Wystan Hugh Auden

mercoledì 28 dicembre 2011


Grazie, Nebbia è l’ultima opera di Wystan Hugh Auden, uscita postuma nel 1974, ed è quindi l’estremo frutto della ricerca del grande poeta inglese, naturalizzato statunitense. In questa edizione Adelphi, tradotta da Alessandro Gallenzi e uscita nel settembre del 2011, gioca un grande ruolo l’ironia; le poesie sono dei raffinati giochi metrici, spesso in rima, in cui vengono fuori le idiosincrasie e le passioni del poeta, filtrate appunto attraverso questa ironia matura, da maestro, in certi momenti anche con una sorta di humor nero. La traduzione mi sembra all’altezza di questi versi, riuscendo anche a riprodurre in diversi casi la rima, ma non, purtroppo, il complesso gioco di assonanze e allitterazioni che compongono la poesia di Auden.

Per chi conosca L’età dell’ansia o Horae canonicae, queste poesie possono apparire anche minori e non è un’impressione sbagliata, minori non tanto per il valore ma per il tono spesso colloquiale e la presa ironica sulla realtà. Infatti, ci sono poesie d’alto livello, a cominciare dalla poesia eponima, elogio della nebbia, ”acerrima nemica della fretta”, che accarezza il mondo, trasportandolo lontano dalle logiche della produzione “dove si è attenti a ogni punto e virgola”.

In questi versi c’è una visione cupa e terribile del mondo dei media che “vomitano in prosa trasandata/fatti violenti e sordidi”, leggiamo una maledizione rivolta contro l’automobile, ”vile invenzione”, descritta come un aggeggio rumoroso e puzzolente, troviamo una critica feroce a Hegel e Hobbes definiti “sciocchi di talento” e “ingegnosi tipacci”. Anche Descartes, con la sua scienza e la sua parrucca, non appare diverso dallo”stregone dalla faccia tinta”. Nella poesia Ringraziamento scopriamo invece gli scrittori verso cui Auden si sentiva debitore, da Orazio a Frost, da Brecht a Kierkegaard, senza i quali egli non sarebbe stato in grado di scrivere nemmeno “il più scadente” dei suoi versi. Nei brevi mottetti della poesia Pezzi brevi, Auden mescola haiku e considerazioni aforistiche, rendendoci una sintesi efficace del suo pensiero poetante.

“ Le sventure, qui in Terra, non uccidono,
Il Fuoco non è spento dalle tenebre,
le Brezze non si chiudono in bottiglia,
e non c’è attrito che consumi l’ Acqua.”

In questi versi, l’Arte e la Scienza sono parimenti dei giochi, dei trastulli, sono solo un “baloccarsi con la verità”, e non possono, né devono, ambire all’eliminazione di ciò che Auden chiama l’”enigma sonnecchiante”, vero sostrato profondo della realtà.

E’ la descrizione questa di un “Mondo/nel quale i desideri sono inutili”e noi viviamo nella “cella/imbottita del sonno” e dove “il Tempo, dominio dell’Azione/richiede una Grammatica/complessa”. Anche il culto della Storia è ripetutamente messo in discussione: essa non è maestra di vita ma una calcolata menzogna, fatta dal “criminale in noi”.

Vi sono anche divertissement come L’intrattenimento dei sensi, scritto in collaborazione con Chester Kallman, pezzo venato di humor nero, dove a parlare sono personificazioni del Gusto, dell’Udito, dell’Odorato, della Vista, del Tatto. Qui ogni monologo delle cinque ipostasi è concluso dalla parola “grave” (tomba), e tutta la poesia è un memento mori, che l’uso ironico della rima rende scanzonato. L’ironia sembra il frutto della maturità e la troviamo anche nella breve poesia Economia:

Nei magri anni Trenta
i giovani vendevano
per un pasto abbondante il loro corpo.
Nei ricchi anni Sessanta
lo facevano ancora:
per onorare i pagamenti a rate. “

Vi sono grandi poesie, in cui Auden porta alla luce la sua visione della contemporaneità, era in cui “avete costruito più auto di quanto sia possibile/ parcheggiarne.” Poesie della maturità, rese pungenti dall’ironia, prodotto di un poeta che sa regalare ancora versi straordinari, come nella poesia Agli animali, dove la nostra specie si scopre gelosa dell’innocenza edenica delle altre specie, o come nella poesia Imprevedibile ma provvidenziale, dove riflessioni intorno alla “Sostanza primordiale” diventano visioni degli inizi della vita sulla terra, con continenti che si scontrano e cataclismi. Complessivamente Auden esalta “il buon senso”, dove esso è “il Senso Comune”, il “Common Sense” da persona con i piedi per terra, da persona “della razza di chi rimane a terra” (Eugenio Montale), con il volto, però, perennemente rivolto alle cose di lassù - Auden si convertì al Cristianesimo, mosso, tra le altre cose, dal suo orrore verso il Nazismo.

Grazie, nebbia è il congedo di un poeta che ha segnato il Novecento, portando definitivamente fuori la poesia moderna dalle secche del Romanticismo, mescolando il tono lirico con quello più colloquiale e familiare, e dandoci anche una visione spaventosa e spaventosamente esatta della modernità, ma stemperandola, infine, con l’ironia. Quello di Auden si configura, comunque, come un percorso sapienziale, il poeta diventa saggio, diventa Vate, ma non esplode nella retorica, la trasfigura e la demistifica attraverso l’ironia.

Nessun sole d’estate potrà mai dissolvere
le Tenebre totali diffuse dai Giornali,
che vomitano in prosa trasandata
fatti violenti e sordidi
che non riusciamo, sciocchi, ad impedire:
la terra è un brutto posto ,
eppure, per quest’attimo speciale,
così tranquillo ma così festoso,
ti rendo Grazie: Grazie, Grazie, Nebbia. “

Novità e ritorni

lunedì 19 dicembre 2011


E’ uscita l’edizione ebook di Sotto una luna in polvere. Per il momento potete trovarla sul sito di Kipple Officina Libraria, su Amazon, su Media World. Per chi fosse interessato ricordo che estratti del libro si trovano nell’etichetta Sotto una luna in polvere in questo blog o sul sito The NeXt Station. Anche La Maya dei notturni è tornato disponibile. Sono le ultimissime copie. Grazie dell’ascolto.

L'uomo che cammina un passo avanti al buio - Mark Strand

mercoledì 14 dicembre 2011

L’antologia L’uomo che cammina un passo avanti al buio è un’occasione per seguire il percorso artistico di uno dei poeti più conosciuti e amati del mondo, probabilmente uno dei più grandi: l’americano, canadese di nascita, Mark Strand, che in questa edizione Mondadori possiamo accogliere nella bella traduzione di Damiano Abeni. Leggo la sua opera a partire dalla luce proiettata da quello che considero il suo capolavoro: Il Monumento, pubblicato nel 1973, che in questa raccolta, invero, non è ospitato.

Qui leggiamo poesie che partono dal suo debutto nel 1964 con Dormendo con un occhio aperto, fino a Uomo e cammello del 2006, in mezzo, tra l’altro, lo straordinario esito di Porto oscuro nel 1993, e vediamo la sua voce crescere nel tempo, dalle prime poesie fino alle ultime, complicate variazioni sul tema del sé e del nulla che lo accompagna come un’ombra malefica.

Strand è ossessionato dall’oblio, come dimostra una delle poesie più belle, intitolata Sempre, dove fantomatici personaggi, definiti magistralmente da Abeni “i maestri dell’oblio”, “the great forgetters” nell’originale, cancellano il mondo, da San Francisco al Giappone, fino a che anche gli alberi e le case scompaiono e rimane solo “ la vampa della promessa ovunque”. Il verso finale è come un brivido che scuote l’oblio, traduce il nulla in una possibilità infinita, da capogiro.

Quando il poeta americano è visitato dall’ispirazione- e questa ispirazione sembra crescere d’intensità negli anni- abbiamo versi straordinari, filosoficamente densi, come nel caso della poesia La vita ininterrotta, dalla silloge omonima del 1990, anno a partire dal quale le poesie di Strand mi sembra acquistino maggiori risonanze filosofiche, unite a una consapevolezza via via più fredda, divenendo sempre più una riflessione pungente intorno alla caducità, all’evanescenza del tempo e della nostra esperienza umana. La sensazione è che il passare degli anni faccia bene alla sua poesia, via via che passano gli anni nei suoi versi c’è sempre più finzione, gioco, ironia, come nella poesia 2032 che inizia così:

“E’ sera nella città di x,/ dove Morte, che un tempo mi amava, siede/ in una limousine, con una coperta sopra le ginocchia/ e aspetta che arrivi l’autista.

Sin da subito, la quotidianità è il regno di Strand, che si muove fra sensazioni a pelo del nulla e riflessioni sulla friabilità del tutto, creando una dimensione in cui l’uomo, impossibilitato a rappresentarsi, a narrare alcunché di se stesso, è prigioniero del nulla, sua origine e sua destinazione.

Tutto è sogno, per esempio nella poesia Una notte d’inverno:

“Andai a una festa di stelle di Hollywood/ ciondolavano a caso, citavano le loro memorie, bevevano/La più carina lasciò scivolare a terra il vestito, cadde,/ in ginocchio, e disse che solo il marito aveva mai scorto/il fiore ombroso del suo pube, ed egli era un principe(….)

‘Scendevano celestiali le ombre della sera.’ Era un sogno.”

E’ la creazione di una dimensione onirica, dove, però, spesso Strand fa circolare l’infezione di una lucida consapevolezza che sa la nullità di ogni cosa, e la fa vibrare a volte con un’elegante ironia, dove, però ironia è soprattutto finzione.

“Il risveglio prova solo l’esistenza della grande Macchina,
e la luce dura ti cade sulle spalle.
Cammini tra i morti e parli
dei tempi a venire e di questioni dello spirito.”

La vertigine della nostra inconsistenza vibra spesso in questi versi, in cui slanci lirici accompagnano scorci paesaggistici e filosofiche divagazioni. A volte è narrazione di un incubo, con le sue stranezze e incoerenze, altre volte una splendida descrizione di una caccia alle balene, e sempre questo paesaggio americano lunare a fare da sfondo. Strand viene accostato a Hopper, pittore di paesaggi congelati nella solitudine, e il poeta Wallace Stevens è fra i suoi maestri.

Fra le poesie più belle quella dedicata al padre morto: Elegia per mio padre, nella raccolta La storia delle nostre vite, in cui la scomparsa del padre è ricordata attraverso una dinamica fra ciò che è, o era, tangibile, il suo corpo, le sue mani, le sue braccia, e l’assenza, la sparizione più propriamente, tema cardine del poeta, indagato anche in quello straordinario poema in prosa, scritto filosofico, prosimetro, che è Il Monumento.

Un altro capolavoro di Strand è Porto oscuro, giustamente riprodotto integralmente in questa edizione Mondadori. E’ un poemetto strano che narra di allontanamenti, di addii, di esilio e di lutto, in una misura altamente enigmatica, è una sorta di discesa negli inferi della nostra epoca, fin dentro le viscere della sua sostanza infuocata. E il tocco di Strand non è mai gelido, è catartico nella misura in cui rielabora paesaggi in chiave lirica, usa dei linguaggi colloquiali, raffinati stilisticamente fino a diventare ricognizioni filosofiche, soprattutto quando mette in scena genialmente quella che Rosanna Warren chiama ”la spoliazione del sé o quando ci fa udire ““tutte quelle voci che invocano dalle profondità dell’altrove. “

In Porto oscuro Strand ci parla di un viaggio in un “mondo dal quale nessuno ritorna, ma verso il quale viaggiano tutti,” e dove tutto via via si trasforma in “rifiuto e dubbio”. Questa è anche la storia di una misteriosa ombra che si posa su di noi, impedendoci la soddisfazione. E ’l’ ombra del desiderio inappagato e inappagabile, per noi che al massimo siamo “ostaggi del buio”, “attoniti d’immenso”.

Poema davvero straordinario Porto oscuro è il vertice di una ricerca tutta al negativo, che denuncia che “in un mondo senza paradiso tutto è addio”, anche se affiora la dimensione orfica, del canto che tutto può redimere, ma solo per un po’, nella sostanza il mondo non cessa di essere una prigione. Soltanto nel canto a volte può affiorare “ un inno/ in cui le forme e i suoni del paradiso sono sepolti”, ma anche questo inno è segnato dal lutto, perché alla base del pensiero di Strand c’è l’oblio come unica realtà assoluta.

In Denarrazione è la possibilità stessa del racconto, del ricordo, che sembra venire meno; il protagonista cerca di raccontare un episodio infantile e ne rimane sopraffatto, senza reale possibilità di fissare l’istante per sempre perduto, che in realtà lo sommerge con il suo mistero. C’è forse il residuo di un’illusione per il poeta- narratore, salvare i viventi attraverso il racconto della loro esistenza ma implacabile nei versi di Strand cala la consapevolezza del nulla “ in cui noi tutti verremo spazzati.”

Se non c’è dolore, solo lo scomparire pare reale e questa è la cifra stilistica di Strand: restituirci la nozione del nostro essere nulla, fantasmi che increspano la superficie illusoria del tempo e subito vengono inghiottiti, senza lasciare alcuna traccia.

Un piede avanti all’altro. Passano le ore/ Un piede avanti all’altro. Passano gli anni. /I colori dell’arrivo svaporano/ E’ così che faccio.

Strand innesta la sua parola dentro questo svaporare, rendendola ambigua testimonianza di un flebile passaggio, ma è un’illusione, perché in realtà tutto è intestimoniabile, anche la poesia pare un mezzo troppo debole affinché s’imprima nella memoria alcunché. In questi versi, quasi inavvertito, tutto passa, e raccontarlo è un’utopia, rimane una triste consolazione ”se la fine è arrivata, anch’essa passerà.”

Strand mostra le profondità del pensiero nichilistico, anche nella sua rinuncia a dire l’essere, mostrandolo innominabile; intorno al nihil egli danza con il volto del saggio dall’aria immensamente ironica e al tempo stesso attonita, la cui disillusione però è ancora capace di commuovere il cielo.

E’ l’intima dissoluzione delle cose, dei pensieri, dell’uomo stesso, che interessa Strand, lanciato in questa perlustrazione, come un rabdomante in cerca dei brividi del nulla, parola chiave della sua poesia, che disegna quella che chiamerei un’epica della sparizione.

Vado alla deriva.
Rabbrividisco.
So che presto
arriverà il giorno
a lavare via la macchia
bianca della luna,
e che io camminerò
sotto il sole del mattino
invisibile
come chiunque altro.”

Una poesia di Mark Strand

sabato 10 dicembre 2011

SEMPRE

per Charles Simic

Sempre così avanti nel giorno
con gli abiti sgualciti, seduti
a un tavolo illuminato da una lampadina,
i maestri dell’oblio lavoravano sodo.
Inclinarono il capo da un lato, chiudendo gli occhi.
Allora una casa scomparve, e un uomo in giardino
con tutta una fila di fiori.
I maestri dell’oblio aggrottarono la fronte.
Quindi la Florida svanì e San Francisco
dove rimorchiatori e chiatte lasciano
piccole cicatrici lucenti sulla baia.
Uno dei maestri dell’oblio accese un fiammifero.
Sparirono allora le cetre imperlate di luci
inarcate sopra i fiumi di New York.
Un altro si riempì il bicchiere
e fu la fine per le folle di sera
sotto l’accendersi di lampioni giallo zolfo.
E poi svanì la Bulgaria, e poi il Giappone.
“Avrà mai fine?” chiese uno di loro.
“Opera estremamente ardua, perseguire il fato
dell’universo scibile” affermò un altro.
“Fino all’ultima pietra”, disse un terzo
“e solo il gelido zero della perfezione
lasciato all’immaginazione”. E sparirono
allora il Nord e il Sud America,
e altrettanto sparì la luna.
Uno dei maestri dell’oblio tossì,
un altro sbadigliò, un altro guardò fuori dalla finestra:
niente erba, niente alberi…
La vampa della promessa ovunque.

***
Da L'uomo che cammina un passo avanti al buio - Mark Strand - traduzione Damiano Abeni - Mondadori (2011)