Ricordi, storielle, fugaci
impressioni, brevi prose, riflessioni critiche, aforismi: questo contengono i
taccuini del poeta americano di origine serba Charles Simic, che Adelphi
pubblicò nel 2012 nella traduzione di Adriana Bottini, con il titolo Il mostro ama il suo labirinto. Su tutto
domina una sprezzante ironia capace di disintegrare le convenzioni, facendo
cozzare solennità e quotidianità, banalità e mistero: “La religione: trasformare il mistero
dell’Essere in una figura somigliante al nonno seduto sul vaso. “
Non manca una visione politica di
amara disperazione: ”In democrazia, il
ruolo principale della stampa libera è quello di nascondere al Paese che è
governato da un’oligarchia.”
Così in poche righe acuminate è
tratteggiato un universo in fondo concentrazionario, quello umano, tragico ma
al tempo stesso ridicolo e spesso anche meschino, cui si oppone l’immensità
senza volto e senza misura del cosmo non umano.
L’ironia è la lente attraverso
cui Simic vede il mondo. Non è un’ironia leggera, né un feroce sarcasmo, Simic
riesce a sostare in una terra di mezzo sospesa fra le due opzioni. Così
demistifica se stesso e la realtà, mostrandoci l’aspetto famigliare delle cose
solenni e l’aspetto solenne delle cose quotidiane, più una terza interessante
dimensione aporetica.
Attraverso la frammentazione di
questi testi ci descrive la disgregazione propria della contemporaneità, ormai
privata anche di quell’ansia di recuperare un’unità perduta che ha contrassegnato
il Novecento. È perciò la sua una felice frammentazione d’idee, contenuti,
rapsodiche visioni, frammenti casuali, che non ambiscono a nessuna
riunificazione ideale, neppure formale, si sparpagliano sulla pagina,
attendendo che uno sguardo si posi su di essi, condivida la loro irriverente,
caustica, iconoclasta precisione di aforismi quasi zen.
È un tono minore, minoritario,
che fa la bellezza stranita, e spesso straniante, di questi scritti. Non è il
tono del classico riconosciuto, consapevole eccessivamente della propria
grandezza e un po’ magniloquente, ma la voce di un poeta immigrato (Simic è
nato a Belgrado e da bambino si è stabilito con la famiglia negli Stati Uniti).
Minore ed estraneo due volte dunque, in
quanto poeta e in quanto immigrato.
Estraneità culturale che Simic esprime stigmatizzando a più riprese gli
accademici e i critici del nostro tempo, incapaci, nella torre d’avorio di una tradizione forse
ammuffita, di leggere la
contemporaneità.
Lo sradicamento è perciò frutto
della vicenda biografia ma diventa in Simic riflessione ontologica: “Siamo tutti clandestini su una nave di
folli.”
Si sentono avvincenti echi
baudelairiani: “Stamattina, aprendo il
giornale, ho sentito una zaffata di mali a venire”. Uno dei modelli di
questi scritti così sembra essere proprio il baudelairiano “cuore messo a nudo”.
Simic è sia cosmico sia
quotidiano, sa intrecciare con finezza entrambe le dimensioni, quella del
finito con i suoi oggetti enigmatici, gli immancabili orologi, gli specchi, e
quella dell’infinito, con le sue vertigini, le sue promesse, il suo enorme
silenzio, trovando così il “nesso fra
personale e cosmico”, come fanno i poeti che egli definisce popolari.
L’insieme dà allegria, una strana
allegria, l’allegria di colui che, come Simic stesso, scopre il mistero al
fondo della banalità, le architetture del fato nella nuda semplicità degli
oggetti, la cui molteplicità abbaglia: “Ogni
oggetto è un’enciclopedia di archetipi”.
Una parte importante di questi
taccuini è dedicata a una riflessione critica sulla letteratura e in
particolare sulla poesia. Nell’immaginazione poetica Simic vede in fondo, e
forse suo malgrado, un veicolo per il trascendente, da ateo esplora una
religiosità perfettamente laica, senza bisogno di alcun dio. Ancora una volta
gli oggetti più comuni sono le sfingi il cui enigma deve essere sciolto dal
poeta, che è colui che indaga la realtà nella sua concreta oggettività e
insieme sa catapultarla nell’ignoto della rivelazione, nel regno della
veggenza, nell’astrattezza del segno e del simbolo.
Simic racconta così la duplicità
di ogni cosa, la profonda ambiguità del reale, con una concisione fredda e
chirurgica e ci regala un libro splendido con la consueta geniale noncuranza.
“La bellezza di un attimo fuggente è eterna.”