La società dello spettacolo – Guy Debord

sabato 5 maggio 2018




Si parla spesso di libri che cambiano la vita ma questa espressione suona un po’ vaga. Si dovrebbe parlare di libri in grado di cambiarci lo sguardo, di aprirci il pensiero, inaugurando orizzonti e mutando il cervello stesso.

Nella mia esperienza questi libri non sono poi così rari, 3, 4 ,5 per decade. La società dello spettacolo di Guy Debord è uno di questi. Lo lessi al liceo nella traduzione storica di Paolo Salvadori per Baldini e Castoldi, cui mi riavvicino oggi superati i quarant’anni. Allora leggerlo fu l’intuizione giusta, era il libro necessario per cominciare a indagare quella cosa che andava scomparendo sotto i nostri occhi, la realtà, a colpi di spettacolarizzazione sempre più ipnotica.

La mia adolescenza fu feconda  di scoperte come questa, inutile citarle tutte ma in questo caso conobbi, attraverso la luce di una scrittura inimitabile e di incomparabile difficoltà, la struttura stessa della società contemporanea, il fondo fangoso della sua alienazione e mi furono forniti i concetti chiave con cui elaborare il lutto del processo di marginalizzazione cui eravamo sottoposti in  quanto consumatori e spettatori.

Perché Debord, come il Pasolini di un altro libro fondamentale e per certi versi complementare, Scritti corsari,  negli anni Sessanta fu voce profetica tanto da poter dire,  più di vent’anni dopo la pubblicazione(1967) de  La società dello spettacolo,  di non essere mai stato smentito in nessuna delle sue tesi.

Suddiviso in 221 aforismi strutturati intorno a una visione, a un’idea unitaria di implacabile lucidità e preveggenza, La società dello spettacolo colpisce per la sua compattezza adamantina,  che brilla già nell’incipit che è un detournement (termine con cui Debord descriveva un tecnica  a metà fra il plagio e la miscitazione) di Marx stesso.
  
“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta  come un ‘immensa accumulazione di spettacoli

Rispetto a Marx il termine “spettacoli “sostituisce il termine “merci”, rivelando così implicitamente  la loro inquietante intimità.

Pensieri taglienti, chiari nella loro funambolica espressione, netti, rovesciamenti improvvisi, chiasmi affascinanti, aforismi che dopo analisi estenuanti forniscono la scintilla di una nuova comprensione del mondo.

La società dello spettacolo è un libro con uno scopo, utopistico, onirico, esaltante, impossibile: sovvertire la società, smontare il modello spettacolare fornendo la teoria per una rivoluzione sentita  però come difficile, estrema, non istituzionalizzata nelle forme di allora. Più che una rivoluzione sembra quella che Camus definiva “rivolta” , puro e semplice “no”, elaborato, però, in uno stile di grande bellezza, “no" scagliato contro al “movimento di negazione della vita divenuto visibile” lo spettacolo, perché esso non è innocuo come si credeva è il cuore stesso "dell’irrealismo  della società reale", quando la realtà si è allontanata in una rappresentazione.

È forse paradossale ma leggendo  Debord sento ormai la voce di un classico, un classico dissidente la cui autorevolezza ha la forza del marmo su cui s’incide la  Storia.
E La società dello spettacolo è un classico dell’eversione, sebbene oggi i Situazionisti, di cui Debord fu guida ed ispiratore, siano stati ingeriti, digeriti ed evacuati da quello stesso sistema spettacolare che intendevano demolire. “On n'echappe pas de – à la machine” “ Non si sfugge dalla macchina “ direbbe Deleuze.

Quindi la chiaroveggenza di Debord finisce nel suicidio, non c’è stata la rivoluzione, lo spettacolo, “cattivo sogno della società moderna incatenata”, che prima aveva un significato per quanto dispotico” Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare” è passato alla tautologia,  all’ipse dixit automatico e autoritario  senza bisogno di giustificazioni” Così è”.

Lo spettacolo da regno delle illusioni è diventato la realtà. Così Baudrillard,  negli anni Novanta in cui leggevo per la prima volta La società dello spettacolo,  poteva affermare” La Guerra del Golfo non è mai avvenuta” essendo divenuta lo spettacolo assoluto in un’epoca già volta al virtuale sistematico.

Tuttavia lo sguardo critico s’impone mentre ahinoi il deserto cresce.

Prevedendo  ciò  che sarebbe stato e che ai tempi della scrittura del libro era appena agli albori, Debord scrive del “divenire merce del mondo” analizzando con precisione chirurgica le tecniche strategiche del consumismo,  dove le merci  combattono la più strenua delle battaglie affinché s’imponga su tutto ”la forma merce”. Un oggetto viene posto al centro della vita sociale come fosse la finalità stessa della produzione, oggetto inizialmente aristocratico che racchiude in sé magicamente le tensioni sociali verso quello che Debord chiama ”consumo totale”. L’oggetto magico perde però il suo prestigio nel momento in cui da unico che voleva apparire si  scopre di massa, entrando nelle case di tutti, riacquistando così la volgarità del sistema produttivo che l’ha imposto. Già un altro oggetto però entra sulla scena per riproporre la stessa illusione e il ciclo si ripete.

Così Debord racconta delle ”sottigliezze metafisiche" della merce di cui lo spettacolo è la dimensione apologetica, controcanto costante che esalta non le armi e i cavalieri ma le merci e le loro segrete passioni. Lo spettacolo invade totalmente la realtà perché è l’epitome del consumo, la sua emanazione  che determina la struttura stessa della città  con la messa in circolo di quelle “merci  vedette”  che sono le automobili e la trasformazione di altri quartieri in quartieri museo, per la spettacolarizzazione della Storia, bene di consumo intellettuale. 

Benché profondamente razionale la chiaroveggenza di Debord ha qualcosa di magico. C’è da chiedersi se questi tempi  ricchi di twittatori compulsivi e comunicatori narcisi, così avari di pensiero, sappiano dare visibilità a un’altra critica altrettanto feroce dell’esistente. Io non credo. Credo piuttosto alla marginalizzazione delle voci altre e che un libro pubblicato 51 anni fa continui misteriosamente a insegnarci cos’è la modernità.


4 commenti:

Humani Instrumenta Victus ha detto...

L'ho riletto dopo aver visitato Expo 2015. Sicuramente un classico, capace di resistere alla prova del tempo.

Ettore Fobo ha detto...


@Humani Instrumenta Victus

Un classico sì. Ne ho avuto la forte sensazione mentre lo rileggevo. E anche i Commentari riservano sorprese.

Maria ha detto...

Ettore, grazie per il tuo commento nel mio blog, da quel che vedo siamo molto in linea... e' da giorni che ri/leggo la Societa' dello Spettacolo (lo citavo anche in un commento, e adesso mi accorgo ne parlavi nel tuo blog 2 settimane fa!) Proprio grazie a Debord per la prima volta ho sentito di aderire pienamente a un movimento, che definirei dell'ovvio reso invisibile. Per me e' tutto attualissimo. La ragione e' semplice, non so la tua eta', ma sicuramente noi ancora apparteniamo a una generazione che aveva piu' definita la separazione tra vita e pubblicita'. Adesso i confini non sono cosi' netti. La merce invade gli spazi, e essendo stata mercificata anche la "cultura" in realta' anche chi si sente fuori dal coro spesso inconsapevolmente sta assumendo la sua dose di spettacolo e rinuncia a ogni rivoluzione.
Poi come scrivevo nel mio post, il modo in cui si fa adesso "pubblicita' della propria vita" e' la fase ultima dello spettacolo in cui le persone sono attori non stipendiati. Credo che a un certo punto tutto il meccanismo dovra' per forza fare CRACK e rompersi. O forse lo credo solo perche' lo spero.
Fa impressione uno spettacolo che va in onda da solo, che si autorganizza eternamente, che trova affiliati pagandoli con la partecipazione e l'inclusione...uno spettacolo che non lascia in pace neanche i suoi morti, crea pagine ricordo, perche' nessuno devo abbandonare facebook... o se lo fai, chi e' dentro ti dice sbigottito "ma perche?" come se non ci fosse vita altra la' fuori dallo spettacolo.
Per questo torno con piacere ai blog, le pagine di qualcuno che se potessi andresti a trovare, perche' le parole che usa e quel che dice te lo rendono di per se' amico.
E siccome non ho voglia di subire marginalizzazioni esteriori ma di creare le mie connessioni ti lascio la mia email trecce_nere@yahoo.it e questo: https://www.youtube.com/watch?v=bmThdLhqkEA

P.S: per poter commentare ho dovuto cliccare una casella "Dimostra di non essere un robot". Ironico.

Ettore Fobo ha detto...

@Maria

Ciò che Orwell non aveva previsto è che la sottomissione al Grande Fratello sarebbe avvenuta con l’adesione entusiasta delle sue vittime. Il terreno è stato preparato negli anni, nei decenni. ”La società dello spettacolo” è un libro in cui riecheggia molto la parola “rivoluzione” che oggi pare un relitto del secolo scorso ed è stata rubricata anch’essa alla voce spettacolo. A differenza di te, da quello che scrivi sul tuo blog (che è davvero bello, complimenti) io purtroppo non ho molta fiducia nell’umanità né molta speranza di una palingenesi. Credo piuttosto nell’entropia, che vedo agire ovunque, spesso spaventosamente. Comunque, comincio a pensare che i blog siano diventati piccoli spazi di libertà in un mondo sempre più alienato.
Grazie di avermi comunicato la tua mail. la mia è stranigiorniettorefobo@gmail.com. Conosco il film di Debord, l’ho visto diverse volte. Ha un potere ipnotico su dime. Grazie anche di questo.