Serpenta - Dario Bellezza

sabato 25 maggio 2013







Ogni poesia di un autore ne sintetizza il pensiero, ogni poesia conduce in un labirinto in cui il primo a smarrirsi è l’autore stesso. Egli invita perciò gli altri a condividere il suo smarrimento. Così questa poesia, che riporto di seguito, sembra sintetizzare, se non tutta l’opera, almeno questo singolo libro di Dario Bellezza, “Serpenta”, pubblicato nel 1987 da Mondadori nella collana “Lo Specchio”.

“Lingua, tu non rispondi, né apri
alle mie giornate la verità, ora mi spengo
in questo  assorto tramonto di speranze
cercando la vita smarrita, il sole funesto
e sporco di un pomeriggio invernale:
la luce negli occhi di un  Dio che è sparito.

Così Lingua, ti evoco, per immortalarti
ma è indubbio il tuo cascare in folle
verso memorie e ricordi particolari,
verso l’invasamento parziale di un’anima
che non sa essere anima di tutto il mondo:
anima, anima spenta che non cresce
delirando.”

E’ qui prefigurato uno dei grandi temi del libro, l’insufficienza della parola a raccontare il dolore, la malattia e la morte(il poeta si ammalò di Aids nel 1987 e morì nel 1996),  l’insufficienza della lingua davanti alla voragine del ricordo e della memoria. Sia la morte sia il ricordo sono in altri versi  definiti come un “vizio”, parola cardine,  che se da un lato incarna la stigmate sociale sofferta ingiustamente dal poeta per la sua omosessualità, dall’altro pare un significativo resto religioso, una vestigia del pensiero cattolico, perché è fin troppo facile intuire la dimensione del peccato dietro questa espressione “vizio” all’apparenza perfettamente  laica.

Cultura cattolica, che Bellezza, inevitabilmente, ha affrontato sul terreno dell’ambivalenza, nella consapevolezza che, come abbiamo visto anche nei versi sopra citati e che sono il preambolo di “Serpenta”, Dio è ormai “sparito” dagli scenari della contemporaneità.   Un riflesso della sua luce, però, permane in questi versi, dove spesso la sua mancanza è dolorosamente avvertita, e una certa ambigua religiosità rimane in filigrana, come sottile nervatura del testo. E’ una religiosità probabilmente involontaria, culturale più che fideistica, consustanziale a una sensibilità moderna, nostalgicamente attratta dal passato, sia in senso storico sia esistenziale, come quella di Dario Bellezza.

Il suo pare uno sguardo rivolto all’indietro, verso il passato appunto, perché davanti e dentro di sé il poeta non percepisce che la morte.   Ma la memoria è inganno: “ come fosse lo specchio/ di memoria a falsare/ la prospettiva[…]” e questo inganno getta la sua luce sinistra sulle vicende ricordate.

Qui, dove “ il quotidiano insiste”, banale e soffocante, il tempo corre verso “ eternità imprendibili “ e forse perdute, la vita con il suo fervore sembra essere definitivamente passata, e il poeta, che “ si oppose alla norma”, sembra ridotto a un fantasma. E fantasmatica pare Roma, ”città di una vita”, che affiora in diversi versi, onirica, spettrale, evanescente.  Bellezza crea una dimensione intima, con versi che paiono molto pensati se non addirittura sofferti, attingendo al mito di se stesso, dannato dall’omosessualità e da una sensibilità morbosamente raffinata.

“Serpenta” è articolato in tre sezioni: “ Lo sguardo punisce chi guarda”, itinerario fra memoria e oblio, “Lodi del corpo maschile”, esaltazione sofferta della bellezza maschile, e  la sezione eponima, in cui Bellezza narra di un amore platonico con una donna,  Serpenta appunto,  malata e ” tentata di morire”.

La prima sezione, cui appartengono la maggior parte dei versi finora citati,  ”Lo sguardo punisce chi guarda”,  si chiude enigmaticamente con un’ ode alla natura, agli alberi definiti ora “ fuggitivi e irraggiungibili”, ora “fortunati preziosi immortali”, un’ode malinconica  alle ”divinità salutari/ e boschive”, in cui come un  controcanto abbiamo una requisitoria verso l’umanità, folle, furiosa, violenta, che non merita  “carità  o sorpresa”.

Nella seconda sezione, Dario Bellezza racconta dei suoi amori, in una chiave criptica, il  sentimento predominante sembra essere quello della perdita,  della figura amata,  che si nega o è assente, della giovinezza, ricordo che ormai  ferisce il poeta fin nella carne e lo fa gridare: “ potessi/ ritornare com’ero! Come non sarò più.”

L’eros qui si configura come atto di carità che il poeta implora a giovinezze, forse indifferenti o addirittura ciniche, per rischiarare i suoi giorni ormai bui di amante invecchiato.

La terza sezione conferma il tono decisamente ermetico del libro, la sua cifra, fondamentalmente enigmatica,  risplende ancora più misteriosa, di un mistero abbacinante. S’insinua persino un dubbio: è questa la storia di un amore reale, sebbene, data l’omosessualità del poeta, di natura platonica? Oppure è il dramma simbolico del poeta e della sua musa malata? Domande che galleggiano nell’aria.

Probabilmente, come spesso capita in poesia, entrambe le opzioni sono valide; da un lato Serpenta è una donna reale, dall’altro incarna un archetipo,  la sapienza stregonesca e “zingaresca” del femminile. In alcuni versi Dario  Bellezza si definisce negativamente “poeta inguaribile e bastardo” e affronta l’impossibilità di amare una donna, l’impossibilità di “ vivere di passato” e di “amare i mortali”. E’ una drammatica impasse che lo tortura, e non gli bastano cuore, sentimento, né quello che definisce  ”splendore della memoria”.

Quel che brucia è un colloquio “Oltre l’oblio”, come recita il titolo di una poesia della sezione, fra il poeta e questa enigmatica Serpenta, e che sembra concludersi in una ricerca di  Dio, del “Dio che è in noi”.   Questa ricerca è resa difficile dall’epoca ”cinicamente votata alla morte”, o, come si legge nella prima sezione del libro, triste epoca in cui “ Tutto è consumo” e la poesia stessa è ridotta a essere “merce o merda”.

La storia di Serpenta volge alla tragedia: gravemente malata, ella muore dopo un’agonia. La morte però non può essere l’ultima parola per il poeta che sogna l’immortalità, parola ricorrente in diverse poesie di questa sezione. Anche il verso che chiude la vicenda di Serpenta conferma questa tensione all’immortalità: “allora sciolto dai tuoi lunghi/sensi camminare ti vedo per sempre.”

“Serpenta” è dunque un libro dolente, epifania della malattia e della morte, ed è un tentativo di superare il lutto, assuefacendosi a esso, facendone sostanza e materia del canto.

L’agonia di Serpenta, donna amata, è riflesso di un’agonia più generale, del poeta, e  di un’intera epoca.

Tutto questo è un’emanazione della mente di Dario Bellezza, che ovunque coglie i segni del proprio disfacimento, mostrando una nostalgia per la giovinezza, esaltante, segnata dal delirio e dall’invasamento erotico. Quasi raggiunta la mezza età, aggredito dalla malattia, il poeta rivolge al mondo uno sguardo addolorato e coglie della sua fantasmagoria allucinata solo l’aspetto luttuoso.  Ciò fa la bellezza amara di “Serpenta”, la sensazione che esso sia un congedo dalla vita, un addio che solo noi posteri, come aveva intuito lo stesso Dario Bellezza, possiamo cogliere in tutta la sua tragica potenza di commiato.





Il Capitano è fuori a pranzo - Charles Bukowski

sabato 18 maggio 2013







Si fa sempre più strada in me la convinzione che il successo di Bukowski sia legato principalmente a un fattore: egli ha saputo dire e scrivere ciò che molti pensano ma che pochi hanno il coraggio di dire e scrivere, e cioè che la vita è dolore, il mondo un inferno  e che gli esseri umani sono troppo spesso pessimi soggetti, abbruttiti da questo dolore e resi malsani dai miasmi di questo inferno. Inoltre lo scrittore americano ha saputo spesso togliere dalle sue pagine, grazie all’ironia o al sarcasmo, tutta la pesantezza che una simile consapevolezza solitamente genera.

Così, in questa sua ultima opera, un diario, “Il Capitano è fuori a pranzo”, Bukowski, benché ormai scrittore di successo, non fa che ribadire queste scomode verità, e realizza un’opera minore senza dubbio, che nella sua minorità concentra però l’estrema summa del suo pensiero. Il volume, edito da Feltrinelli e tradotto da Andrea Buzzi, è arricchito dalle illustrazioni di Robert  Crumb, che danno corpo alle visioni di Bukowski; un binomio irresistibile, quello fra Crumb e Bukowski, un’accoppiata davvero vincente.

Il luogo simbolo, come sempre, è l’ippodromo, che sembra sintetizzare l’umano nella sua essenza, luogo dove la speranza di un’improbabile svolta al grigiore dell’esistenza affonda quest’umanità di reietti nel pantano di una routine disperante. Bukowski è uno di loro ma possiede quel senso critico che gli permette di riconoscere il pantano e di non affondarvi completamente. Così egli racconta della miseria morale, dell’abbruttimento, della depravazione di un’umanità che lo infastidisce e da cui vorrebbe tenersi lontano.

Qualcosa,  però,  nel generale disfacimento si salva e lo salva: la musica classica, vera fonte di beatitudine, la scrittura, terapia, sfogo emozionale e àncora di  salvezza, l’amore per la moglie Linda e per i suoi nove gatti, e infine il computer, nella fattispecie un Macintosh, che, lungi dall’essere l’onnipresente deus ex machina della nostra era, è per Bukowski,  all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso,  l’alleato della scrittura, il complice che rende la sua fantasia un flusso di parole subito visualizzate e che, rispetto alla macchina da scrivere,  semplifica enormemente  le cose.

Il tono schietto, la voce aspra ma calda, le battute sarcastiche, la visione cinica e al tempo stesso velata d’ironia, la disperazione lucida non priva di risvolti umoristici, sono le prerogative di Bukowski, gli ingredienti che lo fanno amare. Così in questo libro veniamo a conoscere ancora una volta le sue idiosincrasie: il cinema hollywoodiano, la musica rock, i poeti, perlopiù vanesi, inconcludenti e senza spina dorsale.

A questi ultimi in particolare dedica una requisitoria che molto dovrebbe far riflettere coloro che si dedicano all’attività poetica per mera vanità. Bukowski, giunto all’ultima corsa, è ancora il perfetto cantore e l’affilato critico di quella che Zygmunt Bauman chiama società liquida, la nostra, in cui domina la precarietà in tutti i sensi, precarietà lavorativa, sentimentale, valoriale, esistenziale. Il suo messaggio è chiaro: la vita è una tragica farsa e gli uomini cercano soltanto rimedi contro la disperazione, spesso inutilmente. Niente illusioni politiche, religiose, sociali, niente utopie per Bukowski, solo la realtà, spiacevole, ruvida,  rovinosa, per tutti noi,  
 “ divorati dal nulla”.

Ora che può permettersi un bagno in una costosa vasca Jacuzzi, lo scrittore americano non dimentica di quando, ubriaco, dormiva sopra i sacchi della spazzatura, e un grosso ratto lo risvegliava. Sa di essere rimasto lo stesso e che questa è la sua forza.

“ Il Capitano è fuori a pranzo” è anche una riflessione sulla morte, che avrebbe colto Bukowski di lì a poco, morte che rappresenta l’ingiuria finale, verso la quale lo scrittore prova a volte lo stesso fastidio che gli comunica il mondo, altrove invece essa viene accettata con tranquillità,  come un qualsiasi evento naturale.
La critica di Bukowski alla società è radicale, viscerale, rabbiosa, nasce da un disgusto impossibile da addomesticare. Gli uomini e le donne sono per lui perlopiù zombie decerebrati. Leggiamo:

Nella morte non c'è niente di triste, non più di quanto ce ne sia nello sbocciare di un fiore. La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film, soldi, famiglia, scopare. Hanno la testa piena di ovatta. Mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po' dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male. Gli suoni la grande musica dei secoli ma loro non sentono. Per molti la morte è una formalità. C'è rimasto ben poco che possa morire.”


Così Bukowski dimostra di essere uno che ha vissuto fino in fondo le contraddizioni e le voragini della contemporaneità, che non ha mai cercato di illudere se stesso e i suoi lettori, i quali apprezzano in lui l’onestà anche brutale, la mancanza di consolazioni e d’illusioni, la profondità di uno sguardo duro e  disincantato.


Sincerità e autenticità, che hanno permesso a Bukowski di esprimere la sua incoercibile e irriverente natura in tutta la sua intensità, all’interno un’opera letteraria che oggi, a distanza di quasi vent’anni dalla sua morte, è lecito riconoscere fra le più vitali del Novecento, nonostante sia stata pressoché ignorata dalla critica più paludata. Non male per uno che non si è mai posto come maestro di stile, che ancora una volta ha confermato la veridicità della frase di Antonin Artaud: ”Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non, di fatto, per uscire dall’inferno.”


Le cose che non ho detto - Azar Nafisi

sabato 4 maggio 2013







“Le cose che non ho detto” di Azar Nafisi è un libro di memorie  in cui il privato e il pubblico si confondono, la storia personale dell’autrice e dei suoi famigliari si connette potentemente con le vicende storiche della terra in cui essi hanno vissuto,  l’Iran, raccontato nelle complesse vicissitudini che fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del  secolo scorso lo hanno scosso profondamente,  mutandone l’assetto sociale.

E’ il racconto della rivoluzione islamica di Khomeini che trasformò uno dei paesi arabi più progressisti in uno stato teocratico totalitario, con l’esclusione delle donne dalla vita politica, l’imposizione per esse del velo, il divieto di alcol e feste, l’instaurazione in definitiva di un clima di terrore con l’omicidio o la reclusione degli oppositori del regime e infine con la guerra contro l’Iraq che per circa otto anni insanguinò i due paesi.

Mentre tutto questo accade, mentre i grandi eventi della storia si consumano, l’esistenza di Azar Nafisi e dei suoi famigliari si svolge, e ciascuno elabora le proprie strategie di sopravvivenza. E’ attraverso l’immaginazione, la poesia, la letteratura, che l’autrice trova dentro di sé quel luogo magico in cui sfuggire alle violente imposizioni della storia. Così come già si era visto in “Leggere Lolita a Teheran”,  anche questo  libro della scrittrice iraniana, tradotto dall’inglese da Ombretta Giumelli ed edito nel 2009 da Adelphi,  si configura come uno struggente inno alla potenza dell’immaginazione, alle sue possibilità, al suo incantesimo. Ed è il padre la figura attraverso cui questa epifania si compie, è il padre che inizia all’amore per i classici della poesia, soprattutto persiana,  la scrittrice bambina, mentre con la madre, figura di donna arcigna e tirannica,  si manifesteranno sin da subito dissensi profondi.

 Probabilmente il cuore del libro è in questo rapporto travagliato, sofferto, che segnerà profondamente l’autrice; la madre, che mitizza un passato mai avvenuto, vittima delle sue stesse mistificazioni, è il personaggio cardine attorno a cui tutti gli  altri sembrano ruotare. Personaggio indurito dalle sofferenze, che piega la verità alle sue esigenze, e finisce per essere la causa dell’infelicità del marito, che vessato, sminuito, aggredito, si rifugia in altri amori. La madre Nezhat è un personaggio negativo, su cui però la figlia scrivendo questo libro pone uno sguardo di pietà, di comprensione profonda. 

Con questo testo autobiografico la scrittrice iraniana compie molteplici atti di esorcismo: raccontandoli neutralizza i demoni della sua infanzia e si riappacifica con la madre, analizzando la storia del suo paese si libera dalle paure e dai condizionamenti del regime, ne mostra la pochezza rispetto alle grandi praterie dell’immaginazione letteraria, sua vera patria, universo privato su cui nessun regime può imporsi. E’ questo il fulcro della visione di Azar Nafisi, questa convinzione profonda nel ruolo salvifico e liberatorio della letteratura e dell’immaginazione, realtà che permettono in sostanza l’immedesimazione con l’altro, con  il diverso, e di conseguenza ampliano la nostra capacità di empatia.

La famiglia è percepita come un luogo ambiguo, più spesso fattore di alienazione che rifugio dalle intemperie della vita. Si può dunque cogliere in filigrana una critica all’assetto famigliare, sentito come opprimente, quasi esso fosse l’origine e la matrice della stessa tirannia.

“Le cose che non ho detto” è anche un romanzo di formazione, è la storia di un’intellettuale cosmopolita,  che studiò in Inghilterra, per poi insegnare letteratura negli Stati Uniti, sempre  attenta alle sottigliezze della critica letteraria e alla vita sociale e politica dell’Iran, desiderosa di scoprire le tradizioni del suo paese ma anche di aprire la sua mente alla più vasta comprensione del mondo.

Libro stratificato che si muove su diversi livelli, dall’autobiografia alla rievocazione storica, dalla psicologia famigliare alla riflessione letteraria, dal quale emerge la maturità di uno stile e di una visione del mondo conquistati con impegno e fatica. E’ la storia di una donna che ha lottato insieme con altre per definire in positivo la propria identità, lottando contro un regime che ha grandemente limitato la loro libertà ma non è riuscito a soffocare gli aneliti della loro anima.