giovedì 20 agosto 2020
Avevo vent’anni (lasciamo riecheggiare il celebre incipit di Paul Nizan) e vagavo nelle aule universitarie milanesi come un reduce ferito di qualche guerra psichica, stralunato leggevo, scrivevo, ai margini del tempo rubato agli studi che così placidamente si dissolvevano, quando un giorno in una libreria del centro di Milano mi imbattei in questo In exitu, che scoprii essere l’ultimo romanzo di Giovanni Testori, che ai tempi conoscevo soprattutto come il poeta di quel libro memorabile che è Suite for Francis Bacon. Lo sfogliai, lessi qualcosa, mi colpii particolarmente essendo reduce dalla lettura dell’AntiEdipo di Deleuze- Guattari, dove, trasognato, leggevo della natura psicotica della grande letteratura. Mi spaventò, anche, questo libro, perciò lo lasciai lì, optai per altre scelte. Ora quell’esperienza di lettura fuggevole in libreria (era il Libraccio vicino via Larga, per chi conosce Milano) mi era rimasta dentro, In exitu si rivelò uno di quei libri magnetici cui si dedica un culto tutto sotterraneo ma è a distanza di più di vent’anni che lo leggo in questa edizione Feltrinelli del luglio 2020, impreziosita dalla splendida copertina di Riccardo Vecchio.
La grande letteratura è attraversata sempre da flussi psicotici, così suona il concetto di Deleuze- Guattari, frase utile per avvicinare questo magnifico e terribile canto, alterato, delirante, dove il linguaggio esplode, s’inceppa, cerca una via di fuga impossibile, diventa un flusso che disarticolando il parlato fin quasi sulle soglie della glossolalia, ce lo restituisce nuda e cruda esperienza epifanica ai limiti del dicibile, linguaggio che si squama come un serpente, s’inceppa, rivela la sua natura originaria di montaliano ”balbo parlare”.
Qui lo ”scrivano” Giovanni Testori accoglie le ultime parole, le invettive, i ricordi, le farneticazioni di un tossicodipendente oramai prossimo alla dose fatale, Riboldi Gino, in una Milano soffocata e soffocante assistiamo alla rottura dei codici linguistici normalizzanti, operata con precisione chirurgica dallo scrittore milanese.
Pastiche linguistico che, se sembra acclimatare fra le nebbie milanesi la lingua di Artaud, destruttura un intero mondo di conformismi linguistici. La trama è disseminata nel testo, s’intuisce in filigrana traverso un linguaggio sbriciolato, stordente, martirizzato, ibridato profondamente con il dialetto milanese a sua volta deformato dall’irruzione di altre lingue (soprattutto il latino e il francese).
Testori configura così una lingua altra, una lingua ombra per raccontare una vita marginale, la lingua dei bassifondi che oltre che sociali sono prima ancora psichici.
Qui tutto è condensato in questo stile scabro, duttile, fluttuante ma marmoreo quasi nel riprodurre il fragile balbettio vicino alla demenza di un ”nessuno” che scopriamo abitato da voci dell’infanzia (la mamma, il papà, la maestra…) abbandonato da una città moralista e assassina al proprio personale privato naufragio. Gino Riboldi è nelle sue stesse parole un “nessuno” ma anche un Cristo flagellato, aggredito da forze che sono linguistiche prima che materiali. Così scopriamo che ai margini della città, luogo psichico, l’essere umano, deviando dalla norma sociale, deraglia, delira, sprofondando in una trappola e denunciando la normalità come zona di una banale e brutale sopraffazione di tutto ciò che, diverso, non si allinea.
Questo linguaggio ombra è una caricatura blasfema, parodia allucinata di quello comune, mostra che fuor di mente, nella demenza brilla la luce di una ferita che il sociale infligge alla vita puramente e selvaggiamente umana. È la luce delle nostre profondità nascoste dal velo - muro dei luoghi comuni legiferanti. Qui il linguaggio di Riboldi Gino, eroinomane in fase terminale e omossessuale che si prostituisce per una dose, esplode dall’interno, spezzando con la forza della sua primordiale disperazione il diamante del Senso codificato che tiene unita la lingua.
Blasfemo, struggente, colmo di un desiderio deluso di sacralizzare la vita, melodioso canto infranto contro le scalinate della Stazione Centrale di Milano, dove tutto accade e dove nel 1988 si svolse una leggendaria rappresentazione teatrale del testo; il monologo del protagonista Riboldi Gino mette in crisi le nostre più elementari coordinate linguistiche mostrando che esse formano solo un illusorio senso laddove trema solo l’insensato della vita forse come epifania sacra ma è un sacro dirottato dalla sua solennità verso le regioni del grottesco.
Il grido di dolore di questo tossicodipendente unisce le bestemmie di chi crede ma non sa alle accuse contro un mondo feroce e indifferente e come una sotterranea, delirante, preghiera sembra confluire in questo fiume che trascina come detriti linguistici i pensieri di un giovane che sta per essere ucciso dall’eroina. Cortocircuitata da una forza tellurica interiore, la lingua spezzata di Riboldi Gino sembra testimoniare l’indicibile di un dolore germinato nel territorio dell’esclusione sociale.
Sono quelli di Testori i lacerti di una lingua perduta, dimenticata, faticosamente riaffiorante dalle nebbie milanesi. Lingua perduta nel suo sforzo di dire ciò che si deve tacere, questa diversità irriducibile, sessuale, sociale che fa di Riboldi Gino un Cristo crocifisso al nulla che sente emergere in sé. Lettura di una gioventù perduta che Testori conduce sul filo di una rigorosa follia sintattica che sembra fare luce sugli abissi che la parola sempre cela in sé.
Per dire il vuoto di questa generazione perduta, è necessario aggredire le fondamenta del linguaggio, mettere in discussione la dicibilità stessa del reale, finalmente tarpato nella sua pretesa di essere un dato assoluto, incontrovertibile, evidente.
Qui Milano, città matrigna e cannibale, è il luogo in cui si consuma la tragedia di Riboldi Gino, nell’indifferenza e nell’ombra. Tragedia di un ridicolo ”nessuno”, di un ego annientato da un male di vivere denso, melmoso come l’infida, la nemica, nebbia milanese che ne diventa il correlativo oggettivo.
Il corpo emerge: nelle sue secrezioni, nel sangue, nella materia celebrale, nel vomito. Noi umani siamo scagliati fuori dal sesso femminile, espulsi come scarti gettati fuori, dalla carne alla carne, alla vita malsana della metropoli, alla vita non vita dell’eroina, alla vita prigioniera degli stereotipi, che intasano la mente e soffocano il pensiero. È questo un linguaggio che tende a ripristinare il fascino grezzo dell’oralità, un’oralità sempre interrotta, spezzata, come se ciò che si vuole dire fosse proprio l’interdizione sociale che ci induce precocemente al silenzio.
La parola trema di paura davanti allo specchio che Testori le porge e noi con lei. Chi siamo? Tumulto di significanti senza più alcun rassicurante significato.
La figura di Cristo emerge, s’inabissa,
riemerge in questo flusso di parole come se egli stesso fosse chiamato in causa
per testimoniare l’abisso del dolore umano, nel pieno di questo delirio che
esonda potentemente intriso di una verità che, come scrive Sonia Bergamasco
nell’introduzione, ”ci attrae e ci repelle” allo stesso tempo. Perché è come
sollevare la pelle del linguaggio e vederne le nervature, il sangue, ciò che sta sotto.
“Narri chi era quest’indiziato. Lui. Quest’esecrato questo. ‘Sto giudicato. ‘Sto bollato, anca. Condannato, anca. Dagli. Dai. Libertari. Dalla coscienza-scienza-merda.”
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