Cròniche epafániche – Francesco Guccini

domenica 23 febbraio 2014







Quanto poco ci mette un mondo a sparire! Così pare scomparso in un lampo il mondo dei nostri padri, fondato sul dialetto, sul radicamento nel luogo d’origine, sulla memoria. Quanto poco esiste oggi di quel mondo,  ora che il dialetto appartiene spesso al passato,  il paese d’origine (per chi può vantarne uno) è un concetto  mutato fino a essere irriconoscibile, e la memoria fatica a ritrovare i suoi punti fermi. Tutto passa e basta l’arco di una vita umana a sancirlo.

 Queste riflessioni mi colgono rigirando fra le mani il romanzo di esordio di Francesco Guccini, che risale al 1989, e che leggo oggi nella nuova edizione degli  Oscar Mondadori, romanzo della memoria dove il cantautore fa rivivere i suoi ricordi, impastando la materia di un linguaggio dialettale rielaborato. Tanto più oggi tutto tende alla caducità e trascorre velocemente, quanto più ci sembrano importanti le operazioni di recupero del passato,  come questa di Guccini.

Giova sgomberare il campo da alcuni equivoci: pochi artisti riescono ad essere credibili in arti diverse, Guccini ha questo dono, oggi che la qualifica di poeta non si nega a nessuno e si avvia a divenire un insulto, non so se convenga al cantautore emiliano essere definito tale e forse la questione è superflua. Ci si può chiedere davanti a Cròniche epafániche:  si tratta di letteratura o un’imitazione non richiesta? Propendo per la prima ipotesi. Cròniche  epafániche è un romanzo tutto centrato sulla scrittura, com’è giusto che sia e come non sempre accade. Raramente,  a dire il vero. Si sconta nella lettura una certa noia ma ciò non toglie che il romanzo abbia dei pregi.

E’ una fusione di dialetto emiliano,  toscano  e  di italiano - poiché ci si trova in provincia di Pistoia, a Pàvana al confine fra Emilia e Toscana -  si configura sin da subito come invenzione linguistica, fantasmagoria di suoni che diventano sapori, di sapori che divengono profumi, scrittura carnale che serve il tono di una narrazione che, tra ilarità e commozione,  prende vita sotto i nostri occhi. A tratti la scrittura pare contorta e involuta, in altri momenti invece pare un flusso danzante di parole a sfiorare l’argot.

Il tono di  Guccini sa essere anche neutro, oggettivo, nel raccontare gli utensili e le macchine che furono di questi luoghi, sulla macina del mulino si spendono,  però,   parole di nostalgia. Quanta farina negli anni essa ha prodotto! Ora che giace inutile e inutilizzata il cantautore esprime il suo molto umano cordoglio. Perché anche le cose hanno un’anima. Che se non soffre, però  invecchia e muore.

Talvolta Guccini si dilunga in descrizioni e tecnicismi, ma anche se ciò talvolta appesantisce il dettato,   la scrittura regge abbastanza bene  il gioco di un ritmo musicale, che fa assomigliare il romanzo, come notò Stefano  Benni,  a una ballata. Ballata delle cose e delle genti perdute, ballata della memoria che cerca in sé il bandolo di una matassa intricata. Romanzo autobiografico s’è detto,  non sempre a ragione. Un po’ perché s’intuisce che c’è dell’invenzione (ci mancherebbe) ma soprattutto perché Guccini non mette al centro del racconto la propria  vita ma i luoghi della sua infanzia, Pàvana, con i suoi fiumi ( il Limetra, il Reno, soprattutto,  ma anche il Po, lontano e mitico come il Rio delle Amazzoni o il Nilo) e le sue genti, figure della memoria, che il fuoco della scrittura sa illuminare,  ora con allegria, ora con nostalgia.

L’autobiografismo qui è,  fortunatamente, perlopiù  una scusa per fare dell’altro: un romanzo epico e corale dove anche gli animali, maiali, gatti, cani, capre,  hanno il loro posto nel disegnare un’epopea in fondo divertente; nonostante quel mondo sia scomparso Guccini lo canta come eternamente presente,  come mitico. E ha ragione. Ciascuno ha diritto di considerare mitica la propria infanzia, in questo caso  gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del Novecento.
  
In tale contesto fra il rurale e il picaresco anche cucinare un pollo, per i ragazzi della zona, è un’impresa,  anche se comica. Ci sono  limiti e sono  quelli tipici dei romanzi d’esordio, specie se venati di autobiografismo; un certo narcisistico compiacimento, il dettato talvolta un po’ oscuro,  il glossario   lacunoso.   Però,  tutto sommato,  Cròniche  epafániche è un’operazione letteraria coerente, emorragia di ricordi sostenuta da un senso alto della scrittura, serpente di parole musicali che si snoda attraverso gli anni raccontati,  come un filo rosso di  nostalgia, che non cede il passo ad una sterile malinconia, ma è, com’è giusto, alimento per il futuro.

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