Autointervista con domande implicite – parte seconda

sabato 7 gennaio 2017







Leggi qui la prima parte.

La mia idea di letteratura è  un po’ quella di Manganelli, con meno ironia, forse, perché la penso come Pasolini, l’ironia, una certa ironia-  l’attitudine cioè a scherzare,  a minimizzare -    è spesso  un atteggiamento un po’  borghese.  Manganelli,  però,  ha tutte le ragioni del mondo quando sostiene  che la letteratura è mistificazione, menzogna. Nessuna verità da dire, costruzione intellettuale in bilico fra la burla e la profezia, gioco pericoloso in cui ci si danna l’anima per assecondare le ombre. Finzione anche la Storia, i cui  personaggi sono dei flatus vocis senza significato.  Glossolalica,  puttanesca infine  la poesia,  imbroglio calcolato al millesimo che ci rivela cos’ è il linguaggio umano, sospeso fra farneticazione e musica.

Proprio la musica  ha un ruolo centrale in Diario di Casoli. In quel periodo ero ipnotizzato da “Music for Airports” l’ album  di Brian Eno,  lo ascoltavo continuamente. Penso -  e in realtà  spero -  che quelle melodie avvolgenti, circolari, quelle spirali melodiche,  mi abbiano influenzato. Poi rompevo l’incantesimo di quella musica, con il ruvido suono dei CCCP, con la cantillazione ipnotica alternata al grido di Giovanni  Lindo Ferretti,  vi aggiungevo  la dolce, cinica per gioco,  fintamente ubriaca, di sicuro ironicamente dannata, musica di Guccini, maestro di poesia nei suo meravigliosi testi, secondo me, i  migliori della musica italiana  e penso, per esempio,  a una delle canzoni degli anni ‘90, neanche fra le più note,  “Lettera”.  Citerei i Grateful Dead, rivelazione di quell’estate, gruppo che conoscevo superficialmente. Sono entrato dentro quel mondo musicale fra psichedelia e folk e mi sono molto divertito. Ascoltavo Crosby Stills e Nash, per esempio. C’erano i Doors, naturalmente ma quelli li ascolto sempre. E i Velvet Underground, sì, quasi sempre. Che altro? Non so, Battiato, ma soprattutto come autore per Giuni Russo, Alice. Ascoltavo  quell’eccezionale album che è “Energie”, dove la voce di Giuni Russo ritma la follia metropolitana, l’alienazione, l’ allucinazione urbana. Penso che tutto questo mi abbia influenzato durante la scrittura di “Diario di Casoli”, io scrivo spesso ascoltando musica e i miei percorsi musicali sono strani, come si è visto da quello che ho appena detto.

Sento di aver ingannato il lettore, in quanto poeta è mio compito, naturalmente, il bucolico è solo il travestimento di un poema che realizza altro: la fuga di colui che è “passato al bosco” come recita più o meno Jünger. Ecco Diario di Casoli è traccia di questa illuminazione, che naturalmente trattandosi di poesia è finta, anche nel senso etimologico di modellata, costruita, artefatta.

Cosa posso dire  infine di questo flusso di parole che ho intitolato Diario di Casoli?   Che esso  racconta il mio passaggio al bosco, l’ingresso deliberato in quel tempio, quella “foresta di simboli”,  che è la natura. Un’indagine alla fine inquietante, una  straniante ricerca dell’altrove, nel sogno,  nel mito, nel mito di stessi,  di Casoli, del divino,  del nulla. Ecco così, ipotesi di lettura. Ma la domanda io la rivolgo al lettore. Solo lui possiede la chiave  di questo testo che io ho smarrita scrivendolo. La lettura che ha dato Tonelli, per esempio, per me è stata illuminante. Ha definito il poema un “vagare immobile verso l’impossibilità della parola”. Fantastico, non ci avevo pensato. Mi ha aperto alla comprensione del mio stesso testo come deve fare un vero  critico. E ciò mi lusinga oltretutto,   perché infine  ho imparato che capire e amare sono la stessa cosa.

Tre aggettivi per definire Diario di Casoli: orfico, onirico, bucolico, sul solco di una mistificazione, lunare che finge la luce, lucente che sogna la tenebra.

Spero che si possa dire della mia poesia che essa sia ribellione al senso comune, alla dittatura della Verità. È semplice ma complesso da dire. Con  la narrazione mistificatoria della poesia rispondo alla Narrazione mistificata dell’attualità e del mondo.

Il bucolico è l’ abbellimento, l’ornamento di qualcosa che in essenza potrei chiamare la rivolta, non quella chiassosa delle piazze, ma quella silenziosa del bosco. E si ritorna a Jünger al suo Trattato del ribelle, che parla del ribelle come di  “colui che è passato al bosco”, si è dato alla macchia, congiura con le forze astrali della sua unicità selvaggia e aristocratica.

Perché scrivo? Mah.  Forse Per resistere allo sfacelo, per oppormi alla pernacchia dei luoghi comuni e del qualunquismo linguistico, per indossare una maschera ed essere la finzione di una voce, un medium che porta un po’ di inferno in paradiso e viceversa… No,  no. Tutto falso, ovviamente. Scrivo perché non lo so, se lo sapessi non lo farei, sarei troppo cosciente e ciò mi paralizza, l’eccessiva coscienza ti blocca,  in poesia ci vuole abbandono, incoscienza, oblio. E torna il discorso del femminile. Torna la luna con il  suo silenzio oceanico. Ancora una volta l’acqua. A Casoli c’è un laghetto, ma è lo stesso. Bagni di Lucca è famosa per le terme.

Ho scelto o meglio mi si è dato un luogo piccolo, minimo, una frazione, quasi un villaggio, Casoli, dove nel silenzio della valle  ho potuto sentire il richiamo della vastità,  del bosco, della natura sacra perché altra e altra perché sacra. Questa scoperta dell’alterità non cessa di inquietarmi.

Fra le influenze aggiungo il Pasolini de Le ceneri di Gramsci,  in cui c’è un poema che parla molto dell’Appennino toscano,  di Ilaria del Carretto, questo straordinario monumento funebre di  Jacopo della Quercia che ho avuto la fortuna di ammirare due volte, nei versi di Pasolini e dal vivo, alla cattedrale di San Martino.  Ho girato intorno al monumento  avidamente, come per assorbire la sua bellezza. È stato un evento.  Un biancore scintillante, la grazia, l’abbandono.

Il passare del tempo nel poema è un battibecco fra luce e tenebra, che in quella dimensione sono entrambe assolute. Per questo parlo spesso di penombra che con la sua incertezza ci salva dalla luce troppo accecante e dal  buio troppo terrestre, ambiguo, spaventoso.

Qualcuno può pensare che potessi scegliere un titolo più evocativo,  più suggestivo, ne avevo anche uno ma mi avrebbe dirottato l’opera che vuole essere anche realistica, di un “realismo magico” però, una mappa del mio vagare mentale sì ma profondamente radicato nel luogo, territorializzato, direbbe Deleuze ma in questo  caso si tratta di una dislocazione, l’altrove. Beninteso: solo l’occhio visionario lancia uno sguardo realistico. Solo il sogno racconta la realtà e non la fredda astrazione della Ragione contemporanea, calcolante, utilitaristica.

In poesia c’è sempre il potlach, l’eccesso che deve essere distrutto altrimenti ti distrugge. Il Minotauro si traveste dunque  da fatina. L’inquietudine del buio diventa ardente desiderio di luce.

 La mia è una sorta di Lonely Planet mentale, una mappa della terra che non c’è, Casoli , “puntino sperduto nell’universo” lo chiamo in un verso, che per effetto dell’immaginazione diventa mitico, a tratti incantato(parlo di casa delle favole) a tratti spettrale( “il cimitero proietta una luce diabolica, sinistra”). Una collina  tutto sommato dolce,  diventa  aspra come la montagna, luogo archetipico, come archetipica è la valle. Si tratta anche  giocare a creare un mito di  se stessi. Così il poeta incontra Casoli, luogo sospeso fra il nulla e l’infinito, fra la luce amica e il buio diabolico, fra realtà e sogno.  Visione ipnagogica della penombra, che come dice anche l’etimologia  non è ombra ma quasi ombra. E così via.

A Casoli noi ci muoviamo così in un mito, il mito dell’altrove, il mito del bosco;  sono stati mentali,  sono la  soglia. Il primo libro di Ferlinghetti s’intitola A Coney Island of the mind. Qui non siamo a New York o a San Francisco, siamo  a Casoli ma è lo stesso. “Casoli is a state of mind,” potrei dire giocando ma non troppo. In Toscana si respira sempre un’atmosfera internazionale.

Ci sta che un minuscolo paesino collinare divenga montano, per effetto anche dell’immaginazione. Tecnicamente Casoli non è montagna, ma è come se lo fosse. Io ero  immerso in una valle circondata dai monti, nel silenzio rotto solo dal canto delle cicale. La mia mente ha iniziato a mormorare un canto di ringraziamento. Ho assecondato questo desiderio ed ecco Diario di Casoli.

Lo pseudonimo risponde all’esigenza della maschera. È la consapevolezza che scrivere poesie significa sempre indossare una maschera. Ettore Fobo non sono io, è un io fittizio generato dalla mia scrittura,  l’autore.  C’è una frase di Oscar Wilde a tal proposito,  illuminante : “Gli uomini mentono.  Date loro una maschera e  vi diranno la verità.”

Ma qui la maschera mi serve per rilanciare un’idea di mistificazione assoluta, di menzogna come grimaldello che permetta di scardinare la porta sul giardino incantato della pura invenzione. Nulla di vero in tutto ciò, sogno che si sfalda come un dente di leone… Eppure in questo sfaldarsi troviamo l’unica realtà, l’unica verità,  cui la nostra condizione umana ha possibilità di  accesso.

Fine


2 commenti:

Logos ha detto...

Ciao Ettore,
sai che è stato un onore avere questo tuo piccolo gioiello nella mia collana di poesia. Un viaggio personale, filosofico dentro l'impossibilità del desiderio assoluto.
Un libro da leggere.
Grazie
Alex

Ettore Fobo ha detto...


Grazie a te, Alex. Di tutto, come sempre.