sabato 1 dicembre 2012
Fra il 1954 e il 1956, anno della
sua morte, Giovanni Papini tenne, con cadenza quindicinale, una rubrica sul
Corriere della Sera, intitolata Schegge.
Questa rubrica racchiudeva scritti eterogenei: slanci lirici, considerazioni religiose,
analisi della situazione italiana, sociale e anche politica, ricordi commossi
della propria fanciullezza, recensioni sui
generis, scritti tutti legati da uno stile di scrittura prezioso, acuto, vivace, recuperando Papini, in parte, il
lirismo che aveva caratterizzato le sue prime opere. Queste schegge furono
pubblicate postume in volume da Vallecchi nel 1971 ed è in tal edizione che io le
ho lette.
Ai tempi della stesura di queste
note, Papini era già paralizzato e praticamente cieco e a tali sventure si aggiungevano da una parte l’ostracismo
del mondo culturale di allora, che non gli perdonava la sua compromissione con
il fascismo, dall’altra la fredda indifferenza
con cui la gioventù del tempo accoglieva ormai le sue nuove opere, ritenendolo
colpevole di aver abbandonato le posizioni da incendiario della sua giovinezza,
in favore di una visione più pacata.
Rilette oggi a distanza di quasi
sessanta anni queste schegge mostrano un’intelligenza affilata, un’anima probabilmente
pacificata dalla conversione al cristianesimo, e soprattutto quello stile di
scrittura, insieme mordace e lirico, che fece di Papini uno scrittore ammirato.
Furono molte, però, forse troppe, le contraddizioni della sua vita: da fervente interventista dalle conclusioni malthusiane divenne un pacifista intriso d’incenso, da spietato avversario di Dio divenne un suo servo pio e infervorato, da rabbioso vate dell’azione si tramutò in un mistico contemplativo. Ce n’è abbastanza da sconcertare e per ricevere l’accusa d’incoerenza.
Prese degli abbagli clamorosi in
materia di poesia; profetizzando l’oblio per Dino Campana e Dylan Thomas, che
tuttora splendono nel firmamento dei poeti, non accorgendosi invece della
pochezza enfatica delle sue stesse poesie, su cui invece l’oblio è calato sì,
forse misericordioso. Perché questo va detto, se Papini fu uno dei prosatori
più geniali della sua epoca, non fu altrettanto abile come poeta e risulta in
questo senso oggi giustamente dimenticato. In questa rubrica con un certo
infantile sussiego pubblica alcuni suoi versi: pedanti, pesanti, oziosi,
scolastici nei loro ritmi ingenui, e più volte si definisce poeta, come uno
scolaretto contento di ricevere questa investitura.
Se Papini fu un poeta, lo fu in
prosa: certi scorci paesaggistici, anche in questa raccolta di scritti, sono
esemplari stilisticamente e quando, per esempio, ricorda sua madre, la sua
prosa diventa commovente e in sostanza Papini non ha paura di parlarci di cuore
e di sentimento, non ha paura di apparire ingenuo.
Anche quando parla di Cristo, con
il suo fervore di convertito, l’efficacia della sua prosa sormonta ogni dubbio
circa la validità dei contenuti. E’ uno dei pregi di Papini: la forma è quasi
sempre affascinante e queste prose, pensate per il principale quotidiano
italiano, sono intrattenimenti piacevoli, e direi, usando una parola forse oggi
caduta in disgrazia, istruttivi; sono prose adatte cioè al pubblico vasto ma
generalmente un po’ distratto dei giornali. C’è
in esse l’ispirazione di una
ritrovata giovinezza e il mestiere di una ben accettata vecchiaia.
Papini aveva sempre avuto
un’indole da moralista sui generis,
da fustigatore dei costumi, e anche in questi scritti essa affiora, anche se forse
un po’ smorzata dagli acciacchi e dall’età. Il lascito migliore di Papini si
trova dunque nel suo sguardo sulle cose, insieme lucido e incantato, nella ferma
convinzione che la vita sia un’avventura che bisogna vivere fino in fondo a
dispetto della coscienza delle amarezze e delle opacità di cui troppo spesso
consiste.
Se c’è l’ottimismo della fede, ciò
non impedisce a Papini di sentire l’immane vacuità che avanza. Perciò davanti
ad alcune sue profezie rabbrividiamo sentendone acutamente l’esattezza:
“Se tanto mi dà tanto e se questo processo di livellamento diventerà sempre più rapido, i mei prossimi posteri si ritroveranno a vivere in un magma umano formato da esseri indistinti e indistinguibili, uniformi e conformi, dove non saranno più visibili neppure quegli ultimi resti di personalità che sono sopravvissuti, per inaudito miracolo, fino alla metà di questo secolo sciagurato.”
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