Jack Kerouac, poeta del blues

giovedì 23 aprile 2020




55° Chorus

Un giorno o l'altro alzeranno monumenti
costruiti in onore dei folli
quelli che oggi stanno in manicomio

Come primi pionieri del concetto
per il quale se perdi la ragione
attingi al sapere più perfetto

Il quale è immune da predicati
quali «lo sono, io voglio, io ragiono -»
-immune dal dire: «Lo farò»
- Immune

Immune anche da follia in virtù
del non contatto

Ma per intanto questi medici
deterministi credono davvero
che un matto è matto -

E per questo hanno eretto una religione
da un miliardo di dollari, detta Psico-medicina,
e ah -
Be' apprenderemo la normalità
dell'Ard Bar

Al mattino, alle volte, da soli
***
da “Il libro dei blues”- Jack Kerouac – traduzione di Massimo Bocchiola – giugno 1999 -  Oscar Mondadori

***
La parola jazzata, la parola beffarda, la parola ubriaca, biascicata, masticata, fatta a pezzi, frantumata, vomitata,   rigurgitata, la glossolalia festante, il linguaggio irriso nella sua nullità saccente, dispositivo di un potere coercitivo che rende la mente un serraglio di alienazione funebre e vuota, rottura di schemi già rotti dal dadaismo, Kerouac si attarda a svellere radici già divelte, da qui un certo senso di impotenza che fa tutt’uno con questa “gaia scienza” di demolizione linguistica, coincidendo con la spontaneità ricercata come Eden perduto, freschezza agognata ma non sempre raggiunta e a volte anzi artefatta e  irritante.

Questo Libro dei blues esalta la lingua della strada, il gergo dei bar, rischiando di localizzare eccessivamente l’universalità della poesia, trasformata in argot goliardico spumeggiante sì ma senza la solenne caratura di una parola sibilata dal destino stesso. Qui siamo nello schianto, dentro il linguaggio collassato della contemporaneità e delle avanguardie.

Il libro rimane comunque per lunghi tratti – almeno cinque degli otto poemi qui raccolti valgono la pena -  uno dei lasciti migliori di Kerouac, che,  se ignoro quasi totalmente come narratore  - pleonastico tutto,  a partire dall’inutile e forse sciocco On the Road-   ho imparato ad apprezzare come poeta di birbonate, marachelle, milleriani sputi in faccia all’arte, giochi verbali che raggiungono a volte un’interessante sentenziosità zen da saggio - “bambino che si duole di essere cresciuto”,  come nei versi di Vincenzo Cardarelli.

Leggo il libro tradotto, direi eroicamente, se mi passate il termine, da Massimo Bocchiola. Eroicamente perché questo linguaggio, che tenta la strada melodica e monotona del blues, è pressoché impossibile da rendere in italiano. Così ci accontentiamo di questo puzzle di parole e ritmi spezzati, che a tratti sembra una poltiglia fangosa in cui però emergono diamanti  come la poesia sopra riportata che conoscevo già per averla letta in un’antologia.

Libro dei blues che ha momenti di radiante e incongrua bellezza, radiante proprio perché incongrua, se bellezza coincide con questa pernacchia che dissolve ogni stile e divampa in faccia ai professoroni con il dito alzato, l’occhiale sul naso, voce baritonale ”Ah questa no, non è poesia”, pronti a segnare con la penna rossa ogni deviazione dalla norma codificata di una letteratura stantia e conforme al dispositivo di potere di cui sopra, i vari Benedetto Croce con la puzzetta sotto l’aristocratico naso. Certo non abbiamo a che fare con un maestro di stile ma con un uragano di vitalità che non accetta di essere chiuso nell’ampolla rassicurante dei codici letterari.

C’è il rischio di fare di questa lingua di strada un esoterico linguaggio di iniziati, eccessivamente localizzabili in un periodo storico,  in un luogo di autoreclusione,  foss’anche la sterminata America dei bassifondi, dove comunque l’irriverenza infantile di Kerouac sembra punzecchiare di più il Moloch del Buon Senso,  rispetto al suo amico e sodale Ginsberg, con la sua solennità di bardo barbuto, quest’ultimo  moralisticamente teso a denunciare la caduta morale del mondo capitalistico, quasi intento  a salvare il mondo dalla catastrofe psicoindustriale, con velleità addirittura messianiche.
  
Nulla di tutto questo in Kerouac che trova nella propria mente la propria buddistica trappola psichica  e trova le chiave di nonsense e birbonate linguistiche per uscire dalla cella, nel sogno di una beatitudine che nichilisticamente forse coincide con il non pensare. Filosoficamente incerto, ma intensamente in ricerca, balbuziente sull’orlo di una rivelazione profetica, Kerouac con Il libro dei blues soprattutto nella prima metà, realizza una poesia di rara originalità che nella sua caotica irriverenza mostra una letteratura socialmente disimpegnata, irregolare, persino sintatticamente  immorale, il canto di una cicala ubriacata del ritmo jazz in un formicaio di formiche brutalmente sobrie fino alla pazzia. Questa del resto è l’America, puritana, bigotta, oppressiva, politicamente corretta oggi perché eticamente ipocrita da sempre;  prendere o lasciare, con buona pace di Hollywood.


2 commenti:

sinforosa c ha detto...

“Ai tempi” ho letto tutto il leggibile di questo autore e dei suoi amici, i grandi e straordinari autori della “beat generation”. Indimenticabile scritti.
Buon giorno.
sinforosa

Ettore Fobo ha detto...

@sinforosa

Io ho apprezzato soprattutto la loro poesia. Buona giornata e grazie del commento.