I canti di Mihyar il damasceno - Adonis

sabato 10 marzo 2018





 Il dubbio, l’esilio, lo sradicamento, la mutazione perenne, l’attesa, lo smarrimento, lo smarrimento soprattutto, sono gli attributi di Mihyar, il “santo barbaro” di questo poema o prosimetro del poeta siriano naturalizzato libanese Adonis, I canti di Mihyar il damasceno , che Mondadori ha proposto  nella traduzione  di Fawzi Al  Delmi nel giugno 2017.  

È un libro originariamente pubblicato nel 1961, che diede fama al poeta in tutto il mondo arabo. Quasi ogni sezione di poesie è preceduta da una prosa, intitolata significativamente  Salmo, a rimarcare la sacralità dell’operazione. Ma è un sacro ambiguo quello che persegue Adonis, sulle orme di Nietzsche e del suo Zarathustra di cui Mihyar è evidentemente una rielaborazione.

Cogliamo sin da subito la densità oracolare e le suggestioni misteriche di questa scrittura vertiginosa. Quasi a ogni riga, in ogni passo di questo arduo cammino,  intravediamo una rivelazione e siamo in attesa e con il fiato sospeso. “Là dove passo scendono le cascate di un altro mondo”,  “E’ la realtà e il suo contrario,  la vita e ciò che non lo è”,  Sono la ferita del divenire”, così si definisce o viene definito Mihyar ma ogni definizione è solo un passaggio, perché in definitiva egli è un flusso di contraddizioni, un fiume che trascina immagini, maschere, specchi, miti, archetipi, da Sisifo ad Adamo da Noè a Satana, da poeti arabi come Abu Nuwas a Ulisse, da Diogene il cinico a Orfeo,  in quello  che si configura come un dialogo fra questa condensazione di personaggi e la “lingua dispersa/ […]/ nell’arcipelago dell’antica caduta.” Un dialogo fra culture, quella araba e quella greca, quella cristiana e quella ebraica, fra  il paganesimo e l’ateismo, con il Dio morto nietzschiano a fare da garante di questa dissoluzione. Perché tutte queste culture si dissolvono in un’unica figura, questa di Mihyar, colui che “vive nel reame del vento/ e regna sulla terra dei misteri”.  

Qui viene adombrata l’idea eliotiana del poema come sintesi suprema di filosofia, poesia, religione, mitologia, così pare titanico lo sforzo di Adonis di trovare una formula che metta in connessione ciò che in apparenza è lontano. Così la sua lingua è densa di analogie, echi, allegorie, invocazioni, evocazioni, sintesi altamente densa di contenuti culturali e psichici divergenti. Da qui la modernità sconcertante e predittiva dell’insieme. Perché questo testo,  come tutti i capolavori,  a distanza di quasi sessant’anni non ha ancora esaurito la sua forza di testimonianza dell’enorme frammentazione e disgregazione della cultura, anticipando anzi con forza visionaria la mescolanza,  l’ibridazione e la fusione in atto oggi a tutti i livelli.

Libro in cui la sacralità è presente ma che rifiuta ogni codifica di questo processo come dimostra la poesia intitolata Dialogo, dove Mihyar, messo davanti alla scelta fra Dio e Satana, non sceglie nessuno perché “ambedue sono muro/ ambedue mi sigillano gli occhi,/ dovrei cambiare un muro con un muro?” . La sua scelta è l’incertezza, perché essa illumina meglio il percorso, l’incertezza è propria del saggio che “sa  ogni cosa”. Antinomia, paradosso, che avrebbe potuto proferire Zarathustra. Così Mihyar va aldilà del bene e del male, cancella “la lingua del peccato”, oltrepassa Dio e Satana, sconfigge ogni dualità, armonizza gli opposti, fonde grazia e crimine, rende indistinguibile la trama di cui il mondo è tessuto, in questo modo arrivando alla profondità di una verità che forse uccide  o rende folli. Ancora una volta è Zarathustra di cui sembra risuonare il suo “Amici io v’insegno l’oltreuomo. L’oltreuomo è il fulmine e la demenza.”

Questa è una scrittura di vibrazioni,  di oscillazioni fra il sacro e il profano,  di veloci immersioni e subitanee riemersioni in cui la parola è scavata e fatta esplodere, sospesa su una fune sopra il silenzio, immaginifica fino a disegnare arcobaleni, abbagliante e insieme incline alla penombra,   la pagina di Adonis  pare la tavolozza di un pittore che sa usare i colori in tutte le loro sfumature. La parola che più designa questo straordinario poema è:  arabesco, laddove però alla cultura araba Adonis fonde un’idea occidentale di letteratura, raggiungendo a forza di fusioni l’universalità propria della poesia più profonda.

Il poeta,  incantatore della polvere”, vive  nelle parole che dona a un “mondo cieco” di cui non può o non vuole più essere la guida. A Mihyar non resta che essere presagio di un “dio che verrà”, abitare da poeta il nomadismo di “parole vagabonde”, abitare la sua patria che è il lontano, il fuggevole, “riconciliare gli dei ciechi/ e gli dei veggenti/per un’ultima volta”, sprofondando nello smarrimento, nello smarrimento che è “splendore” mentre “il resto è maschera”.

2 commenti:

Antares666 ha detto...

Ciao carissimo! Tutto bene?

Ettore Fobo ha detto...


Tutto bene, Antares, e tu? Come stai?