Dalla vita degli oggetti – Adam Zagajewski

sabato 3 dicembre 2016





Sgombro subito il campo da indecisioni e confesso che questo libro,  Dalla vita degli oggetti,  di Adam Zagajewski, poeta polacco pubblicato da Adelphi nella traduzione di Krystyna Jaworska nel maggio 2012, è stata una mezza delusione. Mi aspettavo molto, avendo letto sue poesie su riviste, quindi l’attesa era altissima e la mezza delusione si spiega anche con le eccessive aspettative. Intendiamoci, si tratta di un poeta dal talento cristallino ma che purtroppo mi è risuonato poco, non ha scavato in me con la chirurgica precisione della grande poesia. Cercherò attraverso questo scritto di capire perché. Per ora ho il sospetto che per avvicinarsi a questo poeta non siano sufficienti le due letture che ho dedicato al suo libro.

 La primissima sensazione è che le sue immagini siano spesso vaghe, le sue poesie trattengono a fatica qualche bagliore che però subito si spegne, non scava nella memoria. “Raggelato ardore” scrive la traduttrice nella nota finale, mi sembra un ottimo modo di definire questa poesia sfuggente, che calibra i suoi sogni sul metro di una pacatezza che li smorza. Ci sono però belle poesie  in cui la visione si allea con le ruvidezze della realtà, o testimonia  le mostruosità della  Storia, ma Zagajewski non sembra mai affondare la penna fino in fondo, è come indeciso, timido, perplesso.

 I protagonisti di questi versi sono filosofi (Kierkegaard, Schopenhauer, Hegel, Cartesio, Pascal, Nietzsche, Simone Weil), pittori (Van Gogh, Vermeer, Rembrandt, Morandi),  musicisti (Schubert, Mahler, Bach, Beethoven, Chopin), poeti (Machado, Keats, Sachs)  ma anche gente comune, le sue zie, per esempio. Nella poesia su Van Gogh c’è un’immagine potente, dove il volto del pittore è sintetizzato magistralmente nell’espressione ”inquietudine rivestita/di pelle”. Ma queste immagini scompaiono spesso in un flusso di versi che le seppellisce, le neutralizza. La brevità giova a questo poeta che fatica nelle poesie più lunghe  a tenere a bada i suoi peggiori nemici, quei miscugli di riflessione cerebrale e misurata pacatezza.

Ecco, la monotonia è in agguato in questo versificare lento, posato, un po’ troppo tranquillo e ogni immagine è filtrata dall’intelletto e le viscere, mute e sigillate, non ardono la visione che potrebbe incendiare la pagina.  Zagajewski pare un poeta freddo cui manca la crudeltà che renderebbe più intensi i suoi versi. La sensazione è che tutto sia meditato, tritato dall’intelletto e che ci sia poco spazio per l’irruenza visionaria della poesia. Tutto è troppo misurato, calcolato, non c’è grido, troppo spesso si sussurra in maniera inudibile e i versi scivolano via piacevoli ma non sempre  illuminanti. Zagajewski pare un poeta che procede a luci spente, oppure a velocità di crociera, qualche bel verso rimane impigliato ma la poesia riesce a trattenere a stento solo ”l’eco della burrasca” non la burrasca che vivificherebbe la pagina. Poesia  troppo sommessa, come interiormente placata, cui manca il fuoco di un’ immaginazione realmente spietata.

Per carità,  Dalla vita degli oggetti è un libro che conserva interesse;   le poesie sono attentamente modellate, belle in quella maniera un po’ asettica che non me le fa amare eccessivamente,  ma tutto sommato a questo testo manca qualcosa per essere un libro davvero decisivo. Poesia colta che smarrisce un po’ troppo l’incantesimo di una fresca ispirazione e alla fine a volte annoia persino.

Zagajewski è poeta della città (Leopoli, Parigi, Cracovia, Berlino, Varsavia, Houston…), città che si arresta e si fa quadro da qui la staticità del paesaggio che descrive pittoricamente, eppure  nella “chioma degli alberi si nasconde/la felicità”. La sua è una ricerca nella memoria, sulla traccia di maestri che hanno tutta la fragilità umana dalla loro parte e non la ieratica freddezza dei monumenti. In questi versi l’Italia è molto presente da Vicenza a Torino, da Venezia a Siena,  dalla Liguria,   alla Sicilia,  all’Umbria  e altro ancora  a dimostrazione dell’amore che il poeta nutre per il nostro paese.

È una poesia densa di domande,  come quella dedicata a Friedrich Nietzsche, dove il poeta si chiede come possano le parole  ardere dopo un secolo ”sotto il grave fardello della terra”; quale forza tenga uniti gli elementi e dove vada il nulla che in un’altra poesia viene definito “disperato”.

Una delle poesie più intense è dedicata alla Shoah, che comunque è un tema ricorrente. Ne riporto i versi finali, emblematici, perché come ultima annotazione in questo poeta gli oggetti hanno un valore simbolico enorme, una vita segreta,   come dimostra anche il titolo, versi che hanno  il  sapore di una poesia di Borges,  dove gli oggetti ci sopravvivono non sapendo mai che ce ne siamo andati.

In questi versi,  splendidi nel loro lucido orrore, protagoniste sono le scarpe degli ebrei  morti nel lager di Auschwitz,  che sopravvivono a loro: “Le scarpe di Auschwitz, una piramide alta/ fino al cielo, si lamentavano sommesse; /purtroppo siamo sopravvissute all’umanità./ Dormiamo, dormiamo, non abbiamo dove andare.”

La sensazione finale è che Zagajewski viaggi sotto traccia, nella dimensione impalpabile di una veggenza non appariscente e che abbia bisogno forse di più letture per emergere in tutta la sua potenza nascosta.

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