La letteratura spaventa, se essa
non si limita ad essere mera confezione di storie consolatorie o sterile
intrattenimento della nostra ebetudine quotidiana. E ancora oggi quando essa
indaga il reale e ce lo riporta scevro da illusioni, talvolta arriva la censura
a imbavagliarla. Così questo romanzo, in apparenza così inoffensivo, Niente di Janne Teller, poco più di cento pagine, è caduto fra le
maglie di una subdola censura in diversi paesi, Norvegia, Germania, Francia, Spagna, trovando l’opposizione dei librai che si rifiutarono di
esporlo, arrivando ad essere escluso dai programmi scolastici perché ritenuto
pericoloso.
Fu pressoché ignorato nel 2004, al tempo della prima edizione italiana di
Fanucci, intitolata L’innocenza di Sofie, ritorna nelle nostre librerie
in una edizione Feltrinelli, con la traduzione fedele del titolo originario, dal danese Intet,
Niente, appunto. Si tratta ormai, a dodici anni dalla sua uscita in Danimarca,
di un romanzo di culto e come spesso capita le polemiche ne hanno accresciuto la fama di libro maledetto. Perché
di questo si tratta, di un romanzo maledetto, che ci parla in termini
freddi e crudeli dell’adolescenza, ricordando in questo senso Il signore delle mosche di William
Golding.
Lo scandalo è accresciuto dal
fatto che il romanzo sembra inizialmente rivolto a un pubblico di ragazzi, ma è
un’illusione, Teller costruisce una fiaba nera, un thriller psicologico, ambientato fra i ragazzini danesi, che parla però della crisi di valori della
nostra epoca, parla in termini che mescolano crudeltà e candore del nichilismo
che permea i nostri giorni e invade
subdolamente le nostre coscienze.
All’alba dei suoi quattordici
anni, un ragazzino danese, Pierre Anthon, fa la scoperta dell’inutilità della
vita, della sua mancanza di senso. Come il Barone rampante di Calvino, si
rifugia allora su un albero da dove,
simile a un filosofo nichilista, sferza
i suoi compagni con considerazioni amare sulla vacuità dell’esistenza.
Tale condotta sconcerta i suoi
compagni che rispondono al suo precoce nichilismo pensando di
proporgli una raccolta di cose che nel loro mondo hanno significato.
Partono con cose banali: un
pallone da calcio, un paio di sandali, una bicicletta, una canna da pesca, ma la faccenda prende loro la mano e ben
presto si trovano a fare i conti con le logiche
del branco, in un vortice di
vendette personali, in un crescendo parossistico di sacrifici.
Tutti questi oggetti finiscono
ammonticchiati in un magazzino, a formare quella che loro stessi chiamano “la catasta del significato”, luogo che
ben presto si rivela un inquietante patchwork,
un mostruoso totem, a cui i ragazzini
in un crescendo di follia dedicano tutte
le loro energie, nel disperato tentativo di ridare senso all’esistenza.
In questo mondo gli adulti sono
assenti, la loro legge, smascherata come finzione, non serve a contenere la
rabbia di questi adolescenti che progressivamente perdono il senso della
realtà, soggiogati da quella che inizialmente pareva una dimensione ludica, e
si rivela infine, in un freddo gioco al rilancio, simile a quello che nelle antiche
culture dei nativi americani si chiamava potlach, cerimonia in cui beni di
prestigio venivano distrutti. La ricerca di significato precipita così nella
farsa, nella blasfemia, nell’incubo.
Perché fatalmente il tentativo di dare senso alla vita finisce
per coincidere con la dissipazione della
stessa, la loro ricerca di significato li mette davanti al deserto e al niente,
che il mondo degli adulti nasconde a se stesso, mentre essi sono costretti
dall’improvvisa diserzione del loro compagno a fissare questo baratro di
insensatezza e vanità del tutto. L’esito,
proprio come ne Il signore delle mosche,
è la follia e la barbarie.
La “catasta del significato” sembra così essere una metafora della
nostra epoca, luogo in cui i valori sociali, religiosi, politici, finiscono ammucchiati come carabattole senza
valore.
Janne Teller così, mettendo insieme genialmente pochi elementi, crea un romanzo asciutto, crudele e
definitivo, che dietro il niente del titolo nasconde tutto l’orrore di una
adolescenza abbandonata a se stessa, obbligata a trovare da sola un senso alla
vita, senso che il mondo degli adulti ha ormai rinunciato a dare.