Il Monumento - Mark Strand

sabato 21 maggio 2011



La sensazione è che la grande poesia più viene letta e assorbita più diventa impalpabile, inafferrabile, più la si frequenta più aumentano le risonanze che ci sconcertano, si intravvede una strada dove prima si intuiva appena un’ombra, sorge un continente dove sembrava si agitasse della polvere. E’ proprio questo mi è successo leggendo e rileggendo questo capolavoro di poesia contemporanea Il Monumento, poema in prosa, prosimetro, allusiva raccolta di scritti filosofici, opera di una delle voci più autorevoli della poesia contemporanea, l’americano Mark Strand.
E’ un’opera sommamente elusiva, articolata in cinquantadue sezioni, sembra non dire nulla, anzi affermare la nullità di ogni voce, negandosi anche come opera, e invece proditoriamente si estende sui secoli, sui millenni.
E’ la contraddizione un po’ umiliante del poeta, contraddizione che gli è essenziale, perché egli inevitabilmente è attraversato dal desiderio che la sua voce si eterni, voce che pure afferma la nullità di se stessa e di tutto. Ma è la sublime evanescenza delle cose che Mark Strand sembra esaltare, con un tono assolutamente pacato, dolcemente terribile, raggiungendo, attraverso la leggerezza fantasmatica della sua prosa, la dimensione dell’incanto filosofico, coniugando ad essa la sospensione aporetica della poesia.
Sono come cerchi nell’acqua queste prose, cerchi nel lago della letteratura, che si uniscono a citazioni di altri poeti e filosofi, che inevitabilmente compongono altri cerchi; tra di loro Stevens, Whitman, Miguel de Unamuno, Wordsworth, Nietzsche, Cioran. Il Monumento prefigura dunque quasi una dimensione d’ipertesto postmoderno, essendo propria una profonda riflessione sull’atto della scrittura, della traduzione in particolare.
Perché si tratta di uno scritto che viene dedicato un ipotetico traduttore di un’epoca futura, che appartiene a un’altra civiltà, a cui il testo stesso è rivolto. Tra i due s’instaura un dialogo immaginario fra i secoli, e il tema non è la vita dell’autore, la sua biografia, il suo essere, in realtà il vero centro è la sua assenza, la sua mancanza, perché egli, l’autore, non è nient’altro che un flatus vocis di un fantomatico passato, che ha bisogno di essere incarnato da un altro essere di un altro altrettanto fantomatico futuro, il traduttore. Vengono in mente le parole di Agamben, per cui l’autore non sarebbe altro che “il vuoto leggendario da cui procede il discorso”, e qui Strand non fa altro che scomparire, per far emergere solo l’opera, Il monumento, appunto, “unico filo” teso-Strand in inglese significa filo-fra il “nulla che sarà e il nulla che è stato.”
Già l’incipit, che è una fra le sezioni più brevi, è significativo di questo:
“ Lascia che mi presenti. Io sono … eccetera eccetera. Adesso sai di me più di quanto io sappia di te.”
Procedendo nella lettura si scopre che l’opera si compie, magicamente girando su se stessa, l’autore si eclissa, la voce si perde, rimane solo l’opera stessa, monumento funebre a una voce svanita, che un'altra voce ha il compito di tirare nuovamente fuori dal nulla. Qui il traduttore non è più solo un traditore ma ”interprete-angelo”, e Strand nella sua evanescenza di autore immagina che il traduttore si voglia sostituire a lui, attribuirsi l’opera, tanto i confini fra i due si assottigliano e uno sembra trasformarsi nell’altro oppure, immaginando che il traduttore sia una donna, sogna un ipotetico parto di se stesso, divenuto donna. Giova riconoscere che Strand in questa traduzione ha trovato due ottimi interpreti: Damiano Abeni e Moira Egan.
La vertigine di Strand è porsi in un lontano futuro, per diventare una traccia indelebile e al tempo stesso scomparendo, per diventare una voce sopravvissuta all’annientamento, con la consapevolezza che” Nulla è il destino di chiunque” e vivendo questa scissione come fosse una ferita, sebbene cicatrizzata dall’acutezza e dal nitore dello scrittura, ultimo baluardo e antidoto contro ogni evanescenza. Ma all’autore non sfugge che la propria lingua è ormai scomparsa, il mondo che lui calpestava non è più nulla, archeologia e rovina, lui stesso è diventato un fantasma, e forse lo è sempre stato. E tanto più quest’annichilimento avanza, tanto più egli si affida al monumento funebre della prosa, dello scritto filosofico, in sostanza della scrittura come atto totale. Supremamente ironico Strand tratta tutto con un tocco caloroso, non è mai realmente freddo, il suo rapporto con il traduttore oscilla fra la paura, il rispetto, la diffidenza, l’affetto, ma egli procede anche terribilmente ”emettendo tenebra” “ decorticando pagine” attuando la sepoltura, la dissepoltura della propria vita, che però coincide unicamente con l’opera che sta scrivendo, unico “documento” capace di eternarla, ma forse è un’illusione.
Mi sembra che una delle domande sospese sia sul senso della letteratura: come affidare una voce, sempre e comunque svanita, a un’eternità in cui tutto si cancella? Eppure il desiderio di chiunque scriva è questo: eternarsi, massimamente, fra tutti, i poeti. Strand è consapevole di quest’assurdità, perciò gioca sempre la sua partita sul filo tragico del nulla, nostra sorte futura e nostra origine. Ma una grande chance è offerta al creatore, al poeta, vivere la sua totalità nel momento della scrittura” lampo di voce” capace di originare uno straordinario monumento per questo nulla. E la cosa ha ancora più risonanze in questo testo perché si scopre un fortissimo aspetto dialogico, nell’atto supremamente solitario della scrittura, ci si aggira in un’atmosfera di costante mistificazione, perché tutto sembra un gioco fra ombre e specchi in un labirinto, su tutto sfavilla come un sorriso sornione, perché il monumento stesso è un’impossibile illusione, l’illusione stessa della letteratura. Tutto si disfa e non è più, se mai è stato.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un testo da leggere e rileggere. Ottima la tua recensione... complimenti.
Logos

Ettore Fobo ha detto...

Grazie del complimento Logos. Un saluto.