Campi di Castiglia - Antonio Machado

giovedì 30 giugno 2011

Pochi poeti hanno la maestria di Machado nel ritrarre paesaggi montani e di campagna, facendoli vivere nei propri versi come delle entità dotate di un’anima propria. Campi di Castiglia ha proprio questa peculiarità, i personaggi si muovono dentro un grande scenario di monti e fiumi, dipinti con potenza e con nostalgia dal poeta. E’ un’operazione di rievocazione costante, il fiume Duero è riconosciuto come “padre” di queste terre in cui la vita splende con i suoi vigneti, le sue taverne, con i suoi “ grigi uliveti”, realtà fisiche, concrete, che sono le vere protagoniste di queste poesie.

Campi di Castiglia a differenza di Solitudini, opera prima di Machado in cui prevaleva un tono triste, dimesso, quasi crepuscolare, assurge così alla potenza del tono epico, dove l’epos è nel paesaggio stesso, ora imponente, ora inquietante, più spesso familiare e amico.

La raccolta si apre con un significativo autoritratto che sembra spezzare ogni legame con l’immagine di se stesso proposta in Solitudini, opera giovanile in cui il poeta aveva espresso tutto il suo taedium vitae, in versi interessanti ma a volte un po’ rigidamente convenzionali. Con Campi di Castiglia l’immaginazione di Machado si libera dei suoi orpelli decadenti e assurge alla potenza selvaggia degli stessi paesaggi in cui si muove il verso. Machado si apre a una dimensione di esaltazione panica, egli appare nei versi finali dell’autoritratto iniziale “leggero di bagaglio/ e quasi nudo, come i figli del mare”. E’ il sogno di rientrare nella potenza naturale, abbandonando tutti i cascami retorici dell’intellettuale un po’ goffo e malvestito, “ già conoscete il mio goffo modo di vestirmi.” C’è anche un’orgogliosa dichiarazione di poetica: “Non amo i belletti di nuova cosmetica”, oppure “ né sono un uccello dal trillare allegro”.

Ciò che più colpisce è la capacità con cui Machado evoca gli aspetti puramente sensoriali: i colori, i profumi, della terra di Castiglia - terra definita ”mistica e guerriera”- sono vividi e si effondono traverso i versi con tutto il loro realismo, giacché la lezione del poeta spagnolo non è quella di trasfigurare simbolicamente il paesaggio, ma di riportarne la bellezza immediata, quella dei sensi. La nostalgia della propria terra colpisce il poeta come un’ubriacatura visiva, non visionaria, tenendo presente la differenza che formulò Contini a proposito di Dino Campana.

Machado è un poeta della vista, dell’olfatto; i suoi limoneti, aranceti, uliveti, hanno la forza quasi estatica della nostalgia, giacché sono rievocazioni, per lo più della prima giovinezza e dell’infanzia, vissute da Machado in terra di Castiglia. Ma non mancano toni duri, come per esempio nella poesia Nelle terre di Spagna, inizialmente intitolata Gente di Soria. Machado dovette cambiare il titolo perché infastidito dalle polemiche della popolazione chiamata in causa , definita di “nomadi rozzi”, dedita a ”insani vizi “ con “gli occhi sempre torbidi di invidia e di tristezza”. L’ombra di Caino” attraversa queste terre e un poemetto, intitolato La terra di Alvargonzàles, è incentrato sul parricidio di due giovani pastori.

Questo poemetto dal registro narrativo è attraversato dal presagio dell’orrendo delitto, Machado insiste sul dettaglio anatomico del viso del padre su cui appare ”uno sfregio oscuro/ come il colpo di un’ascia, dettaglio che evoca la scure con la quale poi verrà ucciso. La storia diventa subito leggendaria, il popolo inventa dei canti come per evitare il malefizio che incombe sugli assassini e sui loro possedimenti, inutilmente perché anche la fine di questi è tragica.

L’epica del paesaggio invece è tutta in versi come questi, vibranti e splendidamente ritmici anche nella traduzione di Claudio Rendina:

“sotto un cielo indaco, deserte piazze

dove crescono aranci risplendenti
con delle frutta vermiglie e rotonde
e in un orto, in penombra, il limoneto
con rami polverosi
e pallidi giallognoli limoni,
che è riflesso nella fonte limpida,
profumo di nardi e di garofani,
forte odore di menta e basilico,
immagini di grigiastri uliveti,
sotto il pallido sole che stordisce
e acceca (…) “

In questa mirabile sintesi di colori, profumi, immagini luminose, si coglie enorme l’impeto vitale di ogni singolo componente del mosaico. E’ questa la grandezza di Antonio Machado, questa ispirata capacità di condensazione, dove anche la sensazione umana pare fusa con le cose, l’occhio è attraversato da impressioni di bellezza eterna. La mente si esalta, percependo la purezza di questi versi, nati da un amore per la realtà fisica, che significa anche la piena accettazione della desolazione e dell’angoscia. Consapevole della brutalità dell’essere umano, il poeta spagnolo è però colmo di stupore verso i pastori, gli induriti lavoratori di queste valli, che, in quanto membra viventi di un paesaggio in continuo movimento, assurgono, nell’immaginazione, a una dimensione sacrale. Anche Machado, come Campana, ha visto, misera e sublime, ”l’ombra curva del lavoro umano”, lassù, sui monti, e l’ha cantata, con tutto l’entusiasmo che solo una visione fondamentalmente nostalgica può esprimere.

***

Campi di Castiglia si trova in: Poesie- Antonio Machado – traduzione Claudio Rendina - Newton Compton

4 commenti:

LucasBlog ha detto...

Ho amato Machado comun bambino ama un nuovo giocattolo, amo Machado come quando guardo un antico giocattolo che fa esplodere mille ricordi, amerò Machado perché secondo me entra di diritto tra i poeti cui i connettivisti s'ispirano.

Ettore Fobo ha detto...

@ Lucasblog: Bella l'immagine del giocattolo, appropriata per un poeta come Machado. Grazie del commento.

Yanez ha detto...

Machado accompagnò una mia esplorazione, appunto, della Castiglia e rimane per me un poeta pittorico proprio come tu lo descrivi. Grazie!

Ettore Fobo ha detto...

Ciao Yanez, io ho letto alcuni di questi versi in riva a un fiume, vicino un boschetto, e sono rimasto affascinato dalla loro luminosità: è stata un'esperienza sensoriale.