Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato – Edmond Jabès

domenica 20 marzo 2016





Più leggo Edmond Jabès più ho l’impressione di trovarmi davanti a un gigante dell’immaginazione poetica, un autore capace di aprire varchi per le possibilità stesse della scrittura, anche in questo testo sublime,  dal titolo minimale di Uno straniero con, sotto il braccio,  un libro di piccolo formato - semplice ma vedremo quanto pregnante -    scrivendo poesia in prosa che,  però,  è anche riduttivo definire tale, essendo molto vasto il territorio che Jabès esplora, con precisione filosofica, regalando a piene mani intuizioni come questa:  Se lo scrittore è uno straniero ciò è dovuto precisamente al fatto che egli prende a prestito il volto dal linguaggio”. La scrittura dunque come spazio di un’identità presa in prestito, precaria, caduca, transitoria. Luogo  anche di una cancellazione misteriosa, di un’assenza invincibile. Perché sono il nulla, il niente, il vuoto, il deserto a dominare in questo testo  profondo ed enigmatico.

Si tratta di poesia, non un genere dunque, ma di una percezione della  realtà che va oltre i modi. Questo testo, come anche Il libro della sovversione non sospetta, inaugura qualcosa di realmente nuovo e in ultima analisi ciò che è realmente nuovo è l’approccio alla scrittura di questo autore fondamentale. Jabès interroga il linguaggio, che è  il luogo della nostra identità di esuli, di stranieri, fatalmente preda di un senso di estraniamento, di sradicamento, apolidi dell’esistenza, ”apolidi metafisici” per dirla con Cioran.

Il centro di tutto, l’unica patria possibile, è la letteratura, “il libro infinito delle nostre interrogazioni” ma anche questa terra ci manca spesso sotto i piedi perché tutto è frammentario, forse inconsistente, sicuramente fragile. La condizione umana fondamentale è quella dell’ esiliato. E la letteratura è questa domanda che l’autore pone al lettore in un dialogo fra sconosciuti, fra stranieri.

Qui  proprio lo straniero è per Jabès la figura fondamentale, un autoritratto sui generis, in fondo, egli è “l’ebreo”, proprio come Jabès, a sottolineare la propria millenaria estraneità, uno straniero con un libro che non può che essere il Libro, l’epitome di tutti i tentativi umani di dare voce all’enigma che ci abita, quell’insolubile che Jabès sa esprimere con grande, e incantata,  lucidità.

Quella di Jabès è una poesia che merita una lettura lenta, per apprezzare questa parola ”inzuppata di silenzio” enigmatica ma solida, astratta e  sognante eppure terribilmente concreta. 
Il vuoto, il nulla,  il deserto, dicevamo, poi  un “cielo tradito” in un “mondo assassinato”, Jabès racconta la nostra epoca come il luogo di una sparizione, come manifestazione del lutto: “L’assenza di Dio  è l’infinito vuoto che sostiene il mondo”.

Così dopo la morte di Dio il deserto s’impossessa del  nostro tempo e ci forgia nel profondo. Qui, in  questa prosa profondamente immaginifica, dove ogni passo è una rivelazione, ogni momento un’epifania, ogni riga distilla un enigma capace di condurci in quella terra di sogno dove le parole sono eventi di per sé e non hanno bisogno di riferirsi a nessuna realtà che non sia il linguaggio stesso, talmente potente da riuscire ad assorbire tutto il mondo dell’esperienza  e restituircelo lunare e sognante sciarada. È la nostalgia del sacro, dove possiamo trasformare nuovamente  l’assurdo in  mistero, la follia del nostro umano vissuto  in  un’ esperienza religiosa. Sia chiaro,  per Jabès  non c’è altra divinità che il deserto, poiché il nostro cielo ci ha ormai abbandonato e la città è diventata un miraggio dove si precipita “nella trappola del reale e dell’inverosimile”;   il  niente vince e “la totalità è colta in flagrante reato d’impostura”. Questa vittoria ci spoglia semplicemente delle nostre illusioni e dei nostri pregiudizi, Jabès ci regala così una “parola necessaria” nella consapevolezza che ogni scrittura -   e questa  in particolare - ferisce il foglio bianco e al tempo stesso lo consacra. È l’invisibile la cui ricchezza, pur destinata all’oblio,  ci stordisce. 

Su tutto aleggia un tema che scompare e sempre ritorna: quello dello straniero. È la posta in gioco dell’enigma: illuminarci attraverso la nozione della nostra fondamentale estraneità. Da noi stessi, dagli altri. Il silenzio cala come una preghiera in questo testo in cui tutto si disgrega e le scrittura diventa anche,  e misteriosamente,  una cancellazione; non siamo nient’altro che l’assenza di un volto sommerso dalle nebbie dell’anonimato contemporaneo. Jabès  si avvicina a certo pensiero cabalistico,  per rendersi progressivamente estraneo e straniero, ricordandoci che la nostra natura non somiglia a niente, è il Niente stesso che  ci contiene. La traduzione di Alberto Folin cerca di restituirci  anche i neologismi e le spirali labirintiche della scrittura di Jabès,   in questa edizione SE, al solito bella e necessaria, proposta in anni diversi - io la leggo nell’edizione 2001. In una nota finale sono chiarite alcune scelte,   quale per esempio questa: “Lo straniero? L’estran-io”, da étrange- je per omofonia con étranger. È un po’ il fulcro di questo pensiero: evocare lo straniero che è in noi, che noi siamo per noi stessi, per cui questa figura diventa emblematica e simbolica.

Compito della parola poetica  è rendere ”sensibile  il silenzio che in quanto tale si trova  al cuore della raggiante totalità”. Paradosso, poiché solo la parola può raccontarlo, il silenzio. Così in questa vertiginosa dinamica fra Dio e il niente, fra la parola e il deserto, ci giunge la voce di Jabès, concreta eppure trasognata, definitiva nel trafiggere le nostre illusioni, facendosi straniera nel suo percorso nel deserto.  Forse nessun Dio ci ascolta, ma l’ombra della sua inesistenza continua a perseguitarci. In fondo,  si può essere religiosi anche senza Dio, anzi forse questa è la religiosità più pura. O forse Dio è il limite impensabile di questo pensiero abissale.  Quel che mostra Jabès,  in questo libro straordinario,  è che l’incantesimo non è disgiunto da una certa insondabile spietatezza.

 Dio esiste solo come Assenza, di cui il Libro è testimonianza. È una forza del pensiero  e come tale Jabès sembra trattarla. Egli cerca di riformulare la nostra relazione con noi stessi, con il divino, ci seduce con una prosa ricchissima di suggestioni, concettuali, materiche, misteriche.

Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato è un libro enigmatico che ti scava dentro un‘immagine dell’enigma cosmico in cui siamo immersi.

 Jabès formula una domanda segreta anche laddove sembra affermare perentoriamente,  nella consapevolezza di un’erranza fondamentale del linguaggio che,  se insegue una verità, la trova frantumata in una miriade di enigmi. Nella lucida consapevolezza che questa verità del mondo  e di noi stessi sempre ci sfugge:

“Di ciò che ho potuto affidare al foglio, oggi mi rode quel che non ho saputo esprimere, come se ciò che non ho mai rivelato fosse la sola cosa che  avessi da esprimere.”

Congediamoci da questo libro con una delle più straordinarie definizioni di poesia che ricordi: “Il segreto è la chiave dell’anima, e la poesia, la parola del segreto.


7 commenti:

Condor ha detto...

Un bell'articolo, capace cioè di restare fedele all'enigmaticità impossibile e sfuggente dei testi di Jabès.

Solo una cosa mi sento di dover aggiungere: "Poiché il libro s'avventura incessantemente fuori dal libro."

Tra i tanti significati impliciti in una talmente densa, criptica polisemia, c'è questo: se qualsiasi parola è un tradimento della pagina bianca, se qualsiasi parola, perfino quella poetica, trae il proprio (ipotetico) valore esclusivamente dal fatto di rinviare, accennare, rendere più evidente e percepibile - per differenza; o al limite per approssimazione - la nuda, oscena, abissale assenza desertica del silenzio - allora la letteratura e soprattutto la poesia non possono che trarre il loro valore che dalla loro capacità di "avventurarsi incessantemente fuori dal libro": la poesia è tale ed è viva solo se è posta in un continuo rapporto con la rottura della poesia, con la negazione della poesia, con ciò che non è né poesia né letteratura. La poesia e la letteratura - come anche la filosofia - traggono il loro potenziale valore dal fatto di essere sempre sull'orlo della cancellazione, pronti all'autodistruzione, alla rinuncia alla parola per avventurarsi nel mondo, nel silenzio, nell'esperienza. Da questa dialettica impossibile e proprio per questo fertile - nasce l'arte, la poesia, la filosofia - nella loro precaria consapevolezza di essere meri indizi fugaci per arrivare a qualcos'Altro. Ciò distingue il Verbo vivo - vivo perchè continuamente pronto a negarsi, a sottrarsi, a tacere - dal mero esercizio sterile di letteratura mestierante, dalla mera operatività strumentale della retorica e della critica letteraria. Il libro si avvicina tanto più a Libro - quanto più è disposto ad autocancellarsi in favore di un'imprendibile, indefinibile, sfuggente Vita, Mondo, Reale - nella loro impossibile, indicibile Sostanzialità.

Ettore Fobo ha detto...

@Condor

Sì, concordo, poiché non si fa letteratura con la letteratura. Il silenzio è la culla in cui riposa la parola poetica, che nasce dall’esperienza di un infantile stupore. Se cessa questo stupore la parola s’inaridisce e diventa mestiere. È necessario che la parola poetica sappia di essere la scintilla che si genera nell’urto fra il silenzio e l’abisso dell’impensabile. La parola che si sottrae nel suo darsi, la parola che non descrive, la parola che non racconta ma è traccia di un incantesimo, bagliore di un canto sommerso, intuizione che affida al silenzio il suo tesoro… Quanti misteri la parola poetica deve rivelare e insieme nascondere nel fuggevole attimo della sua epifania! Per vivere di contraddizioni, di aporie, ancora una volta come ha scritto Roland Barthes, per “inesprimere l’esprimibile”. Così, per alcuni (per molti?) essa non ha valore perché incomprensibile, poiché non può essere sempre totalmente com-presa, completamente afferrata, così come non si può afferrare, per esempio, il volo di una farfalla ma solo, al limite, goderne.

Condor ha detto...

L'esempio della farfalla (o di un prato di fiori) dice tutto.

Un altro esempio è la danza Butoh, non so se hai presente.

Loro non usano parole. Eppure nella loro ricerca ci vivo esattamente la stessa sete di verità oscenamente nuda e tremendamente naturale, fino allo spasimo, dell'indicibilmente, incomprensibilmente, visceralmente autentico - che vivo nella poesia.

Danza di Oscurità, la chiamano: come la migliore poesia contemporanea, anzi come in generale la migliore poesia, anche la danza Butoh sfugge, infrange completamente ogni rappresentazione, ogni scimmiottamento, ogni finzione, ogni posa, ogni retorica, canone, ogni forma, ogni convenzione, ogni maniera, prescrizione e definizione/impostazione/costruzione/ripetizione/automatismo.

Da qui viene la portentosa intensità, freschezza e radicalità letale di ogni minimo gesto nel Butoh, ogni minimo accenno movimento di dita o incresparsi di luminosità nello sguardo. esattamente come in poesia ogni segno di punteggiatura è soffio vitale necessario.

https://www.youtube.com/watch?v=N9GtoKGLA6o

Condor ha detto...

p.s.: bella la tua nuova immagine di profilo!

E' perfetta per la citazione di Eliot.

Ettore Fobo ha detto...


@Condor

Ipnotica e lenta oppure convulsa e frenetica, inquietante e stranamente dolce. Ogni movimento, come dici tu, ha una sua letale cadenza. Bella di una bellezza però un po’ funerea. Intensa e sconcertante come spesso la poesia. Grazie del consiglio.

Elena ha detto...

Sembra magnifico. Non conosco questo poeta. Lo leggerò quanto prima. Spero di ritrovare almeno in parte ciò che ho trovato in questo testo.

Ciao Ettore,

Elena

Ettore Fobo ha detto...


@Elena

Per me si tratta di una delle scoperte più importanti degli ultimi 4- 5 anni, quindi lo consiglio. Grazie Elena, un caro saluto.