Conversazione con la morte - Giovanni Testori

sabato 19 febbraio 2011

In Conversazione con la morte di Giovanni Testori si uniscono la fatica di dire e insieme di non dire, l’anelito a una parola impossibile si trova accanto al desiderio di purificare il linguaggio, ormai divenuto una scoria di luoghi comuni, ontologicamente corretti, e dunque corrotti.

Le parole sono morte, le parole della nostra classicità cristiana, tutto sembra essersi spento e “pietà”, “carità” , “amore”, sono divenute talmente caricaturali da essere inservibili come ”la spoglia di una cicala”. Un tempo c’era il canto, ma all’”illuminata demenza della Ragione” ciò non interessa, non interessano nemmeno le cicale, tutto deve essere sepolto sotto tonnellate di nichilismo, per non udire più l’antico linguaggio fremere sulla superficie della nostra pelle. Ma il poeta non si rassegna, le parole devono essere reinventate, esorcizzate, fatte risorgere, ed il colloquio con la “cara, dolce ed eterna ombra” deve necessariamente sostituire i monologhi della nostra solitudine.

Quest’ombra, che assume via via la forma di capretta, di cagna, di ragazzina, è la nostra unica amante, è la morte, è la madre (il testo fu composto dopo il decesso della madre stessa del poeta) madre dal “grembo assassino”, perché è la logica, aldilà di ogni retorica sulla maternità, chi dà la vita dà anche la morte. La saggezza sta nell’accettare la vicenda terrena, il terrore, la solitudine, la desolazione, ed anche il logoramento stesso del linguaggio, che cerca a tentoni una breccia in quel buio di cui in fondo l’anima consiste. Anima è un’altra di quelle parole naufragate, manchevoli, insufficienti, negli stessi anni di Conversazione con la morte, gli anni settanta del secolo scorso, Cioran andava ripetendo che la parola anima ormai era buona solo per sciocche canzonette; anche la parola “amore”, gravata della volgarità di troppe bocche che la pronunciano, finisce nella polvere, dalla quale il poeta cerca di trarla fuori, per farla nuovamente risplendere di tutte le cose non dette.

Ci vuole un’altra lingua ma questa lingua non è nuova, è antica come le catacombe, derisa, obliata, consegnata al gergo degli psichiatri e dei preti, scempiata. Viene da pensare alle glossolalie di Artaud, alla lingua dello spirito di San Paolo, alle feroci requisitorie di Rimbaud, Testori non può dirla questa lingua nella sua deformazione schizoide, almeno in questo testo, perché gli mancano le forze, non gli resta dunque che sussurrare come in un mantra senza significato parole come “perdono”, “pietà”, ”carità”, dopo aver gridato anche la sua rabbia, ed è uno dei sussulti migliori del testo: “ Vermi, che umilierete e deriderete anche i vostri padri!/ Tutto umilierete e deriderete/ . Versi violenti e crudeli che, a parte la pretesa di attribuire al verme voluttà puramente umane, testimoniano di quel grande terrore della carne di essere divorata e annientata. Ma dopo questi versi Testori si scusa, ahinoi, questa non è più terra di vivi, ma di fantasmi e i fantasmi si scusano se beccati in flagrante nel reato di respirare.

Qui non è più letteratura, non è più cultura, è” lo spirito che si confessa allo spirito” come nella celebre invocazione di Artaud, è lo spirito che, stanco di tutte le parole d’occidente, vuole ritrovare e riconoscere il suo babelico inno alla vita, ma fallisce perché ancora una volta si sente in colpa, glielo hanno insegnato i preti, cui evidentemente Testori, come tutti noi, ha dato troppo ascolto:

Pietà per la mia insipienza/ pietà per il mio povero incapace amore/ Pietà popolo che m’ascolti/pietà di me di voi, e poi luce, infinita dolcezza, carità /perdono…

Si rischia dunque nel finale di trasformare questo straordinario colloquio fra ombre, maschere, idiomi nascosti, in una un po’ patetica dichiarazione di resa, ma ciò che resta realmente sono versi caduti in tutti gli “ori della nostra polvere”, quando le quinte del teatro sono distrutte e riappare il tempio della divina presenza, muta come sempre a indicarci la via : ” Scende il bisogno di un pudore ancora più grande / e con esso il sipario muto, invincibile e sacro/ del silenzio.

Il testo poetico fu pensato per la recitazione teatrale e fu portato in scena più volte e con grande successo, sul finire degli anni settanta, optando per le chiese – e non per i teatri - come i luoghi più adatti a far risuonare questo discorso di avvincente modernità e insieme antico.

In sostanza Conversazione con la morte è un poemetto straordinario, anche abbastanza coraggioso, e tra le altre cose ci mostra – forse aldilà delle intenzioni di Testori stesso - che per ritrovare la gnosi delle antiche parole è necessario, e lo sarà sempre di più, ritornare a bere alla fonte del cristianesimo primigenio, sbarazzandoci di tutti i millenni di ontologia e teologia, di tutto quel cattolicesimo retrivo e corrotto in nuce. Se non si ha il coraggio di agire così, rimarranno morte le parole, morto Dio e per quel che più ci importa nessun canto si leverà dal deserto per farlo, misteriosamente, rifiorire.

***

Conversazione con la morte si trova nella raccolta intitolata Trilogia degli oratori, edita da Bur Rizzoli nel novembre del 2010

7 commenti:

giacy.nta ha detto...

Mi piace leggere le tue recensioni Eugenio, lo sai, te lho già detto.
Spero che questo mio pensiero non ti appaia trito come ”la spoglia di una cicala” :-))))
Buona serata!
Giacinta

Ettore Fobo ha detto...

No, Giacinta, i complimenti fanno sempre piacere. Un caro saluto.

eustaki ha detto...

ciao ettore, grandi incontri sul tuo blog. testori poeta non lo conosco, io ho amato molto i segreti di milano, la ghisolfa la gilda la maria brasca..
a tale proposito mi vengono in mente le stupende canzoni di jannacci, in particolare veronica che è molto ghisolfa.
un'altra segnalazione legata a certi ambienti milanesi è la trilogia di umberto simonetta.

a risentirci

eustaki ha detto...

ho qualche problema, non sono stati pubblicati i miei commenti ai tuoi post. ci riprovo.
testori poeta non lo conosco. ho amato molto i segreti di milano (ghisolfa, gilda, la maria ..). parlando di quegli anni penso anche alla trilogia di umberto simonetta e alle canzoni di jannacci, in particolare veronica.

Ettore Fobo ha detto...

Per Eustaki

Sì, Testori è stato un grande narratore della vecchia Milano, che ora non c’è più. Da poeta ha scritto anche quel testo memorabile che è Suite for Francis Bacon. Per i commenti devi darmi tempo perché c’è la moderazione. A presto.

proesia ha detto...

non ho letto Testori ma sono affascinata dalla parola e da tutti gli incanti che produce. Sono certa ormai che è sempre ingannevole, anche quando ritiene di dire il vero, ma ha potenzialità infinite, non solo può ri-creare mondi interi, ma perfino se stessa...
una recensione splendida la tua, complimenti

Ettore Fobo ha detto...

La parola di cui parla Testori in questo testo è però una parola svilita, affogata nel luogo comune, perduta, come la realtà in cui viviamo, sua emanazione, perché la parola che sia splendente o degradata è il cuore pulsante del mondo. Grazie del commento e dei complimenti, proesia.