Recensione di “Canti d’Amnios”, a cura di Susanna Musetti

sabato 18 ottobre 2025


 


Pubblico in questa sede la recensione fatta da Susanna Musetti, presidente del Premio Internazionale Città di Sarzana, alla mia silloge “Canti d’ Amnios”, pubblicata nel 2020 dalla Casa editrice Montedit.  La silloge è stata finalista a questo  Premio nell’edizione del 2022. La recensione è così accurata, colta e sentita,   che io mi sono entusiasmato e infine commosso. Qui un link per acquistare il libro. Buona lettura.

Ettore Fobo 

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Nel grembo oscuro della parola

A Cura di Susanna Musetti

Ci sono libri che non si leggono, ma si attraversano come stanze oscure, come sogni a ritroso, come camere d’eco della coscienza. Canti d’Amnios di Ettore Fobo è uno di questi. Non si tratta

semplicemente di poesia: è un viaggio esoterico, una trance verbale, un labirinto metafisico che prende il lettore e lo trascina nell’“amnios” stesso della lingua, nel suo liquido amniotico primordiale.

La poesia di Ettore si muove come un’entità autonoma, simile a quelle “forme senza custode” di cui parla lui stesso, e che evocano il “pensiero che danza” di René Char. Ogni verso è un fremito, una

pulsazione che si propaga come un’onda nel vuoto, come un sussurro che attraversa l’ombra. Il poeta si pone al crocevia fra esistenzialismo e mistica negativa, dove l’assenza diventa sostanza e il nulla è grembo.

Fin dalle prime poesie, come Vertigine e Adolescenza, si ha la sensazione di leggere non parole, ma visioni o, meglio, residui di visioni. “Come quando sulla punta dell’addio / germoglia il ritorno” scrive ed è impossibile non pensare alla poetica dell’istante di Rilke, alla sua “Wendung”, quella torsione ontologica che trasforma il dolore in forma e la forma in conoscenza.

Ettore è colto, certo, ma non è mai pretenzioso. I suoi testi traboccano di riferimenti impliciti: Borges (a cui dedica un testo esplicito e straordinario), Pessoa, Eliot, Mark Strand, Lautréamont, Corbière, ma anche Rimbaud, che “è ancora qui”, come un nume tutelare dietro il sipario. È come se ogni poesia si muovesse nell’alveo di una grande costellazione letteraria, eppure la voce è unica, riconoscibile, lacerata, intima.

In Sette movimenti notturni e Salvezza, la parola si fa ferita, cosmo, pianto e danza. C’è una continua tensione tra pathos e pensiero, tra oracolo e confessione. In questo senso, la raccolta potrebbe

leggersi accanto a Fari nella tempesta di Paul Celan, non solo per l’uso rarefatto della lingua, ma per il continuo confronto con l’impossibile: “la verità è che la mente umana è nulla, un piccolo nulla provinciale”.

In testi come Manifesto o Scacco matto, emerge la vena più ironica e provocatoria di Ettore. Qui il poeta si pone come outsider del mercato letterario, nemico delle “azalee” e della “grazia”: vuole seminare tempeste, incendiare il silenzio, riportare la poesia alla sua funzione arcaica di gesto insurrezionale, di atto sciamanico. “Ho bevuto l’incendio dei millenni” scrive e sembra rispondere, a distanza, all’“ho visto le più belle menti della mia generazione distrutte dalla pazzia” di Ginsberg.

Ma la sua è una pazzia controllata, direbbe Foucault, una follia che conosce bene i propri strumenti e che si serve della maschera per scardinare la realtà.

Un intero ciclo della raccolta si muove nel vuoto post-metafisico. In io, Dio, network, Ettore dichiara la sua estraneità al rumore di fondo del nostro tempo. È un poeta disconnesso, “idiota e selvaggio”, come Thoreau, come Artaud, come chiunque abbia provato a restare umano nel cuore della tempesta. Non ha account, non ha risposte. Eppure, è proprio questa “nudità primigenia” che gli consente di articolare un discorso poetico non conciliante, radicale, necessario.

L'ultimo componimento, Senza parole, è la chiusa perfetta: un commiato dal logos, una resa al mistero, un invito alla sparizione come forma suprema di poesia.

 

Canti d’Amnios è una raccolta che si legge a occhi chiusi, con l’orecchio interiore. Non si offre al consumo rapido, non cerca l’applauso. Esige tempo, ascolto, disarmo. È un’opera liminare, che interroga più che spiegare, che canta più che dichiarare.

Come scrive Ettore stesso:


“Non piango perché mi urge un canto,/ non canto perché mi urge l’immenso.”

In questo immenso ci perdiamo. E ringraziamo di poterlo fare con un poeta così autentico.

 


 

1 commenti:

zoon ha detto...

La tua brava complessità intensa è nota, ma fai bene a stupirti, significa che c'è sempre qualcuno diverso da te che ti comprende appieno, in alcuni aspetti forse più di te stesso; sei davvero una persona, e autore, eccezionale