domenica 29 agosto 2010
Oggi la rima è praticamente caduta in disuso, retaggio dei secoli passati, ma può essere recuperata sul piano dell’ironia, come fa Arbasino in questo Rap 2, datato 2002, che segue il precedente Rap del 2001. La sfida è resuscitare la poesia civile, anch’essa ormai abbandonata, rientrare nel vortice della Storia, fare le boccacce all’attualità e ai suoi linguaggi, in questo Arbasino è un punto di riferimento per tutti. Così la grande farsa della contemporaneità trova in questi versi la sua nemesi, ora ironica, ora sarcastica, sempre pungente e affilata. Se, come scriveva Wittgenstein, quella che chiamiamo realtà è essenzialmente un “gioco linguistico”, per decifrarla dobbiamo affidarci a colui che all’infame lavoraccio del verso preferisce la levità dello sberleffo, in questo senso Rap 2 è un’operazione riuscita di smontaggio dei miti collettivi, con le loro paralisi linguistiche.
Quella di Arbasino è una scrittura che non teme di utilizzare certi cliché della musica pop, non ha paura di mescolare alto e basso, cultura popolare e classicità, regalandoci ritmi, riflessioni sul linguaggio, rievocazioni degli anni cinquanta o sessanta, indagini accurate sulle dinamiche della modernità. Arbasino è sempre mordace, sempre tagliente, mai scontato, riesce ad aggirare le secche del linguaggio comune, pur mimandolo parodisticamente, con leggerezza calcolata ci seduce con un linguaggio colorato e talvolta colorito, aggredendo le ipocrisie linguistiche con cui le”borghesie e le burocrazie” ci inondano per “evitare il concreto”. Come Pasolini, di cui Arbasino era amico, come testimonia la poesia intitolata Privacy Fair, lo scrittore lombardo ha in orrore la litote, “non vedente, non udente, non parlante”sono gli stratagemmi con cui gli “avvocaticchi”, i piccoli borghesi, mostrano le piaghe del loro conformismo. Lontano da ogni dimensione di lirismo, quella di Arbasino è una poesia di giochi, marachelle, birbonate, in cui si manda a quel paese ogni solennità, ogni retorica da mausoleo. La letteratura è un gioco, non bisogna prendersi troppo sul serio, ma neanche scendere a patti con i luoghi comuni, luttuosi o ridanciani che siano.
Uno dei bersagli polemici è l’Illuminismo, come già in SuperEliogabalo, dove veniva definito”la minore età dell’uomo qualunque della strada”, qui nella poesia intitolata “E ora, poveri pensatori?”Arbasino lascia intendere che il culto della Ragione è ben misera cosa, e che forse dietro le mattanze del Novecento si allunga l’ombra di questa fede nel progresso e nell’intelletto. Certo a volte l’enumerazione caotica può risultare stucchevole, manieristica, e certi epigrammi sono un po’ troppo frivoli, ma tutto sommato la scrittura poetica di Arbasino è convincente nel presentarci il mondo come uno scenario di cartapesta incendiato da tensioni e da una “ferocia illimitata”.
La grande vacuità del linguaggio giornalistico, politico, mediatico, è stigmatizzata in nome della feconda follia del pensiero poetante, che fluisce ininterrotto, scalzando gli idoli linguistici a cui il mondo si sottomette per fatale inerzia e letale conformismo, che in un verso vengono definiti “trovarobato retorico”. In Odi profanum è certa narrativa a essere dileggiata:”La narrativa di signora mia / prospera sui disturbi del papà/ sui crucci e le pene della mammà / e della nonna, e sulle manie/di quella povera zia./ “. In altri versi ad essere irriso è invece il luogo comune del politicamente corretto che si rovescia facilmente in banali trasgressioni consentite.
Ancora una volta è la Critica della Cultura ad essere perseguita, il regno di Arbasino è l’irriverenza, che vuole sfuggire anche alle “retoriche della trasgressione”. E’ chiaro che viviamo in un ‘epoca di grave involuzione, dove i conformismi massificati assurgono a verità metastoriche, tautologiche, e diventano il sacro per eccellenza, per cui Arbasino, sbeffeggiando i linguaggi della contemporaneità, opera nel senso di una profanazione, restituendoci, con la sua divertente e divertita parodia, il gusto della sconsacrazione.