L'ultimo hotel e altre poesie - Jack Kerouac

sabato 25 agosto 2012




  

“ La mia vita è cambiata dopo aver letto la raccolta di Jack, Mexico City Blues, la prima poesia che parlava la mia stessa lingua. “
                                               Bob Dylan

Bisogna iniziare con una verità poco nota: Jack Kerouac, universalmente conosciuto  per il romanzo Sulla strada, è stato soprattutto un poeta originale e creativo, nella sua tutto sommato breve vita- morì a soli 47 anni. 

Coltivò  entusiasmi, smarrimenti, esaltazioni,  infelicità  e illuminazioni tipiche della sua epoca, con grande allegria ed energia, nonostante una inquietudine esistenziale di fondo; con la capacità di inventare ritmi musicali propri della poesia, jazzando la lingua fino a creare uno stile inconfondibile, che la traduzione di Massimo Bocchiola ci restituisce efficacemente in questa antologia, L’ultimo hotel e altre poesie,  volume ponderoso che ha tutta l’aria di essere la silloge definitiva, edito da Mondadori e riproposto un paio di  mesi fa dal  Corriere della Sera nella sua stupenda collana di poesia del Novecento.

In questa raccolta originariamente intitolata Poems All Sizes,  abbiamo diverse sue poesie classiche:  Come meditare, Pax,  Solitudine messicana, nonché  alcuni dei suoi straordinari haiku, in cui Kerouac  gioca con la tradizione cinese, creando poesie brevi di grande modernità.

”Le acque vedono/ Le acque hanno veduto/ Dunque l’eternità è questa. ”

“Può il tempo crepare la roccia?/ Il marmo scheggerà./Il diamante morrà. “

“Imbrunire: l’uccello sul recinto/ un mio/ contemporaneo. “

Quella di Kerouac è una intelligente  fusione di jazz, linguaggio da strada, spiritualità orientale,  quando Buddha incontra un se stesso bebop,  ubriacone, ribelle, spettinato e avido di vita. Kerouac fu tutto questo: un poeta in grado di immergersi nella vita da bar e di strada, con una bottiglia di Jack Daniel’s in mano, e un pensatore metafisico, attento, desideroso di conoscere l’essenza di ogni fenomeno, la buddità  intrinseca e originaria della natura. E  in queste  poesie l’essenza sembra essere l’estasi, come in Ginsberg, ma con una maggiore giocosità legata a una straordinaria leggerezza, che solo a tratti rivela l’originaria inquietudine da cui in realtà  è scaturita come suo intelligente superamento.

Dietro c’è la grande lezione etica di Whitman, abbracciare la diversità, essere filantropi e amare l’uomo e la natura, nutrirsi dei grandi spazi americani, e affidarsi alla speranza, che in Kerouac diventa un’adesione profonda al buddhismo zen, filtrata attraverso un antico, originario e mai dimenticato,  cattolicesimo di base.

E’ la Beat Generation,  generazione che oscilla fra l’essere beaten (battuta)  e l’ essere beata, “the beatific generation”  nelle parole di Kerouac.

Sono tutti  sulla strada, certo, i vari Kerouac, Cassady,  Snyder, Ginsberg, Corso,  Ferlinghetti e tutti gli anonimi che fecero parte di questa generazione,  dentro al mondo contemporaneo, in cerca però di un’illuminazione antica che proviene dall’Oriente di duemila e seicento anni fa. Fra tutti Kerouac spicca per l’acutezza della riflessione metafisica, che diventa una riflessione  sul vuoto, inteso come non luogo di liberazione  dai fardelli mentali, compresa quello della comprensione. C’è anche  la strana consapevolezza zen che  pensare equivale a non pensare, fare a non fare.

“- Pensare è proprio come non pensare./ Perciò non devo pensare/mai/ più.”

E allora abbiamo giochi verbali, marachelle  linguistiche che assomigliano a graffiti sui muri,  o messaggi in codice agli amici, accanto ad haiku in cui la quotidianità  è rigirata come un guanto, per farla brillare, abbiamo poesie in cui si capisce cosa intendesse Kerouac con il termine illuminazione: uno stato di suprema beatitudine nel vuoto. A differenza di Ginsberg che in fondo credeva un po’ troppo alla sua missione di bardo barbuto, Kerouac è volutamente poco serio, gioca d’azzardo, è scanzonato e ambisce alla spensieratezza dei bambini cui assomiglia  anche per il tono dolcemente irriverente. Tutto è sintetizzato in un’avversione per la mente, che si crede totalità, quando è solo frammento, frammento della caducità e del vuoto.

“La mente non è il facitore/ per nessuna ragione/ di tutta questa creazione/ creata per cadere.”

Anche se la traduzione di Massimo Bocchiola è una buona traduzione, bisogna ammirare soprattutto l’originale inglese, il suo ritmo, le sue rime:

“Mind is the maker/ for no reason at all/ of this all creation/ created to fall”

Leggendolo si ha la piacevole sensazione che Kerouac,  come del resto  Whitman, fosse una persona buona, desiderosa soprattutto di dare e ricevere amore. Kerouac ebbe molti amici, e li amò molto, li cantò nei suoi versi come i primi destinatari del suo messaggio in bottiglia, messaggio di amore universale, nella forse illusoria consapevolezza della fondamentale bontà della Natura. Perciò soprattutto  i suoi componimenti brevi assomigliano a sogni ad occhi aperti, la sua poesia ci immerge in questa tensione alla beatitudine. Si galleggia bene nelle poesie di Kerouac, le quali fanno bene allo spirito e riescono a essere realmente catartiche. Talvolta lo scrittore americano indugia nel non sense, nel tentativo di spiazzarci ma questo non sense ha quasi sempre un significato ritmico, una sonorità inedita, un’allure allegramente dadaista. 

 Spezzando le catene del discorso comune, trascrivendo la quotidianità traverso uno sguardo scanzonato o ispirato, Kerouac indossa la maschera  del veggente e ci invita a fare un tratto di strada con lui, per mostrarci la realtà in un’altra luce. Tutto si riduce a essere la ricerca di una mente ”libera, serena, spensierata”, non più ossessionata dall’idea di dare significato, ma capace di spegnarsi dolcemente in  una beatitudine che ha tutta l’aria di essere, nonostante tutte le sovrastrutture filosofiche,  un ricordo dell’ infanzia.

Alcune poesia di Kerouac sono infantili in questo senso, fanno riferimento a un’innocenza primordiale, a una beatitudine antica, che non può esprimersi se non attraverso una lingua inventata, sospesa fra glossolalia e lallazione.

C’è una straordinaria poesia su Dio, dove Kerouac si chiede chi abbia acceso” l’immensa Luce/ l’oscura brillantezza del Mistero/ perché tutti i boncuori si avvolgessero/ serbando la comprensiva umanità/ intatta come il lento, coraggioso/ sospiro di Beethoven. “ dove  l’originale “understanding simpathy” viene tradotto come “comprensiva umanità”.

Ci sono componimenti brevi intitolati Illuminazioni, in cui Kerouac tratta ironicamente lo stesso tema principe dell’Illuminazione, e opera sul versante di una  liberazione dell’energia dell’Amore attraverso la sessualità:
  
“ C’è la gioia provata dal Santo/ c’è il coito sentito dal tristo  marito;/ ma quando c’è gioia del coito, è Amore:”

C’è anche una visione apocalittica della società contemporanea, che si oppone alla natura, quest’ultima invece sentita spesso in chiave idilliaca:

“Tutti i nostri migliori/sono derisi/in questo paese da incubo/ ma i giornali gongolano/di virtu’ – In tutto/ il mondo la sinistra & la destra, / l’oriente &  l’occidente,  sono malvagi entrambi- “

Ci sono poesie autobiografiche Povero Kerouac sbronzo, Neal alla sbarra, c’è fondamentalmente uno sguardo che sa contemporaneamente indagare filosoficamente l’essenza e godere avidamente dell’esistente, con i suoi “blues di legnaia”, con il suo selvaggio, infantile, non irreggimentato,  anelito di vita.

“ Avevo un sentiero che seguivo per pinete/ e un bianco segugio fosforescente di nome Bob/ che mi guidava quando le nuvole coprivano/ le stelle, e poi mi comunicava/ i sonni di cane amante innamorato/ di Dio. “